giovedì 11 ottobre 2012

Nati per distruggere? Guerre e aggressività nella specie umana

L'uomo è biologicamente destinato alla distruttività? Appartenenze etniche e credenze religiose sono davvero fonte di conflitti? Quali dinamiche ostacolano o agevolano la possibilità di una società multiculturale? "Science" dedica uno speciale al problema della guerra, indicando come la scienza può aiutare a chiarire i principali fattori che influenzano il rischio di guerre e di violenza di massa all'interno delle società

di Gianbruno Guerrerio

Con la fine della Guerra fredda, molti hanno sperato che si aprisse un’era di pace, in cui tanta parte delle risorse indirizzate a mantenere l’equilibrio del terrore potesse indirizzarsi finalmente al miglioramento delle condizioni di vita dell’umanità.

Non è andata così. E’ solo cambiata la tipologia dei conflitti, con una diminuzione di quelli fra Stati, un aumento dei conflitti interni internazionalizzati, ossia di quelli che pur mantenendo l'epicentro all’interno di uno Stato finiscono per coinvolgere altre nazioni, e una prosecuzione inalterata degli altri conflitti interni, ma con potenziale coinvolgimento di un numero sempre superiore di persone, anche in relazione alla diffusione del terrorismo.
E’ possibile guardare da una prospettiva scientifica a questo fenomeno? Può la scienza aiutare a chiarire i principali fattori che influenzano il rischio di conflitti e di violenze di massa? La domanda potrà apparire fuori luogo, o quanto meno fuori epoca, a chi ritiene che con l’Olocausto e la bomba atomica la scienza abbia “perso l’innocenza” e posto fine all’ultima delle “grandi narrazioni” che avevano permesso la coesione sociale e ispirato le utopie che si sono succedute nella storia dell’umanità, per aprire le porte a quella società post-moderna descritta da tanti sociologi, da Jean-François Lyotard a Zygmund Bauman, che, divenuta “liquida” e priva di un senso di comunità, cerca di ritrovarlo attraverso la creazione di ghetti identitari più indifferenti che tolleranti verso gli altri e sempre pronti a entrarvi in conflitto.

La scienza, però, è la sola a poter mettere insieme la massa di conoscenze, competenze e capacità di problem solving indispensaile per promuovere uno sviluppo equo e democratico, proteggere i diritti umani,
porre vincoli sulle armi e diminuire il rischio di conflitti e violenze di massa. Ed è in questo spirito che “Science” dedica buona parte del suo ultimo numero a una serie di articoli in cui, a partire dall’analisi delle profonde radici evolutive che hanno nell'uomo sia lo scontro violento sia anche la capacità di mediare i conflitti, traccia la traiettoria della violenza e della guerra nel corso della storia, per arrivare a indicare un percorso verso un futuro meno violento.

Nati per distruggere?
Il rapporto dell’uomo con la sua distruttività è una questione dibattuta da secoli. Basti ricordare che mentre Jean-Jacques Rousseau sosteneva che disuguaglianza, oppressione e paura fossero un portato di una società complessa mal regolata, Thomas Hobbes sosteneva che la vita senza l'ordine sociale e una rigida gerarchia era "solitaria, povera, sgradevole, brutale e breve”. Ma mentre alcuni studi antropologici della prima metà del secolo XX – come quello sugli Arapesh della Nuova Guinea, che nel 1935 portarono Margaret Mead a scrivere che “uomini e donne sono naturalmente materni, gentili, sensibili, e non aggressivi” - sembravano dare ragione al filosofo francese, dopo gli orrori della seconda guerra mondiale si diffuse l’idea dell’uomo come "scimmia assassina", in contrapposizione agli altri primati considerati invece pacifici. Un’idea che si faceva forte, anche forzandole, delle tesi sostenute da Konrad Lorenz nel suo libro Il cosiddetto male, che indicava l’aggressività come eticamente neutra, un istinto destinato a regolare problemi di territorialità, difesa della prole, selezione sessuale e ordine gerarchico.

Questa prospettiva ha fatto ancora più presa dopo la scoperta che gli scimpanzé sono molto meno pacifici di quanto ritenuto e che possono organizzare scorribande letali ai danni sia di altre specie di scimmie sia di altri gruppi di scimpanzé. La scoperta ha spinto a far risalire il peccato originale della distruttività intraspecifica al “Pan ancestrale”, l’antenato comune alla nostra specie e allo scimpanzé.

