domenica 18 settembre 2011

COME FU IDEATA LA CREAZIONE DAL NULLA


La creazioneLa nostra ignoranza è Dio: quel che conosciamo è Scienza.
.. Robert G. Ingersoll. 
Si racconta un aneddoto (non si sà quanto apocrifo, ma comunque gustoso) su Agostino, il quale, chiestosi retoricamente cosa facesse Dio prima della creazione dell' universo, così si rispose: "Stava preparando l' inferno per quelli che fanno domande del genere".
A scanso di facili conclusioni, il buon dotto è in ottima compagnia: qualche secolo dopo di lui, Mohammad (che aveva anch' egli una grande passione per le minorenni) così rispondeva in uno dei tanti passi a lui stranamente attribuiti nei commentarii al Corano:

 "Se il Mentitore ti domanda chi ha creato il creatore, smetti di chiederti una risposta, e cerca rifugio in Allah".
Agostino e Mohammad sono scusati: ai loro tempi, ci trovavamo ancora ad un livello dilettantistico dell' ingegno teologico. I loro epigoni (che sanno ragionare con maggiore eleganza) avrebbero detto sicuramente che il creatore del Tutto non possa essere altro che eterno ed increato! Il modo in cui sia possibile dire una cosa del genere, è poco importante: la stessa "evidenza logica" ce lo suggerirebbe per via d'esclusione, se non attraverso qualche procedimento ad ignorantiam.
Non partiamo di certo dal chiederci se esista un dio, prima di dire che Egli abbia creato "il Tutto"; piuttosto, partiamo dall'atto creativo, per poi postulare un "qualcosa" che ne è stato autore, così come noi siamo "autori" di "creazioni" minori. Creare è un atto normale, per l'uomo: o meglio, lo è il "fare", nel senso di estrarre qualcosa da qualcos'altro: l'assunto fondamentale lavoiseriano non può — né potrà mai — essere scavalcato, eccetto nella nostra immaginazione. Diciamo che Dio ha creato l'universo nientemeno che dal Nulla perchè noi traiamo da materia preesistente (un chiodo da un pezzo di ferro, una sedia da uno di legno etc.) qualsiasi cosa produciamo.
L'uomo primitivo si sarà certamente chiesto (né più né meno di come continuano a fare certi suoi epigoni odierni) se ciò che lo circondava non avesse riflesso la mano di qualche entità superiore, le cui capacità andavano oltre la sua comprensione. Dall'epoca caldea fino al tempo di Tertulliano, per "universo" si intendeva semplicemente tutto quanto comprendeva il Sole e i "sette pianeti" della sua corte; una visione piuttosto limitata, del resto condivisa già quasi ad litteram agli scrittori classici, al fare un attento confronto tra il Cartaginese e Plinio il Vecchio.
Oggi che la scienza è riuscita ad andare molto più in là dei limiti degli avvocati di Dio, sappiamo che l'universo sia qualcosa di talmente vasto, da rendere quasi indispensabile l'iperbole dell'infinito; per darne un'idea, al confronto il sistema solare equivarrebbe a meno di un granello di sabbia disperso in un km2 di spiaggia, e la Terra a un atomo.
Parrebbe estremamente difficile che un apparato del genere sia stato creato da qualcos'altro: invero, l'idea ci solletica perché ci fa perdere in quelle sensazioni ebbre di cui l'uomo è sempre stato avido, ed alle quali le superstizioni organizzate si sono avvinghiate ognora con tenacia. Un'idea del genere supera il limite imposto dalla materialità e dalla determinazione: ma resta solo una sensazione, poiché non troviamo i capi del suo svolgersi, essendo coinvolta in una tautologica vertigine ebbra.

