lunedì 26 settembre 2011

LA VERITÀ DI RATZINGER. LA RELIGIONE RIVELATA E L' IMPRINTING


Dottrina rivelataJoseph Ratzinger da cardinale si è mostrato in genere, almeno nei primi anni, persona equilibrata, intelligente, lontana da ogni infatuazione, e in particolare da ogni infatuazione mariana.
Ma allora il suo compito era quello del cane da guardia, sicché poteva giocare in certo senso sulla difensiva. Ora invece, da papa, passa all’ attacco, diventa missionario, vuole rievangelizzare l’ Europa scristianizzata; e allora l’ intolleranza intrinseca al cristianesimo (cfr. “io sono la via, la verità e la vita”) salta fuori tutta.
Benedetto XVI predica ai quattro venti che la verità esiste, eccome; non perde occasione per precisare che la verità di cui parla è quella della Chiesa cattolica (cfr. la “Dominus Jesus”); e ci assicura, tra l’altro, che la pace si può avere solo se si accetta e si vive quella verità. 

 Come dire che rivendica alla sua Chiesa il monopolio, l’esclusiva di tutto ciò che è vero, che è buono, che è giusto.
La pace infatti non è che il simbolo e il compendio di tutti i valori “terreni”: comprende la solidarietà, la giustizia sociale, il rispetto dei diritti umani, anche l’ordine e magari la prosperità (spesso promessa da Dio medesimo al suo popolo). Se vivete da veri cristiani (cattolici), intende dire il papa, avrete tutto questo.

Il guaio è che l’esposizione di tutto questo programma, esposizione intrisa di arroganza, viene salutata da molti come l’espressione di una mente lucida e penetrante, come una serie di lezioni di alto livello (v. ad es. il proliferare di titoli giornalistici e slogan tipo “la magistrale lezione del prof. Ratzinger”), quasi ci trovassimo di fronte a una “dimostrazione scientifica” delle verità cristiane: una sorta di fides catholica more geometrico demonstrata. 

A questo punto è dunque chiaro che occorre passare alla demistificazione:
- in primo luogo, riaffermando decisamente che alla base della fede cattolica vi è una rivelazione, e che quindi i suoi contenuti sono veri solo per chi accetta come vera tale rivelazione;
- in secondo luogo, mostrando in tutta la loro natura intrinsecamente aggressiva e fraudolenta le modalità con cui la fede ordinariamente si trasmette.


Verità di una religione rivelata

In tutti i suoi innumerevoli discorsi su fede e ragione viste come vie per giungere alla verità, Benedetto XVI sembra dimenticare completamente che la verità di una religione che si autoproclama rivelata è tale solo per chi accetta tale rivelazione come storicamente avvenuta nei termini in cui la si presenta. Solo chi accetta tale rivelazione quindi può considerare Dio quel Dio su cui l’apologetica stessa, quando ha esaurito ogni altro argomento, dice che si deve scommettere. Alla faccia della “ratio”!

La ragione - anche la “recta ratio” cara ai pontefici - può “produrre” verità, ossia giungere a conclusioni vere, solo se parte da premesse vere: per la verità delle conclusioni sono condizioni necessarie sia la correttezza del ragionamento (e quindi il buon uso della ratio) sia la verità di tutte le premesse utilizzate (v. su questo “Generalità su fede e ragione”).
Ora, gran parte delle premesse impiegate nel discorso teologico - così come nell’esegesi, nella catechesi, nell’omiletica - sono affermazioni di una religione rivelata, il che significa che sono prive di qualsiasi attendibilità per chi non crede a tale rivelazione.

Ad esempio, basta ricordare che lo stesso san Paolo dice: “Se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede”. Ora, per credere alla Risurrezione di Cristo occorre accettare la verità di racconti (“I racconti della Risurrezione” dei quattro vangeli) che per consenso generale sono quanto meno assai “strani” (“terremotati”, li definisce lo stesso Messori) e obiettivamente tra loro discordanti. Tanto che spesso si ammette che per credere ai racconti pasquali occorre la fede. Quindi, abbiamo la conclusione paradossale che i testi che dovrebbero suscitare la fede possono venire creduti solo da chi già la possiede!