Al riequilibramento di questa concezione sono dedicati gli articoli di Frans de Waal, Christopher Boehm e D.P. Fry. de Waal, della Emory University, analizza il comportamento delle due specie di primati a noi più vicine e afferma che "mentre gli scimpanzé possono essere violenti in modo letale, i bonobo sono relativamente tranquilli e molto empatici sia nel loro comportamento sia a livello di organizzazione del cervello” osservando come la ricerca sui primati suggerisca che l'empatia può essere il fattore motivazionale per il comportamento "prosociale" negli esseri umani.

Christopher Boehm, dell’University of Southern California a Los Angeles, traccia la storia evolutiva del conflitto confrontando il comportamento dell’uomo, degli scimpanzé e dei bonobo per cercare di desumere quello del comune antenato ancestrale, il quale con tutta probabilità non tendeva a ingaggiare conflitti a tutto campo come l’uomo moderno. La guerra avrebbe quindi iniziato a far parte della vita della nostra specie all’epoca dei cacciatori-raccoglitori, che però erano comunque in grado di utilizzare strumenti meno concreti ma altrettanto solidi di mazze e lance per risolvere i conflitti, quali tregue e trattati di pace.

L'argomento è ripreso da D.P. Fry, della Åbo Akademi University a Vasa, in Finlandia, che illustra come le ricerche secondo cui gli Yanomami guerrieri avevano un maggiore successo riproduttivo rispetto ai non guerrieri, a una più attenta valutazione teorica, matematica ed empirica, sembrano condurre a conclusioni opposte, sgombrando il campo da un argomento più volte portato a favore dell’ancestralità della bellicosità umana.

Sull’altro piatto della bilancia Fry mette l’esempio di tre gruppi di società limitrofe pacifiche: le tribù del bacino superiore del fiume Xingu in Brasile, la Confederazione degli Irochesi dello Stato di New York, e l'Unione europea, dalla cui analisi estrae sei caratteristiche importanti per la creazione e il mantenimento della pace, tra cui un'identità sociale generale, l'interconnessione e interdipendenza tra i sottogruppi, e l’esistenza di un simbolismo e di cerimonie che rafforzano la pace.

Il problema centrale sembra dunque quello di identificare le dinamiche che sottostanno alla formazione di gruppi che rifiutano la possibilità di un terreno d’incontro comune

Conflitti etnici e religiosiNell’analisi sul ruolo che hanno le divisioni etniche in molti conflitti civili, Joan Esteban e colleghi della Barcelona Graduate School of Economics e della New York University, mostrano l’importanza di distinguere i concetti di polarizzazione, che si riferisce al numero di gruppi etnici diversi in una popolazione, e di frazionamento, che esprime il grado di antagonismo tra gruppi etnici o di alienazione all'interno di un gruppo. Sulla base dei dati relativi ai conflitti avvenuti in 38 paesi fra il 1960 e il 2008, gli autori mostrano attraverso un modello numerico che l’etnia non è rilevante di per sé allo scatenamento delle violenze, ma che ha una funzione strumentale.

Attraverso un’analisi dei canali di influenza sul conflitto, i ricercatori dimostrano inoltre che il frazionamento ha un ruolo maggiore nelle situazioni in cui il conflitto mira alla conquista di un vantaggio di carattere principalmente “pubblico”, come il potere politico o l’egemonia religiosa, mentre la polarizzazione è sfruttata in modo più significativo quando il vantaggio cercato coinvolge interessi “privati”, come l’accaparramento di ricorse, infrastrutture, sussidi.

Una conclusione simile sembra emergere anche dall’analisi condotta da Scott Atran e Ginges Jeremy, rispetttivamente del CNRS–Institut Jean Nicod di Parigi e della New School for Social Research a New York, sul peso del fattore “religione” nella genesi e nello sviluppo dei conflitti. Gli autori notano che le questioni esplicitamente religiose hanno motivato solo una piccola minoranza delle guerre e dei conflitti interni registrati, ma che spesso a questioni secolari che potrebbero essere risolte pacificamente o razionalmente viene sovrapposto un quadro religioso che rende non negoziabili le posizioni in gioco.
Se infatti la religione può favorire la fiducia nel “noi” (ingroup), può anche aumentare la sfiducia negli “altri” (outgroup). Attraverso la religione, in situazioni di tensione, preferenze sociopolitiche altrimenti “banali” possono diventare valori sacri, che operano come imperativi morali, diventando immuni all’influenza degli incentivi materiali che potrebbero essere materia di trattativa in vista di una composizione del conflitto.