Immaginare che la Materia sia tratta dal Nulla ad opera di un essere che da un lato è ritenuto indefinibile, ma dall'altro è definito come composto da un "qualcosa" che non è nè Materia nè Nulla, pur potendo interagire con la prima, è semplicemente l'ennesimo atto di fuga dall'evidenza e dal Limite immaginativo, per i seguenti motivi:
1) dato che Dio non può essere in parte diverso dalla Materia, ed in parte identico ad essa, in quanto l'unica cosa diversa dalla Materia è il Nulla, dovrebbe conseguirne che Dio coincida con la Materia;
2) dato che il Nulla non può essere creato, Dio non può certamente controllarlo né accampare diritti di generazione su di esso;
3) dato che Dio, per poter essere perfetto, deve avere assolutamente la qualità d'interagire, sicuramente non potrà interagire con ciò che è carente della qualità d'esistere, sicchè non potrà creare il Tutto dal Nulla;
4) dato che Dio, per poter esistere ed interagire con ciò che esiste, deve essere diverso dal Nulla, dovrà avere una "massa", ovvero non potrà essere ovunque in ogni tempo, così come il Nulla, che non possiede una massa;
5) ne consegue che Dio non sia ovunque in ogni tempo, e che la sua dimensione sia comunque delimitata ed inferiore a quella del Nulla.
Ipotizziamo dunque che, a parte il Nulla (che non può essere creato), Dio dovesse essere tutto quanto esisteva prima della presunta creazione: se una data entità A è preesistente ad un B di cui è ritenuta "creatore", nell'impossibilità di trarre B dal nulla dovrebbero verificarsi le seguenti condizioni.
Nel primo scenario, A avrebbe B da sé stesso; B compartecipa dunque di A, e, essendo sua creatura, chiaramente è di dimensioni minori di A; ciò vuol dire che, oltre il limite di B, abbiamo un A che lo include pur rimanendone escluso.
Qualora questo quadro fosse stato verificabile, allora avremmo dovuto avere che dovrebbe esistere un A che non constatiamo, pur dovendo essere compartecipe della materia di B; ciò significa che, in quella sua parte "identica alla materia di B", A dovrebbe essere direttamente constatabile come come forma e sostanza. Il che contraddirrebbe le pretese teologiche, in quanto renderebbe Dio inquinato dall'imperfezione della creatura.
Per poter ovviare al primo problema, gli investigatori dell'Inconoscibile si sono ingegnati a trovare una risposta alla non-constatabilità diretta di un dio che sarebbe per metà materia e per metà chissà cosa, dicendo che l'Onnipotente sarebbe composto soprattutto di "spirito", "una sostanza" di qualità "superiore" alla vile materia dell'uomo, il quale però includerebbe parte dello "spirito" in se stesso! Praticamente, l'uomo ospiterebbe un qualcosa che non è omogeneo al suo "contenitore" corporeo; il modo in cui si sia capaci di sapere tutto ciò, nonostante tale "spirito" sia pure invisibile, differente ed inconoscibile dall'uomo, è un altro mistero della fede che, provenendo dagli Antichi e dalle Scritture, non potremmo mai mettere in dubbio! Difatti, tale nozione fu confidata appositamente agli "eletti" da Dio in persona, che per la circostanza dovette aver assunto una consistenza materiale, per far sì che il suono della sua voce potesse giungere ai padiglioni delle sue ignobili creature attraverso l'aria!
I "pensatori" religiosi si confrontarono varie volte con questa aporia fondamentale, senza riuscire a produrre altro che ulteriori contraddizioni. Ad esempio, secoli fa il teologo Jakob Boehme ebbe a scrivere:

"Il Nulla è dio, e dio ha fatto tutte le cose dal Nulla, ed è esso stesso il Nulla. Ma questo Nulla è un Nulla «strano». Non è affatto un Nulla. E allora? Dio stesso allora è il «vedere e sentire del Nulla»... ed è chiamato «Un Nulla» (pur essendo dio stesso) perché è incomprensibile e ineffabile".
Vogliamo commentare degnamente questo pensiero? Facciamolo con Hume, che qualche secolo dopo così scriveva:

