venerdì 22 aprile 2011

brano tratto dal Il Vangelo secondo gesù cristo" di José Saramago

Ecco il Tempio. Visto così da vicino, dal piano inferiore dove ci troviamo, è una costruzione che da le vertigini, una montagna di sassi sopra sassi, alcuni che nessun potere del' mondo sembrerebbe in grado di approntare, sollevare, deporre e incastrare, eppure sono lì, uniti dal loro stesso peso, senza malta, semplicemente, come se il mondo fosse tutto una costruzione da montare, fino alle altissime cimase che, viste dal basso, sembrano sfiorare il cielo, come un'altra e diversa torre di Babele che la protezione di Dio non riuscirà comunque a salvare, perché l'attende lo stesso destino, rovina, confusione, sangue versato, voci che mille volte domanderanno, Perché, immaginando che esista una risposta, ma che prima o poi finiranno per tacere, perché solo il silenzio è sicuro. Giuseppe andò a lasciare l'asino in custodia presso un caravanserraglio di bestie, dove nel periodo di Pasqua o di altre feste non ci sarebbe stato neppure lo spazio sufficiente perché un cammello si scacciasse le mosche con la coda, ma che in questi giorni, scaduto il ter­mine del censimento e tornati i viaggiatori alle proprie terre, si presentava occupato entro la norma, fors'anche un po' meno in questa momento, data l' ora mattutina. Ma nel cortile dei Gentili, che circondava, all'interno del grande quadrilatero delle arcate, il recinto del Tempio vero e proprio, c'è già una gran folla, cambiavalute, uccelliera, mercanti che vendevano agnelli e capretti, pellegrini in continuo arrivo per un motivo o per l'altro, nonché molti stranieri condotti qui dalla curiosità di conoscere il Tempio fatto edificare dal re Erode di cui si parla in tutto il mondo.
Ma, viste le dimensioni del cortile, immense, se qualcuno si fosse trovato al lato opposto, non sarebbe parso più grande di un minuscolo insetto, come se gli architetti di Erode, assumendo lo sguardo di Dio, avessero voluto sottolineare l'insignificanza dell'uomo di fronte all'Onnipotente, soprattutto nel caso di Gentili. Perché gli ebrei, a meno che non vi vadano a passeggiare oziosamente, nel punto centrale del cortile hanno il loro obiettivo, il centro del mondo, l'ombelico degli ombelichi, il santo dei santi, La si dirigono il falegname e sua moglie, là viene portato Gesù, dopo che il padre ha acquistato due tortore da un commissario del Tempio, ammesso che la designazione si adatti a chi si occupa del monopolio di questo religioso affare.
I poveri volatili non sanno ciò che li aspetta, anche se il sentore di carne e di penne bruciate che si diffonde nell'aria non dovrebbe ingannare nessuno, per non parlare di odori ben più forti, come quello del sangue e dello sterco dei buoi trascinati al sacrificio e che disgraziatamente s'insudiciano per premonitoria paura.
Giuseppe porta le tortore, rannicchiate nel cavo di quelle sue mani da operaio, e loro, illuse, soltanto per soddisfazione gli danno qualche beccatina alle dita ricurve a mo' di gabbia, quasi volessero dire al nuovo padrone, Meno male che ci hai comprato, vogliamo stare con te. Maria non si accorge di nulla, adesso ha occhi solo per il figlio, e la pelle di Giuseppe è troppo dura per avvertire e decifrare l'amorevole alfabeto morse della coppia di tortorelle.
Entreranno per la porta della Legna, uno dei tredici passaggi attraverso cui si accede al Tempio, e che, come le altre porte, mostra una lapide scolpita in greco e latino, che dice così, A nessun gentile è permesso di varcare questa soglia e la barriera che circonda il regno, pagherà con la vita. Giuseppe e Maria entrano, entra Gesù portato da loro due, e a suo tempo ne usciranno salvi, mentre le tortore, ma già lo sapevamo, moriranno, così vuole la legge per riconoscere e confermare la purificazione di Maria.