Per questo, concludono i ricercatori, “abbiamo bisogno di sapere di più sui meccanismi cognitivi e sociali alla base della sacralizzazione dei valori che cementa la devozione personale alle norme del gruppo. (…) Gli studi di neuroimaging possono chiarire come i valori della religione e sacri differiscano da credenze e valori secolari, per comprendere meglio come interagiscono e quali aspetti siano suscettibili di manipolazione e indirizzamento verso la violenza o la nonviolenza. Abbiamo bisogno di sviluppare gli studi su come i bambini acquisiscono i valori della religione e del sacro, e come le persone arrivino a cambiarli o abbandonarli.”


Il multiculturalismo e le dinamiche dei gruppi La distinzione fra “noi” (ingroup) e gli “altri” (outgroup) è al centro anche degli articoli di Richard Crisp e Rose Meleady, dell’University of Kent, e di Naomi Ellemers, della Leiden University, che affrontano il problema del multiculturalismo e delle dinamiche di gruppo correlate.

L’aumento di tensioni e conflitti interni in paesi che nei decenni scorsi hanno visto un flusso di immigrazione significativo ha portato molti a parlare di fallimento del multiculturalismo. Nel loro articolo, Richard Crisp e Rose Meleady illustrano una serie di recenti studi che mostrano come i nostri comportamenti sociali siano legati a due differenti sistemi cognitivi: da un lato, abbiamo un ancestrale propensione, cablata nei circuiti cerebrali, a classificare le persone nelle categorie "noi" e "loro"; dall’altro il nostro cervello ha anche un sistema dedicato all'aggiornamento delle aspettative sulla base di nuove informazioni.

L'esistenza di due sistemi per stringere alleanze, osservano gli autori, potrebbe spiegare i risultati divergenti in caso di contatto interculturale. Dove i gruppi tendono a essere chiusi in se stessi, ad agire è in prevalenza il primo sistema cognitivo, mentre dove la politica incoraggia le persone a far proprie più appartenenze sociali trasversali – in particolare quelle che sfidano le aspettative basate su categorizzazioni ancestrali - si mobilita il secondo sistema cognitivo che riduce le emozioni negative stimolando la creazione di nuove alleanze.
Naomi Ellemers prospetta un’analisi dei meccanismi che portano alla discriminazione sociale, all'aggressività e al conflitto tra gruppi diversi all’interno di una società lungo le linee della teoria dell’identità sociale, originariamente sviluppata negli anni settanta da Henri Tajfel e John Turner. La teoria mira a identificare gli specifici processi cognitivi di base e le condizioni sociali che possono chiarire e permettere di prevedere quando e perché le persone pensano, sentono e agiscono come membri di un gruppo e quando si hanno maggiori probabilità che rispondano come singoli individui.

L’autrice sottolinea che gli studi che documentano i principi universali del comportamento umano hanno avuto la tendenza a concentrarsi sull'individuo come centro di autocoscienza, autocontrollo e preoccupazione per sé, ma che scrupoli personali, preferenze e idiosincrasie possono apparire meno importanti, quando le persone si sentono fortemente parte di un gruppo, in particolare quello che la Ellemers chiama “gruppo self”.

Nella sua analisi, Ellemers mostra che nello sviluppo di queste dinamiche il gruppo, solitamente considerato fonte di sostegno, può invece trasformarsi in qualcosa che mina la fiducia in se stessi, finendo per aumentare le tensioni sociali. Il “gruppo self” può portare le persone ad assumere un comportamento che opposizione agli ideali personali (per esempio, non fare del male), se questo sembra l'unico modo per acquisire importanti obiettivi collettivi, facendo apparire la violenza giustificata per ottenere un cambiamento sociale. Allo stesso modo, anche l’interesse personale, come l’attenzione alla propria sicurezza, può annullarsi nel perseguimento di ideali condivisi.

http://www.lescienze.it/news/2012/05/17/news/conflitti_etnici_religiosi_guerra_multiculturalismo_aggressivit_dinamiche_dei_gruppi_natura_umana_pace_empatia_composizione_-1028189/