martedì 16 ottobre 2012

Alla ricerca del progresso perduto

L’Europa non ha più il primato nella produzione di nuova conoscenza. Perché ha smesso di investire nella scienza e nello sviluppo. Ecco cosa c’è alle radici del nostro declino economico e culturale

L’origine del declino europeo? Forse è in due dati: 1,7 per cento contro 2,0 per cento. Nell’anno 2008 l’Europa ha investito in ricerca scientifica e sviluppo tecnologico (R&S) l’1,69 per cento della ricchezza che ha prodotto. Il resto del mondo il 2,04 per cento. In quel medesimo anno l’Unione europea ha prodotto ricchezza per 16.487 miliardi di dollari, pari al 28,5 per cento del Prodotto interno lordo mondiale. Ma ha speso in R&S l’equivalente di 278,8 miliardi di dollari: il 24,9 per cento. Che sia in questi numeri l’origine del declino europeo? La tesi è tutta da dimostrare. A partire dagli assunti. L’Europa è davvero in una fase di declino? La cronaca ci dice di sì. Il nostro continente ha risentito di più della crisi finanziaria che ha investito il mondo a partire dal 2007. E da allora l’economia europea cresce meno di quella del resto del mondo. Qualcuno parla di un vagone piombato europeo che frena la corsa del convoglio planetario. Ma non si tratta di un declino contingente. È un declino di lungo periodo. Vecchio, almeno, di un secolo. All’inizio del Novecento, infatti, il vecchio e piccolo continente produceva il 40 per cento della ricchezza mondiale. Oggi non supera il 20. Il peso dell’Europa nell’economia mondiale è diminuito non solo perché anche altri continenti – prima l’America del Nord, poi l’Asia – hanno iniziato a svilupparsi. Ma anche perché l’Europa non riesce a tenere il passo degli altri. Facciamo degli esempi: nel 1990 il reddito pro capite di un europeo era pari all’80 per cento di quello di un americano. Oggi è sceso al 63. Nel 1980 il reddito medio pro capite di un coreano (2.300 dollari l’anno) era un quarto di quello di un italiano (9mila dollari). Nel 2010, secondo il Fondo monetario internazionale, il reddito medio pro capite dei coreani (29.800 dollari) ha superato quello di un italiano (29.400 dollari). Ma l’indicatore più significativo del declino è dato, forse, dall’incremento della produttività del lavoro: la ricchezza prodotta nelle fabbriche europee è cresciuta tra il 1995 e il 2009 al ritmo dell’1,04 per cento annuo. Nello stesso periodo negli Usa è cresciuta al ritmo dell’1,93 e in Giappone dell’1,91. In pratica l’Europa corre con una velocità che è più o meno la metà di quella delle altre economie mature, per non parlare della velocità delle economia emergenti. Ma il declino non è solo economico. Anche qui la cronaca, purtroppo, ci aiuta. C’è evidente in Europa una crisi di identità. E la spinta unitaria che aveva attraversato il continente subito dopo la secondo guerra mondiale e che in pochi anni aveva portato ai Trattati di Roma si è andata progressivamente esaurendo. Sull’abbrivio della spinta originale siamo arrivati all’integrazione economica e alla moneta unica. Ma ora sembrano prevalere spinte che vanno in senso contrario. Spinte centrifughe.

