lunedì 26 settembre 2011

RELATIVISMO


Relativismo“Dittatura del relativismo” è una fortunata formula con cui Benedetto XVI ha iniziato la sua lotta alla cultura dell’ Occidente secolarizzato.
In termini concreti, il relativismo che il Papa ha inteso bollare come piaga del nostro tempo è l’ atteggiamento di chi ritiene che all’ uomo non sia possibile raggiungere verità assolute e definitive circa le realtà ultime (quelle tradizionalmente indagate dalla metafisica), e che quindi di fatto in tale campo si possano avere solo opinioni, più o meno motivate e più o meno convincenti.
La posizione del Papa al riguardo è chiara. È falso, egli ci assicura, che non esista la verità: è quella che egli stesso proclama, e si trova di fatto compendiata nel Catechismo della Chiesa cattolica.

Per vedere quale credito vada accordato alla formula pontificia è opportuno esaminare innanzitutto il concetto stesso di relativismo, operando una prima fondamentale distinzione tra il relativismo che definiremo “epistemico” e il cosiddetto “relativismo etico” o “relativismo morale” (che spesso viene identificato col relativismo tout court).

Vediamo in primo luogo di chiarire, con l’aiuto del vocabolario, in che consiste il relativismo che abbiamo definito “epistemico”. Esso nasce di fronte al problema di raggiungere la verità, nel campo della scienza o in qualsiasi altro settore dello scibile. Ci pare che lo descriva assai bene la definizione che il dizionario del De Mauro riserva al lemma “relativismo”:

“ogni concezione filosofica che considera la realtà non conoscibile in se stessa ma soltanto in relazione alle particolari condizioni in cui i suoi fenomeni vengono osservati, e non ammette perciò verità assolute nel campo della conoscenza [o principi immutabili in sede morale]” (corsivo nostro).

Le parole che abbiamo racchiuso tra parentesi quadre si riferiscono chiaramente a ciò che abbiamo definito “relativismo etico”. Nella voce del dizionario ci pare assai opportuna la distinzione, che noi interpreteremo come contrapposizione, tra le “verità assolute” da un lato - verità che sono in gioco quando si parla di relativismo epistemico - e i “principi immutabili” dall’altro, principi la cui esistenza viene negata dal relativismo morale.

Nella polemica apologetica, spesso il relativismo, senza distinzione alcuna, viene sbrigativamente degradato a “convinzione che un’opinione vale l’altra”. Ciò è manifestamente insostenibile. Nel campo del relativismo epistemico infatti il “relativista” non pone sullo stesso piano tutte le opinioni, ma, in determinate circostanze, si limita alla duplice constatazione che:

1) non è detto che tra le opinioni in gioco vi sia quella che rispecchia la verità;
2) in ogni caso non si può dimostrare con assoluta certezza quale essa sia.

A questo punto occorre distinguere tra le situazioni che si hanno nei diversi settori dello scibile, per cogliere la specificità della polemica che impegna la Chiesa nei confronti della cultura laica.

In concreto, infatti, tutti sanno che nelle scienze naturali, pur essendo sempre possibile che le conclusioni ottenute vengano “falsificate” - ossia dimostrate false - da ricerche e studi ulteriori, il grado di certezza che si raggiunge è di regola assai alto, mentre è addirittura assoluto nel caso delle scienze esatte. Non così, in genere, nel campo delle scienze umane, quali storia, psicologia, sociologia, dove spesso studiosi di opposta tendenza esprimono “opinioni” assai diverse.
Ma, soprattutto, come già si è accennato, disparate al massimo sono le prospettive e le teorie nei campi che più stanno a cuore alla Chiesa: quello della “filosofia prima” - ossia la metafisica - e, ovviamente, quello delle credenze religiose. In questi ambiti, in cui si cerca di dare risposta agli interrogativi di fondo dell’esistenza umana, non ha alcun ruolo la verifica sperimentale.


Un esempio concreto

Proprio dall’ambito religioso prendiamo un esempio di quanto sia assurdo bollare come pregiudizio immotivato ogni relativizzazione delle pretese di possedere, in esclusiva, la ”Verità” sulle realtà ultime dell’uomo e del mondo.

Pur partendo dal principio che anche intorno alle realtà metafisiche esista una verità di per sé conoscibile (in virtù di un’adaequatio mentis et rei), il “relativista”, come si è detto, nega che sia possibile dire se qualcuno di noi la conosca e chi eventualmente la conosca.
Purtroppo, quando si fa un’affermazione del genere si viene assaliti da un coro di proteste da parte di chi è invece convinto che la verità esista: naturalmente, la sua verità, quella che egli possiede in esclusiva.
La situazione dunque è la seguente.

Per il cattolico la verità è quella rivelata definitivamente da Gesù e reperibile nel Catechismo della Chiesa Cattolica; anzi, è Gesù stesso (con qualche variante ciò vale per gli ortodossi; più complesso il discorso per i protestanti). Per il fedele islamico la verità è quella contenuta nel Corano; anzi, è il Corano stesso. Per il pio giudeo è quella che Yahweh ha rivelato nella Torah, in cui tra l’altro avrebbe promesso agli israeliti (oggi israeliani) tutta la Palestina, compresa naturalmente Gerusalemme, la Cisgiordania e la striscia di Gaza.

