sabato 20 ottobre 2012

La nuova geografia della ricerca

Le colonne indicano quale paese è ritenuto essere oggi leader nella ricerva (verde), quale lo sarà nel 2020 (viola) e quanti ricercatori sarebbero disposti a trasferirsi in quel paese (azzurro). (Cortesia Nature)


Se l’eccellenza scientifica è oggi appannaggio di Stati Uniti e di alcuni paesi europei, secondo un sondaggio quasi il 60 per cento degli scienziati dei più diversi settori ritiene che già nel 2020 i centri più avanzati saranno in Cina e in altri paesi emergenti. A fronte di ciò, le collaborazioni con queste nazioni in via di sviluppo sono ancora deboli, con il rischio di una diminuzione dell'importanza, quali partner scientifici privilegiati, delle economie occidentali, che proprio sulla ricerca devono fare affidamento (red)


La scienza si sta muovendo, e non solo nel senso che avanza, ma anche in quello più letterale di chi e dove si fa scienza. Nel corso dell’ultimo secolo la fiaccola del paese leader nella ricerca è passata da Germania e Francia a Regno Unito e Stati Uniti, e questi quattro paesi sono rimasti comunque incontrastati dominatori del gruppo di testa, a dispetto delle relative posizioni in classifica. Con la globalizzazione però le cose stanno cambiando e diversi paesi emergenti – a partire da Cina, India, Singapore, Brasile e Corea del Sud – stanno assumendo una posizione di rilevanza sempre maggiore. A fare il punto sulla situazione e sulle complesse tendenze in atto è una serie di articoli pubblicati su “Nature” in cui sono illustrati e commentati diversi studi in proposito.
Per cercare di capire quali siano le nazioni candidate al ruolo di importante centro di ricerca mondiale, “Nature” ha innanzitutto analizzato i flussi di ricercatori da una nazione all’altra, un importante indice della capacità di attrazione dei cervelli migliori. I risultati sono stati poi integrati con altri ottenuti da un sondaggio su quella che gli scienziati ritengono la futura “terra promessa” nel proprio campo di studio.
Dall’analisi dei dati ottenuti nel sondaggio GlobSci, che ha coinvolto 17.000 ricercatori in quattro ambiti (biologia, chimica, scienze della Terra e ambientali, e scienza dei materiali) e che verrà pubblicato il prossimo dicembre su “Nature Biotechnology”, emerge innanzitutto che i paesi sviluppati ospitano il maggior numero di ricercatori stranieri. Ma se si considera la loro percentuale sul numero complessivo di ricercatore per nazione arriva qualche sorpresa: in questo caso infatti sono in testa Svizzera (57 per cento), Canada (47 per cento), Australia (45 per cento) e Stati Uniti (38 per cento), fanalini di coda sono India, Italia (3 per cento) e Giappone.

Peraltro, alla domanda su quale sia il paese in cui la ricerca è più avanzata nel proprio campo e quale sarà quel paese nel 2020, le risposte indicano un crollo degli Stati Uniti dall’87 al 36 per cento e un balzo della Cina dal 12 al 59 per cento e dell’India dal 4 al 29 per cento. Anche i paesi europei registrano una flessione, sebbene in generale meno drammatica rispetto a quella che riguarda gli Stati Uniti.

Un aspetto singolare che emerge è che, per quanto le principali motivazioni che spingono i ricercatori a emigrare siano le opportunità per migliorare le prospettive di carriera e la presenza di gruppi di ricerca d’eccellenza, solo una piccola percentuale è disposta a considerare l’idea di trasferirsi in Cina. La cosa, osserva “Nature”, sembra collegata a fattori politici e culturali e al fatto che attualmente la maggior parte degli scienziati (e degli intervistati) appartiene al mondo europeo e statunitense.

Ma questo, dice Jonathan Adams, direttore del centro di valutazione della ricerca di Thomson Reuters, potrebbe essere pericoloso: “Se i ricercatori europei e statunitensi non passano un tempo ragionevole in Cina, difficilmente capiranno come è condotta la ricerca in quel paese, anche quando il peso scientifico cinese crescerà”.

D’altra parte, prosegue Adams, già oggi i ricercatori asiatici hanno sempre meno bisogno di un riconoscimento da parte degli autori europei e statunitensi, dato che si assiste a una crescita sempre più massiccia di significative collaborazioni regionali: “Singapore, per esempio, sta già raccogliendo i frutti del cambiamento del 1998 nella politica per attrarre studenti stranieri. Gli studenti provenienti da Cina, India e dai dieci paesi dell'Associazione delle nazioni del Sudest asiatico (ASEAN) rappresentano oggi circa il 20 per cento della popolazione studentesca dell'Università di Singapore: circa 11.000 studenti a tempo pieno e altri 20.000 studenti afferenti ad altri college. Gli studenti provenienti da quei paesi scelgono Singapore per la sua vicinanza, il minor costo della vita rispetto a Europa e Stati Uniti e per le generose borse di studio governative. Le opportunità di lavoro sono eccellenti: i titolari di una borsa di studio firmano un impegno a lavorare a Singapore per un periodo fisso dopo la laurea e il governo li aiuta a trovare un lavoro che si adatti alle loro capacità.”

Ciò significa che le economie occidentali, che sempre più devono fondarsi sulla ricerca, rischiano di vedere ridotta la loro importanza quali partner privilegiati per la ricerca. Per affrontare una sfida simile, osserva Adams, queste economie hanno bisogno di costruire, in modo solo apparentemente paradossale, una solida rete di esportazione di studenti verso i paesi in cui la ricerca sta fiorendo, come Cina e India. O più precisamente, un’esportazione temporanea, che permetta di inserirsi e partecipare alle più diffuse reti della conoscenza nate del villaggio globale e mantenere attive le collaborazioni di ricerca.

http://www.lescienze.it/news/2012/10/20/news/dove_va_la_ricerca_europa_usa_asia_cina-1320533/