lunedì 26 settembre 2011

IL RELATIVISMO ETICO. I VALORI


Relativismo eticoPer il relativismo etico il discorso da fare è assai diverso.
Nel campo morale non esiste la verità. La logica a due valori, vero e falso, vale solo per il mondo dell’ essere, non per quello del dover essere.
La dimensione etica si sottrae quindi a qualunque “verifica” falsificazionista, avendo come assiomi esclusivamente princìpi che sono espressione della volontà dell’uomo, del suo sentire, di una sua libera scelta, anziché enunciati ottenuti razionalmente, mediante induzione e deduzione, dalla realtà fisica (o per via puramente deduttiva in matematica).
Nel campo epistemologico abbiamo i principi logici fondamentali, sottratti alla libera scelta dell’uomo, così come al divenire storico; nel campo etico dobbiamo invece ricorrere al cosiddetto “aggancio della morale”, 

 ossia a un patrimonio di convinzioni metafisico-religiose - in ogni caso a un’ ideologia - a cui fare riferimento.
Senonché vi sono in circolazione parecchi “agganci” tra loro assai diversi, ed è chiaro che ciascuno di essi è frutto di una scelta umana: o scelta consapevole del singolo individuo o scelta di coloro che hanno opportunamente predisposto il suo condizionamento, ossia il suo indottrinamento precoce. Ciò vale anche nel caso, che di regola è proprio il più frequente, di trasmissione di una fede religiosa nel corso di più generazioni: si tratta di un succedersi ininterrotto di condizionamenti.

In campo etico, la dicotomia vero/falso è sostituita da buono/cattivo, giusto/ingiusto, santo/empio.
Le polarità positive di tali dicotomie individuano i cosiddetti “valori”, definiti ad esempio dal dizionario del De Mauro come “ciò che è degno di apprezzamento secondo il giudizio personale o collettivo”, per cui si può parlare di “valori morali, umani, religiosi”.
Per il Sabatini Coletti i valori sono “l'insieme degli elementi e delle qualità morali e intellettuali che sono generalmente considerati il fondamento positivo della vita umana e della società (ideali, principi morali, tradizioni ecc.)”.
Per il Garzanti, i valori morali sono “i motivi ispiratori delle azioni umane ritenute moralmente buone”; i valori umani sono “gli ideali a cui aspira l'uomo nella sua vita terrena”, e i valori religiosi “quelli concernenti i bisogni spirituali dell'uomo che ha fede in una vita eterna”.

I valori sono dunque ciò che si ritiene importante, ciò che sta a cuore, ciò a cui si è difficilmente disposti a rinunziare, ossia ciò che oggi si ama spesso definire “non negoziabile”. Questo vale sia sul piano individuale che su quello collettivo; ma in genere quando si parla di valori si intende riferirsi a qualcosa che è condiviso almeno da una larga parte della società.

Ad esempio, nel mondo occidentale la pari dignità e la conseguente parità giuridica della donna rispetto all’uomo sono oggi cosa pacifica per la stragrande maggioranza dei cittadini, sia credenti (cristiani) che non credenti: diremo che sono valori ormai saldamente radicati e largamente condivisi. Per altre culture le cose stanno diversamente; ma è assurdo chiedersi quale delle due prospettive sia “vera” e quale “falsa”.
La parità uomo/donna, in altri termini, non esiste di per sé, non è una realtà fisica o metafisica di cui noi dobbiamo accertare l’esistenza mediante un atto cognitivo: siamo noi che dobbiamo scegliere se porla in essere o meno. In pratica, dobbiamo decidere se la vogliamo o no.

Possiamo approfondire questo punto mostrando con un esempio come i valori dipendono dal sentire e dal volere.
Se come innamorato io sento che la mia donna è un essere che ha una sensibilità uguale alla mia, se sento che è proprio il fatto di trovarci collocati allo stesso livello ciò che rende meraviglioso il nostro rapporto (il vero amore è sempre tra “uguali”);
se come padre avverto che la mia bambina ha la stessa curiosità, lo stesso desiderio di apprendere del fratellino, e le sue medesime esigenze spirituali e affettive;
se come insegnante percepisco con soddisfazione nelle mie allieve un impegno e una determinazione per nulla inferiori a quelli dei compagni maschi;
se sul posto di lavoro mi trovo a condividere le aspirazioni e ad apprezzare le capacità delle mie colleghe al pari di quelle dei colleghi;
se io sento e vivo la realtà femminile in questi termini, allora non posso non volere che la società a cui appartengo bandisca la poligamia, che accordi alle giovani il pieno diritto all’istruzione e che conceda alla donna “pari opportunità” di autorealizzazione professionale, ovvero una “par condicio”, rispetto all’uomo, da raggiungere gradualmente per via legislativa ove già non sia stata attuata.
Diremo dunque che per me la parità giuridica tra uomo e donna è un valore, un valore importante.


Occorre a questo punto fare alcune importanti precisazioni.

1) Benché i valori siano di regola intesi come convinzioni comuni ad una parte almeno di una comunità, tuttavia in molti casi abbiamo, anche nell’ambito di una stessa cultura, una situazione di disomogeneità, di conflitto: è quel che accade ad esempio, nel mondo occidentale, per le questioni della liceità dell’aborto e della pena di morte.