"Quando passiamo tra i libri di una biblioteca, persuasi dei loro princìpi, quale disastro potremmo causare? Se prendiamo qualsiasi volume di teologia o metafisica, chiediamoci: «Contiene qualche ragionamento astratto sulla quantità dei numeri?». No. «Contiene allora qualche ragionamento sperimentale sulla materia di fatti ed esistenza?». No. Buttiamoli nel fuoco, allora: perché contengono soltanto sofismi ed illusioni!".
Non so dire se Hume avesse in mente le frasi di Boehme, quando espresse questa sua sentenza: fatto sta che essa si adatta moltissimo (empiricamente parlando) alla nozione espressa dal teologo.
In conclusione, questo "deus faber" è essenzialmente un'entità a misura d'uomo: sarà pure una figura più evoluta rispetto agli dèi del passato, poiché andando avanti nei secoli lo rendiamo sempre più "perfetto" nell'accordargli qualità attuali che i teologi precedenti non potevano escogitare, ma non ci sarà differenza sostanziale. Nel futuro potranno arricchirlo ancora di più, e considerare idioti gli inventori del nostro tempo senza pensare che tale idiozia si sarà semplicemente trasmessa inalterata persino nell'amoralità.
Nel creare un'idea di perfezione non capiamo che dovremo costruire un dio duale, perfetto ed imperfetto, esistente e inesistente: viceversa, sarebbe un dio parziale, un daimwn inclusivo delegato di un compito marginale da parte del Tutto. Un essere che compie un'azione determinata non è un dio: né lo è uno che non ne compie. Un "vero dio" dovrebbe esser capace di creare persino il Nulla, di distruggere e ricreare sé stesso all'infinito, in tempi definiti e fuori da tempi definiti, e di esistere e non esistere in un tutt'uno: azioni chiaramente impossibili fuorchè nella nostra immaginazione, che ha la "necessità" di superare i limiti di ciò che si conosce già.
Tutt'al più, oggi, possiamo immaginare questo concetto, ma esso non risiederà di certo al di fuori della nostra mente: ecco perché, una volta dispersi nelle categorie della determinazione, ci contentiamo di credere per fede a quelle stesse fantasie che noi stessi andiamo creando, con buona pace dei "filosofi metafisici".
In linea di massima, il processo di "creazione" di concetti metafisici è meccanico, ossia basato su funzioni naturali della creatività umana, che hanno portato all'iconizzazione di un'idea complessa. Le idee eccessivamente semplicistiche possono apparire "divine": d'altronde, se il racconto biblico fosse stato una relazione piena di formule, non sarebbe stato necessario parlare di "interpretazioni" ogni qual volta un modello scientifico avesse attentato alla sua credibilità.
Quando l'uomo non possedeva ancora la capacità intellettiva né gli strumenti idonei per corroborare gli interrogativi esistenziali, in genere tentava di fornire spiegazioni in relazione alle sue caratteristiche di specie, proiettandole su ciò che lo circondava, poiché in questo modo riusciva ad avere dei termini di paragone, seppur necessariamente antropocentrici.
Alle origini, quando l'economia era ancora direttamente dipendente dalla terra e dagli eventi naturali, l'essere umano mise in correlazione la propria sussistenza con i cicli delle stagioni, giungendo, con l'avvento delle prime civiltà storiche urbanizzate (sumeri ed egizi), ad una cristallizzazione organica di tutte queste ideologie primitive attraverso una trafila che porterà all'identificazione tra Dio e la società; osservare il cielo per cogliere presagi sull'annata del raccolto e sugli eventi climatici divenne la pratica principale dei primi sacerdoti del passato, che erano soprattutto degli astronomi e dei letterati.
Si tratta di processi automatici: il cielo che sovrasta l'uomo è l'Irraggiungibile che trascende la sua terrenità, il Limite locale che lo affligge. La volta celeste, l'elevazione verso il noto-ignoto contrapposto alla terrenità, era fonte d'astrazione: che si chiamasse Manito, Daramulum o Yahvéh, il dio creatore abitava lì, e il meccanismo d'avvicendamento degli astri dava espressione al suo volere. I corpi celesti "parlavano" predicendo il futuro, i raccolti e gli eventi climatici in vece del misterioso creatore, invisibile e distante; erano, in sostanza, la prima presunta evidenza del suo processo creativo e della sua esistenza.
Di contro, come anticipato, l'idea organizzata e sistematicizzata di creazione "dal Nulla" è prettamente cristiana; in essa si distingue chiaramente la necessità di procedere oltre il "materialismo" che caratterizzava le concezioni precedenti, allo scopo d'introdurre dei concetti molto più utili a fini esegetici. Il cristianesimo la rielaborò appoggiandosi per minima parte al Genesi, un racconto cosmogonico di tipo classico che riscontriamo nella mitologia di qualsiasi cultura al mondo: dall'Oceania all'Alaska, ritroviamo questo stesso mito ripetuto sempre con i medesimi accenti e dettagli, malgrado solamente il racconto biblico sia ritenuto "vero" e "genuino".
