martedì 20 settembre 2011

SULL' ORIGINE DELLA RELIGIONE


Il fulmine di ZeusQuando si affronta, sul piano scientifico (e per quanto sia possibile), il problema dell' origine umana della religione, bisognerebbe fare un' importante distinzione preliminare, quella fra società antagonistiche e società collettive (tribali, claniche, comunitarie, ecc.). Tale distinzione permette subito di capire se un dato atteggiamento religioso (o mistico, irrazionale...) può essere strumentalizzato o no. Non è tanto, in effetti, il sentimento religioso in sé a costituire "problema", a destare il maggiore interesse (in un certo senso è irrilevante sapere come esso nasca), quanto piuttosto è l'atteggiamento della collettività nei confronti di tale sentimento, è lo sviluppo ch'esso assume in una determinata collettività.
Facciamo un esempio. La dipendenza dell' uomo dalla natura, quand'era avvertita con angoscia, poteva determinare un comportamento cosiddetto religioso (del tutto spontaneo, istintivo), ma mentre in una società divisa in classi c'è sempre qualche forza sociale
 che pensa di utilizzare tale comportamento per un fine di potere (cioè per sottomettere altre forze sociali), viceversa, nelle società caratterizzate dal comunismo primitivo tale strumentalizzazione avrebbe avuto molte meno ragioni di affermarsi.In altre parole: il bisogno di usare la religione (cioè i sentimenti d' impotenza, d' angoscia e di dipendenza, relativi a certi fenomeni naturali o sociali) per sottomettere qualcuno, poteva nascere solo in una società dominata dalla presenza dello schiavismo o della soggezione servile. Proprio tale concreta, sociale, sottomissione comportava, di necessità, che ogni atteggiamento quotidiano venisse ricondotto, per essere giustificato, a una motivazione di tipo religioso (almeno formalmente religioso), poiché solo con questa motivazione si poteva legittimare il riprodursi di quella stessa sottomissione.