Uno spirito voltairiano, ironico e irriverente, benché nient'affatto originale, non si lascerebbe sfuggire l'occasione di osservare che, tutto considerato, sembra sia condizione per mantenere la purezza nel mondo il fatto che vi esistano degli animali innocenti, tortore o agnelli che siano.
Salgono Giuseppe e Maria i quattordici scalini con cui si accede, finalmente alla piattaforma su cui si trova il Tempio. Ecco il cortile delle Donne, a sinistra c'è il deposito dell'olio e del vino usati nella liturgia, a destra la camera dei nazarei, e cioè di quei sacerdoti che non appartengono alla tribù di Levi, ai quali è proibito tagliarsi i capelli, bere vino e avvicinarsi a un cadavere. 
Di fronte, sull'altro lato, accanto alla porta dirimpetto a questa, e sempre a sinistra e a destra, rispettivamente, ci sono la camera dove i lebbrosi che si ritengono guariti aspettano che i sacerdoti vadano a esaminarli e il deposito in cui si tiene la legna, ispezionata tutti i giorni perché il fuoco dell'altare non può essere alimentato con ciocchi marci o carichi di vermi. Maria non ha più molti passi da fare. Salirà ancora i quindici scalini semicircolari che conducono alla porta di Nicanore, detta anche Preziosa, ma lì si fermerà perché alle donne non è permesso entrare nel cortile degli Israeliti, su cui si affaccia la porta. 
All'ingresso ci sono i leviti in attesa di coloro che vanno per offrire i sacrifici, ma qui l'atmosfera sarà tutto tranne che pietosa, a meno che la pietà non fosse allora intesa diversamente, e non si tratta solo dell'odore e del fumo del grasso bruciacchiato, del sangue fresco, dell'incenso, ma anche del vociare umano, urla, belati, muggiti di animali che aspettano il loro turno nel mattatoio, l'ultimo graffiante gracchio di un uccello che prima sapeva cantare
Maria dice al levita, lì a riceverli, che è andata a purificarsi, e Giuseppe consegna le tortore. Per un istante, Maria sfiora con le mani i piccoli volatili, sarà il suo unico gesto, e il levita e il marito si allontanano e scompaiono al di là della porta. Maria non si muoverà di lì fino al ritorno di Giuseppe, spostandosi appena solo per non ostruire il passaggio, e, con il figlio tra le braccia, aspetta. Sopra due grandi tavoli di pietra si preparano le vittime, le più grandi, buoi e vitelli soprattutto, ma anche montoni e pecore, capre e capretti.
Accanto ai tavoli vi sono degli alti pilastri ai quali sono appese, con ganci conficcati nella pietra, le carcasse degli armenti, e si nota la frenetica attività dell'arsenale dei macelli, coltelli e coltellacci, accette e seghe, l'aria e impregnata dei fumi della legna e dell'afrore delle interiora bruciate, del vapore di sangue e di sudore, qualunque anima, che non dovrà neppure essere santa, un'anima normale troverà difficile capire come Dio possa sentirsi felice in mezzo a una simile carneficina, essendo, come dice di essere, il padre degli uomini e delle bestie.
Giuseppe deve fermarsi al di là della balaustra che separa il cortile degli Israeliti da quello dei Sacerdoti ma, dal punto in cui si trova si può guardare agevolmente il Grande Altare, alto quattro volte più di un uomo, e laggiù, in fondo, il Tempio, finalmente parliamo di quello autentico, perché qui e come in quelle casse abissali che già in questo periodo si costruiscono in Cina, una dentro l'altra, lo avvistiamo da lontano e diciamo, II Tempio, quando entriamo nel cortile dei Gentili diciamo di nuovo, II Tempio, e adesso Giuseppe il falegname, appoggiato alla balaustra, guarda e dice, II Tempio, e ha ragione lui, eccola lì, la grande facciata con le quattro colonne conficcate nella parete, coi suoi capitelli infestonati di foglie di acanto, alla greca, e l'altissimo vano della porta, ma privo di uscio reale, eppure, per arrivare la dentro, dove abita Dio, al Tempio dei Templi, bisognerebbe infrangere tutte le proibizioni, attraversare il luogo santo detto Hereal, e finalmente penetrare nel Debir che, ultima e finale cassa, e il Santo dei Santi, quella terribile stanza di pietra, vuota come l'universo, senza finestre, dove la luce del giorno non e mai entrata ne entrerà mai, salvo quando suonerà l'ora della distruzione e della rovina, e tutte le pietre saranno l'una simile all'altra.