Già a loro tempo i greci avevano evidenziato l'assurdità della creazione ex nihilo, e gli ebrei s'erano semplicemente accordati al buonsenso dei pagani. Non potendo conoscere in che modo l'universo esiste, essi non concepivano un dio onnipotente sul piano surreale, bensì pratico; per loro, pur in tutte le sue straordinarie contraddizioni, Yahvéh era un concetto "sublimante", astrale ed ideale, addirittura antropomorfo, e non certo un'idea "vaga". I termini ebraici originari tradotti liberamente dai redattori cristiani col termine "dal Vuoto", significano semplicemente "desolazione" (tehom) (1) e "deformità" (bohu), che aleggiavano sulle "acque del cosmo"; quindi, per gli ebrei, prima dell'atto divino preesisteva l'informità primordiale galleggiante nelle "acque" cosmiche, tanto quanto pensavano pure i pagani riferendosi alle immensità celesti.
Per cristiani la cosa doveva porsi piuttosto di modo tale da avviare una separazione ideologica dall'ebraismo per circuire le basi cosmologiche gnostiche e platoniste: per tal motivo, di là delle interpretazioni del capitolo d'apertura del Genesi, non avendo alcun caposaldo d'analisi originale incorporato nei vangeli, il cristianesimo derivò la sua cosmologia proprio dai pagani.
Gli esegeti invocarono alcuni intellettuali pagani selezionati ad hoc, congetturando che costoro fossero degli ignari precursori del cristianesimo: in tal modo, per ispirazione di Dio, costoro concordavano con la verità cristiana, come diceva Giustino nel Dialogo. "L'unica buona cosa che dobbiamo a Platone ed Aristotele" echeggerà Savonarola secoli dopo "è l'aver creato parecchi argomenti che possiamo usare contro gli eretici. Ora possono pure bruciare all'inferno insieme agli altri filosofi!": può forse sorprendere se si sia giunti a costruire un corpus dogmatico mescendo la scolastica con la Fenice, le Sibille ed Hermes Trimegisto, o se il buon Giuliano si chiedesse a suo tempo "per quale ragione gustate voi le scienze dei greci, se sufficiente vi pare lo studio delle vostre Scritture!"?
Parecchi ideologi antagonisti erano ancora al corrente di questo tipo di estorsioni; gnostici come i carpocratici, i basilidei, i manichei, i valentiniani, i marcioniti ed altre correnti cosiddette eretiche poi eliminate dall'ortodossia (cattolica), le rinfacciarono ognora ai cristiani. Questi ultimi, però, essendo sin troppo convinti della propria versione, non potevano accettare che gli dèi del passato fossero delle mere allegorie astrali antropomorfizzate, in primo luogo perchè un'asserzione del genere sconfessava un'idea che doveva superare frattalmente qualsiasi caratterizzazione, e poi perché sminuiva l'onnipotenza di un Dio che sarebbe risultato definito e caratterizzato (quindi limitato e soprattutto comprensibile).
Al contempo, Atanasio e soprattutto Lattanzio (il "padre dell'ortodossia cristiana") inveivano contro le teste di serie della cosmologia greca, Epicuro, Democrito e Leucippo: ciò che interessava principalmente ai fondatori del cristianesimo era distruggere il passato e le basi del pensiero pagàno prevalentemente scettico, che continuavano a reggere l'urto contro quelle protocristiane, ma che proprio per questa loro tenacia non potevano essere del tutto abbandonate.
Secoli dopo i babilonesi, Platone sviluppò la visione di un mondo nel quale le scienze fisiche possedevano un'esigua validità, mentre Aristotele ne propose una quasi all'opposto. Con l'avvento del proto-cristianesimo e di una nuova evoluzione della teologia, lo sviluppo delle scienze (soprattutto quelle fisiche e mediche) fu sistematicamente ibernato per ben oltre mezzo millennio.
Poiché l'unica chiave di convalida della cosmologia cristiana non poteva essere altro che quella biblica, fu necessario prendere alla lettera un primitivo racconto simbolico qual è il Genesi, contorcendolo secondo le necessità esegetiche in base ad una linea dossologica che ebbe inizio con Epifanio per contrastare le tesi allegoriche di Origene.
In ambito cosmologico, l'idea della Terra piatta, inserita nel dogmatismo cristiano con funzione antropo-teocentrica, è una reliquia dell'ebraismo che ebbe in scienziati sui generis come Cosma Indicopleuste la sua perpetuazione assiomatica ideale: "Per giunta," rincarava inesorabile Voltaire nel Dictionnaire

