giovedì 6 ottobre 2011

ASPETTANDO IL SONDINO DI STATO


Nutrizione obbligatoria
Qualunque cattolico praticante, lo stesso Papa tedesco, se venisse a trovarsi un giorno in condizioni simili a quelle di Welby, potrebbe chiedere in Germania – con l'autorizzazione della legge e con la benedizione della sua Chiesa – di essere lasciato “andare dal Padre”. Una strada che in Italia troverebbe sbarrata se dovesse diventare legge l'obbrobrio giuridico in dirittura d’arrivo al Senato. - Di Marlis Ingenmey.
Se Welby, quel giorno …
Quale sviluppo avrebbe preso in Italia la discussione

sul fine vita e sul Testamento biologico se nel suo video-appello del 22 settembre 2006 ovvero lettera aperta al Presidente della Repubblica, un “grido … carico di speranza umana e civile per questo nostro Paese”, Piergiorgio Welby, affetto da distrofia muscolare pervenuta all’ultimo stadio, invocando per sé e per tutti i malati terminali che la desiderassero, una morte “opportuna”, non avesse parlato, per passione politica, di “eutanasia”? Se avesse incentrato il suo toccante messaggio sul “diritto”, costituzionalmente riconosciuto e garantito, all’autodeterminazione di ciascuno in materia di salute, chiedendo subito alle autorità competenti – come fece poi sulla fine di novembre rivolgendosi alla magistratura – di disporre l’immediata cessazione, “sotto sedazione terminale” onde “scongiurare ulteriori patimenti”, dell’“attività sulla propria persona di sostentamento a mezzo di ventilatore artificiale”, capace ormai solo di “differire nel tempo l’ineludibile e certo esito infausto”?
Quale sviluppo avrebbe preso quella discussione se i medici curanti di Welby, invece di lasciarsi spaventare dalla parola “eutanasia”, che in quei mesi imperversava nei mass media, e almanaccare sul fatto che, quando il paziente fosse sedato e dunque “non più in grado di decidere”, scatterebbe, in relazione al rischio della vita, l’obbligo di procedere immediatamente a riattaccare l’apparecchio al fine di “ristabilire la respirazione”, si fossero chiesti se erano autorizzati a ignorare la sua “libera, informata, consapevole e incondizionata volontà” attuale e di tenervelo ulteriormente attaccato, visto che, recepito l’inequivocabile disposto costituzionale, già l’edizione del 1998 del Codice di deontologia medica (che i medici “devono osservare nell’esercizio della professione”) recitava all’art. 32: “In presenza di documentato rifiuto di persona capace di intendere e di volere, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona”, e precisava all’art. 37, riguardo ai casi di malattie a prognosi sicuramente infausta o pervenute alla fase terminale: “Il medico deve limitare la sua opera all’assistenza morale e alla terapia atta a risparmiare inutili sofferenze”? Nel caso di Welby, insistere con la ventilazione artificiale non avrebbe risparmiato ma prolungato nel tempo le sofferenze inutili e configurato un reato ai sensi dell’art. 610 della Sezione “Dei delitti contro la libertà morale” del Codice penale che prevede la “Violenza privata”: “Chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa è punito con la reclusione fino a quattro anni”. Del resto, come si sa, l’Ordine dei medici di Cremona assolse poi all’unanimità (“Non si rilevano violazioni del Codice deontologico”) il collega Mario Riccio perché aveva aiutato Welby “nel morire, non a morire”. Per l’Ordine dei medici non ci fu “eutanasia”.