Al contrario, nell' atteggiamento spontaneo dell' uomo primitivo la religione, al massimo, poteva costituire un aspetto della sua vita sociale e/o personale (se mai vi fosse stata una differenza tra i due ambiti), e neppure quello più significativo, in quanto relativo a particolari momenti di sconforto e di abbandono: il che poi non era così frequente, come in genere si crede, essendo la comunità, proprio in quanto "comunità", capace di supplire, relativamente, alla debolezza del singolo individuo nel suo rapporto con la natura.
Quindi la vera, profonda contraddizione non è sorta quando gli uomini hanno cercato di dare delle spiegazioni fantastiche (appunto religiose, mitologiche) ai drammi della loro vita quotidiana, ma è sorta quando qualcuno ha preteso di regolare tutta la vita quotidiana (anche quella "naturale", priva di angoscia) sulla base di tali spiegazioni irrazionali. Una vita a stretto contatto con la natura è molto meno religiosa di quel che si creda. La religione, in sostanza, cominciò a diventare un freno allo sviluppo quando qualcuno (ad es. una classe sociale o una casta particolare) se ne servì per condizionare tutta la vita di una determinata società o comunità.
La religione, al pari della superstizione, è senz'altro un prodotto dell' ignoranza, ma non necessariamente della malafede o del pregiudizio. Essa è potuta diventare uno strumento dello sfruttamento economico e della soggezione politica quando la comunità primitiva si era già divisa in classi antagonistiche, quando cioè il principio della proprietà privata aveva fatto sorgere interessi contrapposti. Nel suo Discorso sulla disuguaglianza ha scritto Rousseau: "Il peccato più grave non è stato quello di dire "questo è mio", dopo aver recintato un terreno, ma quello di credere nella verità di questa affermazione".
Sotto tale aspetto però si potrebbe anche sostenere che l' uso strumentale della religione è già indice di un' affermazione di princìpi ateistici, benché in modo rozzo e volgare. Non sarebbe infatti possibile servirsi della religione in termini così spregiudicati se chi lo facesse non avesse da tempo abbandonato il sentimento religioso più genuino, più spontaneo e naturale. Certo, si può anche essere convinti che la realtà dello schiavismo sia frutto, più o meno, della volontà di dio, ma se si continua a credere in questo anche nel momento in cui lo schiavo pretende una propria libertà, allora ogni convinzione perde subito qualunque carattere di ingenua spontaneità.
Queste osservazioni per dire che l' ateismo è la vera dimensione della coscienza umana: quanto più tale coscienza è sviluppata tanto più l' ateismo vi sarà radicato. Il vero sentimento religioso non è che una breve tappa dell' ingenuità, riscontrabile, nelle moderne società occidentali, soltanto nei preadolescenti. Si potrebbe anzi definire col termine di "inconsapevole" l' ateismo primitivo, a causa delle sue perplessità di fronte a certi fenomeni naturali e biologici, come la vita, la morte, la malattia, la riproduzione ecc., mentre quello delle tre epoche antagonistiche (schiavismo, servaggio e capitalismo) può essere ritenuto "consapevole", ma solo da parte delle classi egemoni, che si servono appunto della religione (e di altre illusioni) per conservare il loro potere: si tratta quindi di un ateismo agnostico, ambiguo, superficiale, volgare... Il vero ateismo, quello scientifico, umanistico, coerente, è quello socialista, cioè quello che riflette un rapporto sociale democratico, egualitario, non alienato, un rapporto che non ha bisogno di false rappresentazioni per poter sopravvivere e riprodursi.
Occorre inoltre fare una precisazione sul concetto di "ignoranza". Gli uomini primitivi senza dubbio lo erano, ma certo non nel senso che non avevano le capacità o le possibilità di conoscere la realtà. Essi avevano una capacità proporzionata ai loro mezzi e alla loro esigenza di conoscere, cioè alla loro effettiva autocoscienza. Se fossero stati completamente vittime di concezioni mistiche o irrazionali, non si sarebbe verificato alcun progresso scientifico, tecnico, speculativo, alcun mutamento nei loro strumenti di lavoro, alcun cambiamento nelle loro società.
L'ignoranza quindi è un concetto molto relativo. Già Socrate, amando il paradosso, diceva di poter soltanto "sapere di non sapere". Oggi, ad es., sappiamo tantissime cose sulla natura della materia, ma sappiamo anche che tantissime altre ci sfuggono: la stessa ignoranza circa l' origine dell' universo e dello stesso uomo (o del processo d' invecchiamento) angoscia certo più noi di quanto potesse farlo centomila anni fa. Il peso dell'ignoranza è tanto più avvertito quanto più è forte l'esigenza del conoscere, che è a sua volta correlata al livello di autoconsapevolezza umana e al livello di strumentazione tecnica a disposizione. Entrambe le cose sono indispensabili, poiché, ad es., ci sono voluti più di duemila anni prima di dimostrare che i ragionamenti filosofici dei greci sull'atomo non erano del tutto astratti. Il che poi non significa che l'uomo non sia destinato a raggiungere un tipo di esperienza in cui l'ignoranza venga avvertita senza angoscia. In fondo l'innocenza dell'uomo primitivo, che sicuramente non conosceva la malizia dell'uomo moderno, andava esente da molte di quelle frustrazioni e di quei complessi che oggi sono di ordinaria amministrazione.
Quel che è certo è che la soddisfazione dell' esigenza intellettuale di conoscere non risolve, di per sé, il sorgere delle false rappresentazioni su di sé e sulla realtà circostante (sociale e naturale), altrimenti non si spiegherebbe il motivo per cui tantissimi intellettuali sono (o si dichiarano) "credenti". Le false rappresentazioni sono anzi un fenomeno più intellettuale che primitivo, in grado di condizionare molto meno la vita di un uomo semplice, spontaneo, istintivo. Sono gli intellettuali che, restando legati a certe false rappresentazioni della realtà, compiono azioni deleterie ai fini degli interessi sociali. L' intellettuale alienato (con idee religiose, mitologiche o comunque irrazionali) sa distinguere, come il primitivo, la finzione dalla realtà, ma, a differenza del primitivo, attribuisce a certe finzioni (ovvero a certe "idee fisse") un peso di molto superiore a quello della realtà. La finzione per lui non è un "gioco" ma una cosa seria, che può portare anche alla follia (vedi Kierkegaard, Nietzsche...)..
Ecco perché il fenomeno religioso deve sempre essere esaminato in rapporto al contesto storico-sociale in cui si forma e si sviluppa. Bisogna, in particolare, esaminare l'alienazione che domina a livello di rapporti di proprietà, di lavoro e di socializzazione. Peraltro, oggi, al posto della religione le classi egemoni usano altri "oppiacei" per tenere sottomesse le classi produttive, prive di proprietà. Essendo maturato il livello di autoconsapevolezza, cioè il livello di coscienza materialistica, storica, ateo-scientifica, il potere borghese ha bisogno di strumenti che tengano conto di questo habitus mentale.