"gli ebrei avevano estorto queste fantasticherie ad altri popoli. La maggior parte di questi, eccettuati i caldei, consideravano il cielo come solido; la Terra, fissa e immobile, era di un buon terzo più lunga da oriente a occidente che non dal mezzogiorno al settentrione: di qui i termini «longitudine» e «latitudine», che noi abbiamo adottato. È evidente che, restando su tale opinione, era impossibile che esistessero gli antipodi. Così sant'Agostino tratta l'idea degli antipodi come un'assurdità, e Lattanzio dice espressamente: «C'è dunque gente così insensata da credere che esistano uomini la cui testa sta più in basso dei piedi?». E san Crisostomo, nella sua XIV omelia, esclama: «Dove sono coloro i quali pretendono che i cieli siano mobili, e la loro forma circolare?». Lattanzio dice inoltre, nel terzo libro delle sue Istituzioni: «Potrei provarvi con parecchi argomenti come sia impossibile che il cielo circondi la terra».
L'autore dello Spettacolo della Natura potrà dire finché vorrà al signor cavaliere che Lattanzio e san Crisostomo fossero dei grandi filosofi; gli risponderemo che erano dei gran santi, e che per esser santi non è affatto necessario essere anche dei buoni astronomi. Possiamo credere che siano in cielo, ma dovremo riconoscere che non sappiamo in quale parte si trovino precisamente".
Tutt'oggi si pretende che la Bibbia, in Giobbe ed Isaia, ci informasse già della rotondità della Terra ancor prima di Eratostene, ma si tratta di mere illazioni che fanno capo a costruzioni ad sensum: nell'originale ebraico, il povero Giobbe parla piuttosto di Terra sospesa non nel vuoto, ma "sull'Abisso" (26.7-11), ossia sull'Oceano di acque (il babilonese Apsu) secondo la più rigorosa concezione pagana dei cieli sorretti da "pilastri" (v. 9.6, 38.6) al pari di una Terra piatta, come la raffigurarono sempre gli ebrei. Lo vediamo anche nei Salmi e Isaia 11.12: il quale, al 40.22, parla di "trono" situato sul "firmamento", non sulla "orbita della Terra".
Il tolemaicismo affonda le sue radici nelle teorie babilonesi tramite i caldei, malgrado già sin da prima del tempo di Eratostene da Cirene la nozione della Terra sferica avesse ricevuto la sua conferma scientifica indubitabile, per poi decadere durante il Medioevo in Europa, mentre nel medesimo periodo grazie ai lasciti alessandrini gli arabi studiavano il pianeta su mappamondi sferici: in Occidente la cosa era nota anche a Federico II e tanti altri, ma il segreto non era molto divulgato, talché fino al '300 le carte geografiche portavano ancora Gerusalemme al centro del mondo, rappresentato a forma di croce a Tau.
Eppure, intorno al VI secolo, prima ancora di Nicola d'Oresme, l'anti-aristotelico Giovanni Filopono nella sua opera omnia aveva già parlato di distinzione fra certe interpretazioni letterali della Bibbia in merito a questioni di fisica e matematica, prospettando (unico tra i cristiani) una Terra sferica. "I fisici, che hanno colto il Genesi come fonte, hanno preso spesso degli abbagli. In ogni caso, non sono mai d'accordo tra loro" scriveva; parole profetiche, mettendo in conto che, oltre ad essere un difensore della creazione ex nihilo, Filopono negasse la resurrezione di Gesù. Oggi molti apologisti citano le sue parole contro coloro i quali asseriscono che la Bibbia sia superata, dimenticando che certi loro colleghi continuino a sostenere la teoria della Terra piatta!
Dopo che la resistenza pagana fu piegata, la Chiesa riprese proprio tutte quelle concezioni che nel corso del tempo i suoi esegeti s'erano premurati di destabilizzare. Già Platone parlò di un dio unico, senza nome, incaratterizzato, di certo non un Dio maiuscolo, quantunque agli effetti si trattava ancora di una maschera di Zeus ora accorpato probabilmente al Fato cui il re degli dèi ellenico era sottomesso; Aristotele tenterà di superarlo rifugiandosi semplicemente nell'agnòsi del "motore immobile", non ancora unico ma coesistente con le cosiddette intelligenze, increate come lui. Non a caso, il dio di Platone sarà interpretato come un'anteprima di quello cristiano (ad es. dall'ex platonista Giustino), Agostino sarà quasi del tutto neoplatonico, mentre Anselmo spiegherà il suo dio quasi allo stesso modo in cui fece l'Aristonide.
Giustino e i suoi colleghi (il seguace stoico Taziano, Aristide, Origene, Clemente Alessandrino, Teofilo d'Antiochia, Atenagora et alteri) praticamente ripresero l'argomento a sfavore della cosmologia platonista aggiungendo l'ingrediente del Nulla, utile onde impostare un concetto d'onnipotenza focalizzato sullo stupor dei: altri si spinsero oltre, copiando dai greco-romani.
Nella sua logica ineffabile, in risposta al collega Ermogene che s'era riallineato coi greci, Tertulliano (Contro Ermogene 2.1) ammetteva che la Bibbia non parlasse di creazione ex nihilo, concludendone che proprio per questo motivo essa fosse possibile! Una così eccelsa requisitoria sfuggì ad Atenagora, che a dispetto della sua magistrale disquisizione sulla trascendenza del figlio di Dio, si lasciò sfuggire anche che