Il Papa dovrebbe dunque tener presente che anche i bellissimi discorsi che egli prodiga al mondo sui temi più svariati trovano molti auditori che, pur accogliendo con rispetto certe conclusioni improntate a una generica saggezza e moderazione di stampo irenistico, sono lontanissimi dal condividere le premesse teologiche da cui egli deduce tali conclusioni.
Ed è evidente che, finché non vi sia condivisione su questi punti, l’evangelizzazione e la rievangelizzazione del mondo che tanto stanno a cuore al pontefice segnano il passo.


La trasmissione ordinaria della fede: il condizionamento geografico e l’ imprinting

È assurdo, al limite del grottesco, che la supposta verità – quella verità “assoluta” di cui il Pontefice millanta continuamente il possesso esclusivo da parte della sua Chiesa - sia in realtà pesantemente condizionata da fattori materiali e contingenti: sociali, famigliari, psicologici, e in primo luogo geografici (si veda quanto diciamo dell’imprinting in “Generalità su fede e ragione”, e cfr. “Perché padre Livio è cristiano”, nella sezione “Fogli volanti”).
Basti pensare che se Joseph Ratzinger, anziché in Baviera, fosse nato a Calcutta (o vi fosse stato portato ancora infante per essere poi allevato da una famiglia di fede induista), con novantanove probabilità su cento avrebbe oggi tutt’altra “verità”, che magari sbandiererebbe con altrettanta sicumera. Ci troviamo quindi inoppugnabilmente di fronte a un fenomeno che non è solo di relativismo, ma addirittura di determinismo.

Certo, non si può parlare di un determinismo assoluto: spiritus flat ubi vult. È sempre possibile lasciare la propria fede per abbracciarne un’altra.
Però vi è un determinismo statistico: su dieci bambini bavaresi nelle condizioni di Ratzinger, almeno nove, portati da piccoli in India e rigorosamente educati alla religione induista, si comporterebbero da perfetti induisti; mentre crescerebbero convinti musulmani se portati in Arabia e quivi precocemente indottrinati nella fede islamica.
Stando così le cose, come si può avere il coraggio di parlare di “relativismo” e di “dittatura del relativismo” come di marchi distintivi della cultura laica, contrapposta alla presunta verità “assoluta” del cattolicesimo?

Si può addirittura rovesciare il discorso, sottolineando che le verità che meno di altre sono “relative” a un complesso di condizioni contingenti sono proprio le verità raggiunte col solo ausilio della ragione, quali ad esempio quelle scientifiche (e in primo luogo quelle matematiche), sulle quali l’indottrinamento precoce e il condizionamento geografico non hanno alcun influsso.
L’appartenenza a una confessione ha invece di regola alla sua radice una preponderante componente di accidentalità. Proprio l’opposto, dunque, di quanto occorrerebbe per avallare la pretesa di fare di un credo religioso un assoluto da contrapporre al relativismo imperante.

Ci troviamo dunque di fronte all’assurdo di un preteso assoluto (a cui andrebbero vincolati tutti i valori della vita, sia dell’individuo che della società: è il cosiddetto “ancoraggio della morale”) che è costituito da una fede i cui contenuti sono quanto di più “relativo” e contingente si possa immaginare, in quanto precocissimamente inculcati per mezzo di un vero e proprio imprinting da parte di chi per motivi puramente casuali si trova nella condizione di poterlo fare. Siamo alla bancarotta della ragione.

A Radio Maria (12.10.07), parlando di san Francesco di Sales un conduttore ha ricordato che “la prima frase completa che pronunciò da bambino fu: "Il buon Dio e la mia mamma mi amano molto"”. Caso di imprinting clamoroso e grottesco.

L’indottrinamento precoce è per definizione la negazione della libertà. Appare quindi in tutta la sua valenza di fatto mistificatoria il motto evangelico “la verità vi farà liberi” (Gv 8, 32), in quanto la presunta verità a cui si allude finisce proprio per essere imposta, in dispregio della libertà.