Quale sviluppo avrebbe, infine, preso la discussione sul fine vita e il Testamento biologico se il giudice designato del Tribunale di Roma, Angela Salvio, fosse stata coerente? Nella sua pronuncia sul ricorso ex art. 700 CPC di Welby, depositata il 16 dicembre 2006, dove non ricorre mai la parola “eutanasia”, essa definì “il principio dell’autodeterminazione e del consenso informato … una grande conquista civile delle società culturalmente evolute” che “permette alla persona … di decidere autonomamente e consapevolmente se effettuare o meno un determinato trattamento sanitario e di riappropriarsi della decisione sul se ed a quali cure sottoporsi” e ciò “in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale, in cui deve ritenersi riconosciuta all’individuo la libertà di scelta del come e del quando concludere il ciclo vitale, quando ormai lo spegnimento della vita è ineluttabile, la malattia incurabile e per mettere fine alle proprie sofferenze”. Ecco perché ha potuto e dovuto giudicare “sussistente” il “diritto” di Welby “di richiedere l’interruzione della respirazione assistita ed il distacco del respiratore artificiale”. Nel dichiarare ciò nonostante il suo ricorso “inammissibile” perché, secondo lei, “trattasi di un diritto non concretamente tutelato dall’ordinamento”, lamentando la mancanza di una delimitazione giuridica di ciò che va considerato “accanimento terapeutico”, le è evidentemente sfuggito che le norme costituzionali a presidio di diritti primari (quale è l’art. 32) sono imperative e di immediata operatività senza la, altrove necessaria, intermediazione legislativa. La giudice Salvio avrebbe potuto chiudere il caso Welby quel giorno stesso accogliendo in toto il suo ricorso ed emanando i provvedimenti opportuni richiamandosi all’art. 51 del Codice penale, in base al quale nel luglio successivo il gup del Tribunale di Roma, Zaira Secchi, avrebbe prosciolto (“Non luogo a procedere”) il dottor Riccio dall’accusa di “omicidio del consenziente”, e che recita: “L’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica … esclude la punibilità …”. L’anestesista che si fosse prestato a staccare la spina, come richiesto da Welby, sarebbe stato “non punibile per la sussistenza dell’esimente dell’adempimento di un dovere”. Anche per la giurisprudenza non ci fu “eutanasia”.
Forse …
Forse, se le cose fossero andate davvero così, avremmo avuto, sulla scia del caso di Piergiorgio Welby, prima della Germania (che se l’è data nel 2009), anche una buona legge sul Testamento biologico già nella passata legislatura (e Beppino Englaro avrebbe dovuto faticare meno per far valere la ricostruita volontà della sua sfortunata figliola), perché fin da quella sera del 22 settembre 2006 avrebbe fatto presa sui cittadini – ma per forza anche sui rappresentanti della Nazione tutta e sull’esecutivo di allora – e sarebbe stato presto metabolizzato il concetto di “autodeterminazione in materia di salute”, a scapito del termine “eutanasia”, spauracchio agitato da allora (specialmente, appunto, nei mesi in cui ha invaso le pagine dei giornali ed è poi stato risolto il caso di Eluana) dalle gerarchie della Chiesa di qua e di là del Tevere e dalla parte meno emancipata ed europea dei cattolici tra chi attualmente ci governa e siede nel Parlamento, per imporre, nell’assetto pluralista di una Repubblica laica, le proprie concezioni morali della “vita” come “bene indisponibile”, demonizzando come parto del “relativismo contemporaneo” e defalcando goffamente conquiste come i “diritti” e le “libertà” individuali, presidiati da norme costituzionali di cui il cittadino si può – ma non per questo si deve – avvalere.
Forse il cardinale Ruini, all’epoca vicario della diocesi di Roma, ci avrebbe pensato due volte prima di negare a Welby il funerale religioso, perché lo sdegno da parte anche del mondo cattolico, manifestato apertamente dopo la sua decisione, sarebbe stato ancora più sferzante.
Forse il cardinale Martini avrebbe trovato maggiore ascolto col suo articolo sul “Sole 24 ore”, con cui, un mese esatto dalla morte di Welby, invitava a dare “più attenta considerazione anche pastorale” a “situazioni simili” che “saranno sempre più frequenti”: “… le nuove tecnologie che permettono interventi sempre più efficaci sul corpo umano richiedono un supplemento di saggezza per non prolungare i trattamenti quando non giovano più alla persona. E’ di grandissima importanza in questo contesto distinguere tra eutanasia e astensione dall’accanimento terapeutico, due termini spesso confusi. La prima si riferisce a un gesto che intende abbreviare la vita causando positivamente la morte; la seconda consiste nella ‘rinuncia … all’utilizzo di procedure mediche sproporzionate e senza ragionevole speranza di esito positivo’ (Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 471)”. Evidentemente il cardinale Martini, riguardo al caso Welby, ha fatto quella distinzione, quando insiste a citare che “evitando l’accanimento terapeutico ‘non si vuole … procurare la morte: si accetta di non poterla impedire’ (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2278)”.
