domenica 8 aprile 2012

La crocifissione del padre

Fuori città, su una piccola altura che la dominava, erano piantati verticalmente, a file di otto, quaranta grossi pali, abbastanza robusti da sostenere un uomo. Accanto a ciascuno, per terra, c'era un lungo travetto, sufficiente per ricevere un uomo con le braccia aperte.
Alla vista di quegli strumenti di supplizio, alcuni condannati cercarono di scappare, ma i soldati conoscevano bene il loro mestiere e, gladio in pugno, tagliarono loro la fuga, e uno dei ribelli, che tentò inutilmente di scagliarsi sull'arma, fu subito trascinato alla prima croce. 
Cominciò il lento lavoro, inchiodare i condannati ciascuno al proprio travetto e issarlo sulla cima dell'enorme asta verticale. Dappertutto si udivano urla e gemiti, tuta Sefforis piangeva di fronte al miserevole spettacolo cui, per castigo, era costretta ad assistere. Cominciarono pian piano a formarsi le croci, ciascuna col proprio uomo lì sospeso, le gambe piegate, come si è detto, e ci chiediamo il perché, forse per un ordine di Roma inteso a razionalizzare il lavoro e l'economia del materiale, chiunque, sia pur non avendo esperienza di crocifissioni, può osservare come la croce, per un uomo disteso, non ripiegato, dovrebbe essere più alta, e quindi ci sarebbero più spreco di legno, maggior peso da trasportare, più grandi difficoltà di manovra, senza contare il fatto, a vantaggio dei condannati, che avendo i piedi così in basso li si poteva schiodare facilmente, senza bisogno di scale, passandoli, per così dire, direttamente dalle braccia della croce a quelle della famiglia, se ce l'avevano, o dei becchini, che mica li avrebbero abbandonati lì.
 


Giuseppe fu l'ultimo a essere crocifisso e quindi dovette assistere, l'uno dopo l'altro, al supplizio dei suoi trentanove compagni sconosciuti, e quando arrivò il suo turno, perduta ogni speranza, non ebbe neppure la forza di ripetere le sue rivendicazioni di innocenza, chissà, forse ha perso l'occasione di salvarsi quando il soldato, con il martello in mano, disse al sergente, È il tizio che diceva di non avere colpa, il sergente ebbe un istante di esitazione, proprio l'attimo in cui Giuseppe avrebbe dovuto urlare, Sono innocente, invece tacque, aveva mollato, allora il sergente lo guardò, magari avrà pensato che ne avrebbe sofferto la simmetria se non utilizzava l'ultima croce, che quaranta è un numero tondo e perfetto, fece un gesto e i chiodi furono piantati, Giuseppe urlò e continuò a gridare, poi lo sollevarono di peso, sostenuto per i polsi attraversati dai pezzi di ferro, e poi altre urla, il lungo chiodo che gli perforava i calcagni, Oh, mio Dio, è questo l'uomo che hai creato, lode a te, giacché non è lecito maledirti.

All'improvviso, come se qualcuno avesse dato il segnale, gli abitanti di Sefforis scoppiarono in un triste fragore, ma non fu soltanto per pietà dei condannati, divamparono incendi in tutta la città, le fiamme, ruggendo, come una miccia divorarono le case, gli edifici pubblici, gli alberi nei cortili interni. Indifferenti al fuoco che i soldati andavano appiccando, altri militi del plotone di esecuzione percorrevano le file dei condannati, spaccando loro metodicamente le tibie con le sbarre di ferro.

Sefforis bruciò tutta, da punta a punta, mentre, l'uno dopo l'altro, morivano i crocifissi. Il falegname di nome Giuseppe, figlio di Eli, era un uomo giovane, nel giore degli anni, da poco ne aveva compiuti trentatré.


tratto da Il Vangelo secondo Gesù Cristo, di José Saramago, premio Nobel della letteratura
immagini tratte da The Passion of the Christ, film di Mel Gibson (2004)