2) In ogni cultura i valori sono soggetti ad un’evoluzione storica, che modifica la loro importanza relativa, sino a portare alla nascita di valori nuovi e al tramonto di altri (si parla allora di “crisi dei valori”). Tali mutamenti di regola dopo un certo lasso di tempo vengono recepiti dalla legislazione, che provvede in genere ad inasprire le pene per i comportamenti non conformi ai valori prevalenti nella società.  

3) Spesso si usa il termine “disvalore” per indicare il contrario di un valore, la sua negazione. In senso rigoroso, anche i disvalori sono valori, ossia ideali - o quanto meno obiettivi - che qualcuno coltiva e cerca di realizzare. Senonché, essendo clamorosamente in contrasto con i valori prevalenti in una collettività, vengono etichettati come valori negativi, ovvero come mancanza di valori. I giovani per i quali sono importanti soprattutto alcol, sesso, droga e altre soddisfazioni puramente materiali sono ad esempio accusati di essere privi di valori.
Non entriamo nel merito della questione sotto il profilo etico. Ci limitiamo a considerare che il termine “disvalore” è chiaramente connotato negativamente, mentre il più generico “valore” può essere impiegato anche in senso puramente denotativo.

4) Sul piano pratico, è fondamentale la scala dei valori, ossia la graduatoria della loro importanza, della priorità che ciascuno di essi vanta nei confronti degli altri presso ciascun individuo. Fermo infatti restando che i valori esprimono di regola convinzioni e aspirazioni più o meno largamente diffuse nella società, non è improprio affermare che ognuno ha una personale scala di valori a cui si conforma nell’agire quotidiano.      

Appare chiaro dunque che il relativismo etico è tutt’altra cosa rispetto al relativismo che abbiamo definito epistemico. Quest’ultimo, si è detto, consiste nel considerare semplici “opinioni” tesi che sono in conflitto con altre e non offrono alcuna garanzia di verità secondo i normali criteri in uso nella scienza.
A livello etico invece, come si è detto, non essendo applicabile la dicotomia vero/falso, non può aversi la falsificazione delle varie “opinioni” che si contendono il campo. Sicché, quando si parla di relativismo in ambito morale, in via di principio non si può intendere altro che una collocazione su un piano pressoché paritario di tutte le posizioni presenti sulla scena.
Di fatto, è però chiaro che un relativismo etico assoluto può giustificarsi solo nel caso dell’antropologo che studia mondi e civiltà aventi costumi lontanissimi dai suoi, preoccupato in primo luogo di capire anziché di giudicare - e tanto meno di vivere in prima persona - quelle esperienze di vita.

Al di fuori di tale ambito, il relativismo etico, inteso letteralmente nel senso che un’etica vale l’altra, è chiaramente insostenibile. 
Insostenibile non solo in quanto alibi per avvalorare il diritto di ciascun individuo a modellarsi, all’interno della comunità, una propria etica personale senza alcuna limitazione (il che renderebbe pressoché impossibile la vita associata); ma anche nel senso più generale di legittimazione di un pluralismo etico a livello interculturale, ossia come tesi che ogni cultura ha il proprio sistema di valori su cui le altre nulla possono eccepire.

Ciò non contraddice quanto si è detto circa la scala personale di valori propria di ciascun individuo. Normalmente infatti tale scala comprende valori comunemente accettati nell’ambito della comunità, disposti però secondo una gerarchia particolare. Questo accade soprattutto nei casi in cui vi è conflitto tra due valori (e quindi due diritti) diversi.
Ad esempio, pur essendo pacifico nella nostra società che la maternità deve essere una libera scelta e che, d’altra parte, la vita umana è sacra, la polemica sulla liceità dell’aborto contrappone chi privilegia i diritti della madre a chi vi antepone quelli del concepito. 

Prima di concludere, vogliamo ribadire quanto già abbiamo anticipato nell’articolo precedente: spesso quando si parla di relativismo ci si riferisce in modo più o meno scoperto al relativismo etico, dando quasi per scontato – scorrettamente - che in esso si esaurisca ogni possibile atteggiamento relativistico.
Un esempio quasi clamoroso nella sua esplicitezza ce lo offre in proposito Marcello Pera in “Perché dobbiamo dirci cristiani”:
“Il nucleo centrale del relativismo dice: "ciò che è moralmente buono in relazione ad una cornice morale può essere moralmente cattivo in relazione ad una diversa cornice morale. E nessuna cornice morale ha il privilegio di essere obiettivamente l’unica moralità"”.
Come si vede, Pera trae la sua definizione dall’opera di un altro studioso, che è Gilbert Harman; il saggio in questione si intitola però “Moral Relativism”, e fa parte di un volume miscellaneo, di cui è curatore lo stesso Harman, dal titolo “Moral Relativism and Moral Objectivity”. È chiarissimo dunque che l’autore inglese intende parlare del relativismo etico, dando implicitamente per scontato, vista la precisazione che si premura di fornire, che si tratta di qualcosa di ben distinto dal relativismo senza ulteriori qualifiche.

La distinzione tra i due concetti è di fondamentale importanza, poiché, mentre del relativismo etico abbiamo detto noi stessi che nella sua forma integrale è praticamente improponibile, il relativismo tout court (che abbiamo definito epistemico) è l’unico atteggiamento corretto di fronte agli irresolubili problemi della realtà ultima dell’uomo e del mondo. Dal che consegue che la polemica del Papa che pretende di contrapporgli la fede cattolica nella sua integrità è pretestuosa e mistificatoria.
E ancor di più lo è la formula che associa il relativismo alla dittatura, come ci proponiamo di dimostrare nel prossimo capitolo.