Forse Papa Ratzinger, per il quale la vita di ogni essere umano va difesa “dal concepimento fino al suo termine naturale” (anzi “fino al suo naturale tramonto”, come ebbe a dire pochi giorni dopo la morte di Welby), e “l’eutanasia è una falsa soluzione al dramma della sofferenza, una soluzione non degna dell’uomo”, non avrebbe non potuto ricordarsi e ammettere – perché sicuramente sarebbe venuto fuori – che, per la Conferenza episcopale tedesca, dal divieto per il credente di disporre liberamente della propria vita, non deriva un suo obbligo di ricorrere a tutti i ritrovati della scienza medica e della tecnologia per prolungarne artificialmente la durata. Lo aveva già detto, nel lontano 1980, la Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede nella Dichiarazione sull’eutanasia che dedica un intero capitolo, il quarto, a “L’uso proporzionato dei mezzi terapeutici”, e precisa: “E’ molto importante oggi proteggere, nel momento della morte, la dignità della persona umana e la concezione cristiana della vita contro un tecnicismo che rischia di divenire abusivo. Di fatto, alcuni parlano di ‘diritto alla morte’, espressione che non designa il diritto di procurarsi o di farsi procurare la morte come si vuole, ma il diritto di morire in tutta serenità con dignità umana e cristiana … Nell’imminenza di una morte inevitabile nonostante i mezzi usati, è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita…”, e tale “decisione” “spetterà in ultima analisi alla coscienza del malato o delle persone qualificate per parlare a nome suo …”.
La traduzione tedesca del paragrafo 2278 del Catechismo che parla dell’“accanimento terapeutico” – termine che non esiste in tedesco per cui quel passo è reso a senso –, si apre infatti con l’affermazione: “La morale non richiede terapie a ogni costo”. Con la scelta della parola “morale” viene marcata in modo inequivocabile la differenza tra, da un lato, “un’azione oppure un’omisssione che, da sé o intenzionalmente, provoca la morte allo scopo di porre fine al dolore”, di cui al paragrafo 2277, che “costituisce un’uccisione gravemente contraria alla dignità della persona umana”, “eutanasia diretta” (altrimenti detta anche “eutanasia attiva”), “moralmente inaccettabile”, e, dall’altro lato, tanto “L’interruzione”, di cui al paragrafo 2278, “di procedure mediche straordinarie oppure sproporzionate rispetto ai risultati attesi, onerose e pericolose” (che vanno oltre l’accanimento terapeutico), che “può essere legittima”, pertanto moralmente accettabile, quanto “L’uso di analgesici per alleviare le sofferenze del moribondo, anche con il rischio di abbreviare i suoi giorni”, già nel testo, paragrafo 2279, definito “moralmente conforme alla dignità umana”. Per i vescovi tedeschi, le “omissioni” e le “azioni” di cui agli ultimi due paragrafi del capitolo “Eutanasia” del Catechismo si configurano come “eutanasia passiva” rispettivamente “eutanasia indiretta”, entrambe “moralmente accettabili”.
Qualunque cattolico praticante, lo stesso Papa tedesco, se venisse a trovarsi un giorno in condizioni simili a quelle di Welby, potrebbe chiedere in Germania – non solo perché, come prima la giurisprudenza, ora glielo concede la legge, ma anche con la benedizione della sua Chiesa – di essere lasciato “andare dal Padre”, una strada che in Italia troverebbe sbarrata se dovesse diventare legge il papiro, un capolavoro di stolidezze, intitolato Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento (DAT), in dirittura d’arrivo al Senato, che “riconosce e tutela la vita umana, quale diritto inviolabile e indisponibile, garantito … fino alla morte accertata nei modi di legge” (l’articolo 1, comma primo), e fa, come fa lui, di “qualunque forma di eutanasia”, metaforicamente parlando, un fascio.