"[Gesù] nacque dal potere energizzante delle cose, che risiede nella natura senza attributi, e in terra inattiva, le cui particelle più grossolane sono frammiste a quelle più sottili".
Si tratta dei pensieri di Leucippo misti a spigolature reminiscenti del Commentario al Timeo di Proclo: passano inosservati, dato che sono ripresi da un ex pagàno come Atenagora, per tentare di convalidare le nuove idee. Questa interferenza storica risalta molto bene ancora in alcune famose asserzioni di Tertulliano:

"Quello che noi adoriamo è un dio unico; con la parola che comanda, la mente che dispone, la virtù che tutto può. Dal nulla egli trasse, per servire da ordinamento alla sua maestà, questa gigantesca mole, con tutto il contorno degli elementi dei corpi, degli spiriti in virtù del quale fu dato al mondo il nome greco «Cosmo»: ossia, «Ornamento». Egli è invisibile pur se lo si vede; inafferrabile pur se presente attraverso la grazia; inconcepibile anche se i sensi umani lo possono concepire; perciò è vero e grande! Le altre cose che si possono vedere, afferrare, concepire, sono minori di quanto appaiono agli occhi che le invidiano e alle mani che le toccano e ai sensi che le scoprono; ma ciò che è infinito è conosciuto appieno solo da sé stesso. Ciò che ci fa comprendere dio è proprio il non poterlo comprendere; così la potenza della sua grandezza lo rende al contempo palese e ascoso agli uomini. Anzi, questa è la maggiore colpa di coloro i quali non vogliono riconoscerlo: ossia, che non possono ignorarlo" (Apologeticum 17.1-3).
L'ex manicheo ed ex platonista Agostino, che nei suoi sermoni avrà già evidenziato proprio l'inconoscibilità di Dio quasi con la medesima tecnica tertullianea (2), faceva eco nelle Confessioni (12.7), deliquiando di un dio "invisibile in cui soltanto è la felicità", ricollegandosi così ad un altro famoso passo delle Questioni Naturali di quel Seneca tanto amato dai cristiani: "Cos'è dio? Tutto ciò che vedi e non vedi" (1.13).
Costruzioni del genere appartengono piuttosto al classico tipo d'asserzioni talmente insulse, da guadagnarsi la patente del sacrosanto: un dio "invisibile pur se lo si vede", sarebbe dicuramente un eccellente lasciapassare per la santità, qualora la furba dottrina di cui ci parlano Tertulliano e soci non fosse proprio originale cristiana in tutto e per tutto. Così scrive, quasi anticipandolo letteralmente nella sua opera omnia, lo stoico Plinio il Vecchio, attivo circa un secolo prima di lui:

"Il mondo e il cielo che circonda l'universo, qualunque sia il nome con cui gli uomini lo designano, è creduto una divinità eterna, non misurabile; un essere che non ha mai avuto inizio né avrà mai fine. Cosa vi sia oltre, travalica la mente umana, e in fondo non la riguarda. È sacro, eterno, contenuto in sé stesso [...] È mera follia che certuni investighino le sue dimensioni: parimenti, folle è che certi altri professino l'esistenza di innumerevoli mondi [...] Il mondo siffatto ruota in ventiquattr'ore [...] I greci lo chiamano con una parola che significa «ornamento», e noi romani lo chiamiamo «mondo» per via della sua finitezza e grazia perfette" (2.1-3).
Se da un lato la rielaborazione di fonti precedenti costituiva un'operazione quasi indispensabile, dall'altro canto gli esegeti non avevano né volevano avere altre fonti da poter comparare eccetto la Bibbia, poiché tutto il passato letterario era stato quasi completamente fagocitato dagli autodafé e dalla scrupolosa incuria in cui i chierici, unici detentori del sapere, tenevano quelle poche sorgenti sconvenienti che si erano salvate dalla furia distruttiva delle guerre di fede.
Sillogismi di basso spessore come quello creazionistico richiesero incondizionata genuflessione verso le Sacre Scritture: ma l'evidenza della loro pochezza porterà i cristiani ad emendare molto di frequente le loro infallibili dottrine sia nella sorgente che nelle interpretazioni, mettendo in bocca all'Onnipotente parole che egli non avrebbe mai profferito.
Fustigando i suoi ignoranti correligionari, nel De Genesi ad litteram Agostino sottolineava proprio l'impasse del procedere secondo un'interpretazione letterale delle scritture:

"Spesso un miscredente sa qualcosa sulla Terra, sul cielo, e le altre parti del mondo, sull'orbita delle stelle ed anche la loro distanza e grandezza; e queste cose le sa con certezza per ragione ed esperienza. Pertanto, è offensivo per costui sentire come un cristiano, asserendo che tutto è contemplato nelle scritture, dica cose assurde a riguardo di queste cose. Dobbiamo fare il possibile per evitare una situazione così imbarazzante, che la gente vede come ignoranza nel cristiano e cosa di cui ridere. Se [i non-credenti] trovano un cristiano che sbaglia in un campo che essi ben conoscono, e lo vedono mantenere le sue stolte opinioni sui nostri libri, come possono credere in essi a riguardo della resurrezione e dell'aldilà quando pensano che le loro pagine sono piene di falsità su cose che hanno appurato alla luce dell'esperienza e della ragione?
Stolti citatori di sacre scritture apportano indicibile sconquasso fra i loro pari molto più coscienziosi, quando sono colti in una delle loro malvage, false opinioni, e sono chiamati a controbattere coloro i quali non sono, invece, legati all'autorità dei nostri scritti. Per cui, al fine di difendere ad oltranza le loro false [ed ovviamente stolte] asserzioni, si appelleranno alle scritture come prova e addirittura ne citeranno dei passi che credono supportino le prime, senza capire che non conoscono né ciò che dicono né ciò su cui tentano di fare le loro attestazioni".
Tramite questa confessione negativa, il dotto numidico attestava che i cristiani ignorassero volontariamente la realtà dei fatti: al contempo, però, egli stesso non si esimeva dal cadere in quelle stesse leggerezze per cui ammoniva i destinatarii dei suoi precetti. Così nel De Civitate:

"Certuni sono traviati da documenti altamente mendaci, nei quali si professa che la storia sia vecchia di millenni anziché i seimila anni che calcoliamo noi dalle scritture. Ce ne sono altri ancora, i quali credono che esistano altri mondi oltre questo".
E predicava, nel Sermone XXXVII: "Ero già vescovo di Ippona quando giunsi in Etiopia insieme ad altri servi di cristo [...] e vidi uomini e donne senza testa e con grandi occhi nel petto; e, nelle regioni meridionali, gente con un solo occhio". Sempre nell'opus maxima, Agostino diceva d'aver preso atto con stupore che

"Il pavone pare favorito dell'Onnipotente, dato che la sua carne non si corrompe e trionfa sulla morte come nemmeno quella di Platone può; a Cartagine ne ho mangiato uno, la cui carne si conservava intatta per un anno intero, salvo il rimanere solo un po' secca [...] In Cappadocia ci sono giumente che vengono ingravidate dal vento, e i cui puledri vivono solo tre anni [...] Le rane nascono dalla terra, non da genitori sessuati [...] Quanto alla favola degli antipodi, ovvero uomini che vivono nella parte opposta della Terra quando il Sole sorge mentre da noi tramonta, come se ci fossero uomini che camminano coi piedi opposti ai nostri, è del tutto priva di senso".
Nel De Doctrina Christiana, il "conciliante" Agostino scopre finalmente le carte, riprendendo i suoi predecessori plagiarii su tutta la linea:

"Non solo non dobbiamo temere ciò che hanno detto i filosofi antichi [soprattutto i platonici], quando i loro detti sono veri e congeniali alla nostra fede, ma dobbiamo appropriarcene, come se costoro fossero i loro ingiusti possessori"!

(1) Tehom è la traduzione ebraicizzata di Tiamat, il demone-drago del "Caos" primordiale della religione babilonese, che gli ebrei conobbero durante la prigionia a Babilonia.
(2) "Gli gnostici non credono che nella sua unica volontà, per suo piacere, Dio creò il tutto dal nulla [...] poiché l'uomo non può creare nulla dal nulla, bensì soltanto da ciò che è materia, dio, che è superiore all'uomo, chiamò ad esistenza la sostanza delle cose da lui fatte, che prima non esistevano".
(3) "Stiamo parlando di dio: c'è meraviglia che non capiate di cosa stiamo parlando? Poiché se lo comprendeste, egli non sarebbe dio. Facciamo pia confessione d'ignoranza, anziché presuntuosa vanteria di conoscenza. Capire dio con la mente è benedizione, ma è impossibile comprenderlo del tutto" (117.3).