Non si dica che le tre prospettive hanno in comune la fede nel Dio unico, la quale sarebbe quindi da considerarsi come la “verità” in questione: ciascuna delle tre verità, al di là della political correctness che impone di evitare espressioni troppo crude, è considerata una vera e propria bestemmia dai seguaci delle altre due fedi.
Un vero musulmano non può non inorridire al pensiero della Trinità, del dio morto sulla croce, del dio che viene addirittura mangiato; lo stesso può nella sostanza dirsi di un ebreo, che per di più vede nel cristianesimo un’eresia che ha privato la sua gente del ruolo di popolo eletto, anteponendogli i pagani nella considerazione di Dio; e un autentico cristiano non può che respingere sdegnosamente una prospettiva che fa di Gesù un semplice uomo o un profeta destinato soltanto a preparare l’azione di Maometto.
La supposta verità comune alle tre fedi è quindi puramente nominale: di fatto, le tre diverse rappresentazioni della realtà trascendente che soggiacciono alle tre religioni sono a due a due tra loro incompatibili.

Immaginiamo ora che un agnostico, considerando tale situazione dall’esterno, dica ai tre credenti: “Voi avete tre opinioni diverse di Dio, e quindi della verità ultima. Questo dimostra che, almeno intorno a Dio, non esiste una verità, esistono soltanto delle opinioni”.
Ah, non l’avesse mai detto: scattano tutti come molle e gridano all’unisono: “No, la verità esiste, non è vero che esistono solo opinioni, come pensano i miscredenti!”

Non vi è nulla di caricaturale in questa rappresentazione dell’abisso, dell’incomprensione profonda che separa lo scettico dal credente: nella sostanza le cose stanno precisamente così.
Noi ce ne restiamo a guardare, convinti che, se un qualche Dio esiste ed è, se non proprio buono, almeno giusto o … di buon senso, avrà comprensione per noi.

La conclusione che si trae dall’esempio è semplice: il cosiddetto relativismo che si rimprovera ai non credenti non è atteggiamento aprioristico, bensì frutto dell’inoppugnabile constatazione, a posteriori, che molto spesso chi afferma l’esistenza della verità ne proclama una che è radicalmente diversa da quella proclamata da altri, pure non meno di lui convinti che la verità esiste, eccome!
Volendo, potremmo anche dire che sì, Joseph Ratzinger ha ragione, è vero che non esistono solo le opinioni: esistono anche le verità, al plurale.
E purtroppo sono di regola incompatibili tra loro.

Quella che per il credente è verità, infatti, per chi non crede in quella verità è semplicemente opinione; verità dunque a parte subiecti (ossia sentita e vissuta soggettivamente come verità), opinione a parte obiecti (vista obiettivamente dall’esterno, da chi non accetta quella verità).
Per il non credente sono opinioni sia le proprie che quelle dei credenti e quelle degli altri non credenti. Per il credente invece sono verità le proprie (ossia quelle della sua fede) e opinioni tutte le altre. Questa è la … verità.

Definendo la propria posizione come opinione, il relativista riconosce implicitamente che, per quanto ne sia convinto, potrebbe egli stesso mutarla qualora disponesse di nuovi elementi di giudizio. La sua è quindi una ponderata espressione di umiltà, di consapevolezza dei propri limiti.

La posizione del credente potrebbe invece venire illustrata da un passo della famosa omelia pronunciata da Joseph Ratzinger all’apertura del conclave, omelia che, previo qualche taglio per eliminare gli espliciti riferimenti cristiani, si potrebbe leggere come predica di un imam del Cairo; nel nostro passo basterebbe sostituire l’ultima frase.
Dopo aver detto che “si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie”, il futuro pontefice infatti conclude: “Noi invece abbiamo un’altra misura: il figlio di Dio, il vero uomo”. Bene, sulle labbra del religioso islamico la frase suonerebbe: “Noi invece abbiamo un’altra misura: Allah e Maometto suo profeta”.

Occorre infine ricordare che l’apologetica, a tutti i livelli, usa spesso il termine “verità” come puro e semplice sinonimo di “dottrina cattolica”. In prima linea naturalmente i pontefici: basta considerare i titoli di certe encicliche: “Veritatis splendor”, “Charitas in veritate”. 
Quanto a Padre Livio, considera “relativismo” un equivalente di “menzogna”: “dittatura del relativismo, ossia dittatura della menzogna” (CM 10.07.07). Per lui inoltre “comunismo, nazismo, totalitarismo, dittatura del relativismo, pensiero unico, hanno un’unica radice: la pretesa dell’uomo di sostituirsi a Dio, pretesa satanica”(RS 22.10.07).
Ha dunque il coraggio di associare totalitarismo e pensiero unico al relativismo (che in realtà ne è l’esatto contrario) proprio chi ritiene che tutta la verità sia racchiusa nel Catechismo della Chiesa Cattolica!
Ha ragione Jannacci: l’ importante è esagerare.