L’“eutanasia” di qua e di là delle Alpi
I vescovi tedeschi insistono sulla “tripartizione” dell’“eutanasia” (ossia “Sterbehilfe”, “aiuto” a ma anche nel “morire”, sinonimo dalla fedina pulita), ripresa a suo tempo dalla Federazione nazionale degli Ordini dei medici e, fino all’entrata in vigore della legge sul Testamento biologico, spesso anche dalla giurisprudenza (che usava tuttavia gli aggettivi quasi sempre preceduti da un “cosiddetto”). Per i vescovi italiani e, per l’occasione, per il Vaticano, e ormai anche per molti italiani, cattolici e non, l’“eutanasia”, picchia e ripicchia, è, invece, un “blocco monolitico”: esiste unicamente quella “attiva”. Lo dimostra la “lettura” che la maggior parte dei nostri quotidiani ha dato di una sentenza sull’argomento, emessa nel giugno dell’anno scorso dalla Cassazione tedesca, che ci può aiutare a fare maggiore chiarezza quanto alla definizione di questa parola.
“Berlino ‘apre’ all’eutanasia” (“Avvenire”), “Germania, primo sì all’eutanasia” (“Il Secolo XIX” e “la Repubblica”), “Eutanasia, in Germania si può” (“l’Unità”), “Germania, svolta storica. Sì dei giudici all’eutanasia” (“La Stampa”), “Berlino, Corte Suprema: ‘L’eutanasia è legale se richiesta dal paziente” (“Il Giornale”), “Eutanasia: ‘Scelga il malato’. Storica sentenza in Germania” (“Liberazione”), “La Germania e l’eutanasia. ‘Legittimo lo stop al cibo’” (“Corriere della Sera”), e via intitolando. Fautori e nemici giurati parlavano poi anche nel testo di “eutanasia” senza meglio qualificarla ma sottintendendo quella “attiva”, pochi di “eutanasia passiva”, altri evitavano, incerti, l’uso del termine. In realtà non si trattava, invece, né di una “svolta storica” o “storica sentenza”, né di un’“apertura” all’eutanasia, meno che mai di una sua “legalizzazione” se la si intende come, appunto, “attiva”.
La sentenza StR 454/09 del 25 giugno 2010 accoglie il ricorso di un avvocato avverso una condanna, per tentato omicidio, a 9 mesi di reclusione con la condizionale, inflittagli dalla Corte d’appello di Fulda il 30 aprile del 2009. La causa riguardava la cessazione di nutrizione e idratazione nel caso di una paziente in coma vigile da cinque anni, tenuta artificialmente in vita grazie alla PEG, all’impiego della quale si era in precedenza dichiarata contraria. L’avvocato aveva consigliato alla sua mandante, figlia e tutrice dell’interessata, visto il rifiuto del personale della casa di cura che ospitava sua madre di cessare il trattamento non più voluto, di tagliare personalmente il tubo per impedire l’immissione dei nutrienti. Ne riporto il testo integrale: “1. Prestare aiuto nel morire a un paziente non iniziando, limitando nel tempo o cessando un trattamento medico (sospensione di un trattamento medico) è giustificato se ciò corrisponde alla volontà reale o presunta dell’interessato e serve a lasciare che un processo patologico che conduce comunque alla morte, prenda, non più curato, il suo decorso naturale. 2. La sospensione di un trattamento medico può avvenire tanto per un’omissione quanto per un’azione. 3. Azioni con cui si interviene miratamente sulla vita di una persona che non siano legate alla sospensione di un trattamento medico, non trovano giustificazione nel consenso dell’interessato.”
Questa sentenza, tuttavia, è importante, perché traccia netto il confine tra, da un lato, l’esecuzione – non solo con un’“omissione” ma anche con un’“azione” (tagliare il tubo) – della volontà reale o presunta di un paziente come espressione del suo diritto all’autodeterminazione terapeutica, la volontà, in questo caso, di essere “lasciato morire” ovvero che “il processo patologico … prenda, non più curato, il suo decorso naturale”, e, d’altro lato, la richiesta di un paziente di essere “fatto morire” che, se esaudita, si configura come “eutanasia attiva” (ieri e oggi reato in Germania), perché messa in opera con un’“azione” a sé stante (cioè al di fuori di una “sospensione di un trattamento medico”) che, come la somministrazione di una sostanza letale, “mira” direttamente a porre fine alla vita di una persona. La contrapposizione, per i tedeschi, almeno per i giudici e per i medici, ora non è più tra “eutanasia passiva” e “eutanasia attiva”, bensì tra “sospensione di un trattamento medico” in base a un diritto costituzionalmente garantito e fulcro di un’apposita legge ordinaria, e “eutanasia”, col solo significato, non espresso, di “attiva” .