Dio e tanto più Dio quanto più inaccessibile sia, e Giuseppe non è che il padre di un bambino ebreo tra i bambini ebrei, che vedrà morire due tortore innocenti, il padre, non il figlio, perché questi, anche lui innocente, è rimasto tra le braccia della madre, immaginando, se gli è possibile, che il mondo sarà sempre così.
Presso l'altare, fatto di grosse pietre grezze che nessuno strumento metallico ha mai toccato da quando furono strappate alla cava per andare a occupare il loro posto nella gigantesca costruzione, un sacerdote scalzo, con indosso una tunica di lino, aspetta che il levita gli consegni le tortore.
Prende la prima, la porta in un angolo dell'altare e, con un sol colpo, le spicca la testa dal corpo. Il sangue sprizza. Il sacerdote ne asperge la parte inferiore dell'altare e poi depone l'uccello decapitato in un colatoio, dove finirà di dissanguarsi e dove, terminato il turno di servizio, andrà a prenderselo; perché ormai appartiene a lui.
All'altra tortora sarà riservata la dignità del sacrificio completo, il che significa che verrà bruciata. Il sacerdote sale la rampa che conduce alla sommità dell'altare, dove arde il fuoco sacro e dove, sopra la cornice, nel secondo angola dello stesso lato, l'angolo a sud-est, mentre prima era a sud-ovest, decapita 1'uccello, segna con il sangue il pavimento della piattaforma, ai cui angoli sono visibili alcune decorazioni simili a corna di montone, e gli strappa le interiora. Nessuno presta attenzione a quello che succede, e solo una piccola morte.
Giuseppe, il capo sollevato, vorrebbe capire, identificare nel fumo e negli odori generali, il fumo e 1'odore del suo sacrificio, quando il sacerdote, dopo aver cosparso di sale la testa e il corpo dell'uccello, li lancerà nel fuoco. Non può averne nessuna certezza.
Ardendo tra le fiamme ribelli, attizzate dal grasso, il corpicino sventrato e flaccido della tortora non riempie neppure il buco di un dente di Dio. E laggiù, dove inizia la rampa, ci sono già tre sacerdoti in attesa. Un vitello si abbatte fulminato dalla gorbia, mio Dio, mio Dio, come ci hai fatto fragili e com'è facile morire.
Giuseppe ormai non ha altro da fare lì, deve nutrirsi, portare via moglie e figlio. Maria è di nuovo pulita, di vera e propria purezza non si parla, ovviamente, non potrebbero certo aspirare a tanto gli esseri umani in generale, e le donne in particolare, fatto sta che con il tempo le si sono regolarizzati i flussi, tutto è tornato com'era prima, l'unica differenza e che nel mondo ci sono due tortore in meno e un bambino in più, che le ha fatte morire.
Usciro­no dal Tempio per la porta da cui erano entrati, Giuseppe andò a prelevare l'asino e, mentre Maria, issandosi su un sasso, si sistemava in groppa all'animale, il padre tenne il figlio, era già capitato altre volte, ma adesso, forse per quella tortora cui aveva visto strappare le interiora, ebbe un attimo di esitazione nel restituirlo alla madre, quasi pensasse che mai altre braccia avrebbero potuto difenderlo me­glio delle proprie.
Accompagnò la famiglia fino alla porta della città e poi si reco al Tempio, al lavoro. Vi ritornerà l'indomani per concludere la settimana, ma poi, per l'eternità sia lodato il potere di Dio, che non si perda neppure un istante, faranno ritorno a Nazaret.