venerdì 8 aprile 2011

“SE IL PAZIENTE È INCURABILE LASCIATELO MORIRE”




8 aprile 2011 - Una sentenza della Cassazione condanna per omicidio colposo dei medici per accanimento terapeutico.
Non è il caso Eluana Englaro, ma un po’ gli somiglia, per alcuni aspetti. In entrambi le vicende, si tratta di una pronuncia molto dura contro l’accanimento terapeutico. La Corte di Cassazione ha oggi messo la parola definitiva sul caso dei tre chirurghi che operarono una donna, malata terminale e con pochissime prospettive di sopravvivere all’intervento, causandone, appunto, la morte. Secondo la suprema corte italiana, in questo caso non è possibile prosciogliere i medici: persino se la donna aveva firmato il regolare consenso informato all’operazione.

LA VICENDA – I medici non finiranno comunque in galera perchè il reato è prescritto. Ma la pronuncia della Corte, a sezione singola, certamente fa un passo in avanti nella ricostruzione giurisprudenziale dell’ accanimento
terapeutico e dei suoi limiti.
Stop agli interventi chirurgici senza speranza anche se c’e’ il ‘consenso informato’ da parte del paziente. Lo ha stabilito la Cassazione sostenendo che i chirurghi che affrontano operazioni che non hanno una speranza agiscono ‘in dispregio al codice deontologico che fa divieto di trattamenti informati a forme di inutile accanimento diagnostico terapeutico’. Il principio e’ stato sancito dalla IV sezione penale (sentenza 13746) nell’affrontare il caso relativo ad un intervento chirurgico avvenuto l’11 dicembre 2001 all’ospedale San Giovanni di Roma nel corso del quale tre chirurghi avevano operato una signora 44enne madre di due bambine alla quale avevano dato non piu’ di sei mesi di vita perche’ affetta da neoplasia pancreatica con diffusione generalizzata. Come ricostruisce la sentenza di Piazza Cavour, la signora, disposta a tutto pur di ottenere un sia pur breve prolungamento della vita, aveva dato il suo consenso informato ai medici per tentare un intervento disperato.
Gli archivi dei giornali online ci restituiscono qualche informazione in più sul fatto di cronaca. Si parla di una hostess poco più che quarantenne che, una volta scoperto il proprio incurabile male, si rivolge al primario del San Giovanni per farsi operare d’urgenza.
Avrebbero provocato la morte di una hostess, malata di tumore, a causa di un’ operazione eseguita male: con l’ accusa di omicidio colposo il pm Erminio Amelio ha chiesto il rinvio a giudizio del primario del reparto di chirurgia del San Giovanni Cristiano Husher e dei medici Carmine Napolitano e Andrea Mereu. Il fatto risale a due anni fa, quando a Gina Lombardi, 40 anni, che viveva in Canada con il marito e i due figli, fu diagnosticato un tumore in fase terminale. L’ assistente di volo si rivolse a Huscher, che accettò di operarla per allungarle la vita di qualche mese. Ma, secondo la Procura, durante l’ intervento i medici provocarono per errore lesioni gravi di cui non si accorsero. Ne conseguì un’ emorragia e, l’ 11 dicembre 2001, la paziente morì.
LA VOLONTA’ DEL PAZIENTE – La sentenza è interessante per più di un motivo. Per esempio perchè stabilisce che, in alcuni casi, persino la volontà del paziente può essere superata in favore di una serena attesa del decesso. La donna aveva in effetti chiesto, e con una certa insistenza, allo staff medico dell’Ospedale di essere operata. E i medici, dice oggi la Cassazione, avrebbero dovuto rispondere di no, perchè in alcuni casi non serve altro che aspettare, quando non c’è nulla da fare. Così, se il medico decide di agire comunque a rischio della vita della paziente, deve essere punito (e se il reato non fosse ormai prescritto, i tre medici si sarebbero guadagnati un biglietto per la prigione). L’equilibrio dunque fra volontà del paziente e codice deontologico viene fissato dalla Cassazione sulla presa di coscienza che per un male incurabile la terapia può ben interrompersi: e anzi, qualsiasi accanimento terapeutico attivo comporta reato punibile.
AFFINITA’ E DIFFERENZE – Il che ci porta ad evidenziare affinità e differenze con il simile caso di cronaca che tanto ha fatto discutere la politica italiana, quello di Eluana Englaro. In quel caso, tutti i tribunali d’Europa – caso unico nel suo genere – avevano affermato che la volontà della ragazza doveva essere rispettata, proprio perchè la sua condizione era irreversibile; in questo caso, invece, la Cassazione afferma che la volontà della donna non deve essere rispettata, per lo stesso motivo. L’irreversibilità della condizione medica, come si vede, diventa dunque il presupposto comune ai due casi, e uno scoglio da non superare in nessun caso. Eluana aveva scelto di morire, e sulla base dell’irreversibilità della sua condizione, tale opinione doveva essere rispettata; la signora Lombardi aveva scelto di provare a non morire, ma essendo la sua condizione clinicamente irreversibile, bisognava astenersi dall’aiutarla. La Cassazione, dunque, con questa sentenza, pone un mattone in più nella costruzione mediante sentenze di un diritto naturale dell’ accanimento terapeutico.