Al di là delle Alpi è, come si vede, lecito sospendere, su richiesta dell’interessato, non solo con un’omissione ma anche con un’“azione”, fra i “trattamenti medici” perfino la nutrizione e l’idratazione artificiali che da noi – dove l’autodeterminazione terapeutica è, per dirla con le parole dell’allora monsignor Betori (nella sua ultima conferenza stampa come segretario della CEI), “… una visione che va contro le radici cristiane della nostra cultura” – verranno, magari a suon di fiducia, imposto tra poco per legge a tutti, ci verrà propinato il “sondino” anche se non lo vogliamo, e con una motivazione quanto mai strampalata. Gli autori di quell’obbrobrio, infatti, si richiamano, in mancanza di altro testimone, niente meno che alla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, fatta a New York il 13 dicembre 2006, per la quale “gli Stati Parti devono” (articolo 25f) “prevenire il rifiuto discriminatorio di assistenza medica o di prestazione di cure e servizi sanitari o di cibo e liquidi in ragione della disabilità”. Recita infatti l’articolo 3, comma quarto del disegno di legge (salvo modifiche dell’ultima ora): “Anche nel rispetto della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità … alimentazione e idratazione, nelle diverse forme in cui la scienza e la tecnica possono fornirle al paziente, devono essere mantenute fino al termine della vita, ad eccezione del caso in cui le medesime risultino non più efficaci nel fornire al paziente in fase terminale i fattori nutrizionali necessari alle funzioni fisiologiche essenziali del corpo …”. Sapranno Lorsignori che detta Convenzione rivendica anche per i disabili (articolo 3a) “l’autonomia individuale, compresa la libertà di compiere le proprie scelte”?
Eppure …
Eppure l’attuale presidente della Commissione Igiene e Sanità del Senato, Antonio Tomassini, medico di professione e presidente onorario dell’Associazione nazionale “Europa dei diritti”, fu il primo firmatario di un disegno di legge, Norme in materia di dichiarazioni anticipate di trattamento, presentato nel maggio del 2004 e assunto come testo base da fondersi con altri due nel 2005 dalla stessa Commissione, anche allora da lui presieduta, che avrebbe potuto portare a una legge equilibrata, ma non arrivò mai in Aula. Esso partiva infatti dal ragionato presupposto costituzionale dell’autodeterminazione in materia di salute per confermare che ogni trattamento sanitario “è subordinato all’esplicito ed espresso consenso dell’interessato, prestato”, “dopo accurate informazioni”, “in modo libero e consapevole”. Le “direttive” (altro che “orientamenti e informazioni utili per il medico”, come vogliono le DAT) contenute nelle sue “dichiarazioni anticipate”, dovevano essere “impegnative per le scelte sanitarie del medico”, salvo in presenza di “sviluppi delle conoscenze scientifiche e terapeutiche” non previsti dall’interessato al momento della redazione. Eppure, prima che Welby lanciasse il suo grido, il 28 luglio del 2006, qualcuno (Giordano Bruno Guerri) scrisse, a favore della proposta di legge presentata quell’estate da Umberto Veronesi, su “Il Giornale”: “Non c’entra essere di destra o di sinistra: si tratta di lasciare all’individuo una scelta fondamentale e inalienabile sulla propria vita …”, “… il diritto alla libertà personale è un fondamento della Costituzione italiana”, “… con la nuova legge sarà lo stesso malato a decidere, non di morire, ma di non venire più ‘curato’ oltre ogni ragionevolezza”, “… una libera scelta che non obbliga nessuno, ma che non può essere ulteriormente negata a tutti, sempre e comunque …”
Eppure …
(4 ottobre 2011)