Ma cosa c’entra la scienza con questo declino? Molto. Perché, come era ben chiaro a Jacques Delors e alle varie commissioni da lui presiedute fin dagli anni Ottanta del secolo scorso, l’economia ha subito una nuova, grande transizione. Una vera rivoluzione. La terza nella storia dell’umanità. Dopo la rivoluzione dell’agricoltura (circa 12mila anni fa) e dopo la rivoluzione industriale (poco più di 200 anni fa) è in atto la rivoluzione della conoscenza. Il che significa che il valore dei prodotti più dinamici sui mercati mondiali non è dato tanto dal combinato disposto di costo della materia prima e di lavoro, ma anche e soprattutto dal valore della conoscenza che essi incorporano. Per esempio, il valore della vecchia macchina da scrivere con cui buttavo giù i miei articoli trenta anni fa era dato, in buona sostanza, dal costo dei metallo e della plastica necessaria a costruirla, più il costo del lavoro degli operai che assemblavano. Oggi sto buttando giù questo articolo con un computer il cui valore è definito soprattutto dalla conoscenza informatica che contiene. Nell’era della conoscenza la scienza assume una funzione di protagonista assoluta. Per i due motivi indicati da Luciano Gallino. Perché la scienza produce più di ogni altra dimensione della cultura umana nuova conoscenza: e questa produzione di nuova conoscenza si traduce in ricchezza. E perché l’innovazione tecnologica utilizza «volumi senza fine crescenti» di conoscenza scientifica. Per dare una rappresentazione quantitativa del fenomeno: le industrie Knowledge and technology intensive producono, ormai, il 38 per cento della ricchezza negli Stati Uniti, il 30 nell’Unione europea, il 28 in Giappone, il 25 nei Paesi a economia emergente dell’Asia continentale. L’Europa, dunque, non è collocata male nel “nuovo mondo” generato dalla rivoluzione della conoscenza. Non in assoluto, certo. Ma ha difficoltà. Perché, mentre nelle altre aree del mondo le produzioni hi tech tendono a crescere a ritmi sostenuti, in Europa la crescita è piuttosto rallentata. È per questo motivo che, nell’anno 2000 a Lisbona, su indicazione della commissione Delors i rappresentanti dei paesi dell’Unione europea decisero di darsi un obiettivo ambizioso: l’Europa avrebbe dovuto conquistare la leadership nell’economia della conoscenza entro l’anno 2010. Nel 2002 a Lisbona indicarono anche come: credendo sempre più nella scienza e nell’innovazione e aumentando di conseguenza gli investimenti in R&S dall’1,9 per cento di allora ad almeno il 3.

Lucida analisi. Ma come siano andate poi le cose sul campo è risaputo. L’anno 2010 è arrivato e l’Unione europea non solo non ha centrato i suoi obiettivi, ma se ne è allontanata. Malgrado continui a considerarli strategici. Perché le industrie e i servizi ad alto contenuto di conoscenza creano più ricchezza, danno più occupazione e remunerano meglio (un rotondo 30 per cento in più in media) i propri lavoratori. Tant’è che la Commissione Barroso li ha indicati come traguardo per il 2020. Torniamo, dunque, ai dati iniziali. Gli investimenti in R&S in Europa, malgrado gli “obiettivi di Lisbona e di Barcellona” invece di aumentare sono diminuiti. Mentre il mondo è andato in direzione opposta, triplicando in venti anni i gli investimenti in R&S: passando da 400 miliardi di dollari nel 1990 ai 1.300 miliardi di dollari del 2011. L’analisi comparata tra Europa e resto del mondo è impietosa. Nel 1990 l’Europa investiva circa l’1,9 per cento del Pil in R&S e il mondo l’1,3. Venti anni dopo mentre il resto del mondo è balzato al 2,0 per cento, l’Europa ha subito una arretramento, all’1,7. Non lasciatevi ingannare dall’arido ginepraio di tutte queste cifre. Significano che l’Europa si trova in una condizione assolutamente sconosciuta da almeno mezzo millennio. Dopo la rivoluzione scientifica del Seicento, infatti, l’Europa ha avuto per tre secoli il monopolio pressoché assoluto della produzione di nuova conoscenza scientifica. E su questo monopolio il «piccolo continente» ha fondato la sua leadership culturale, economica e (ahimè) militare. Poi, all’inizio del XX secolo, non ha saputo più fare i conti con la modernità. Ed è iniziata la fase di declino. L’asse scientifico del pianeta, anche per i tragici errori degli europei, si è spostato negli Stati Uniti. Ma fino all’inizio del XXI secolo l’Europa ha continuato ad avere una posizione di primaria importanza in ambito scientifico e tecnologica: per lungo tempo, con la sola eccezione del Giappone, la partita dell’innovazione è stata una partita giocata tra le due sponde dell’Atlantico Settentrionale.

Ora si verifica un fatto inedito. Oggi, per la prima volta nell’ultimo mezzo millennio, l’Europa “crede” nella scienza meno del resto del mondo. Ma cosa ci dice che sia questa crisi di un rapporto una volta unico alla base del crepuscolo europeo? Beh, ce lo dicono le stesse dinamiche interne al continente. L’Europa non è un tutt’uno. Anzi, è vistosamente frammentata. E ogni frammento corre a velocità diversa nell’economia della conoscenza. C’è un frammento, che potremmo definire il frammento mediterraneo perché composto da Spagna (e Portogallo), Italia e Grecia che è pressoché fermo. Gli investimenti in R&S languono e la mancanza di produzioni hi tech drammatica. Guarda caso, sono proprio i paesi che si trovano nel pieno di una crisi che è finanziaria, produttiva e occupazionale. C’è poi un altro frammento, che possiamo definire teutonico, perché ruota intorno al grande sole della Germania, che va dalle Alpi (Svizzera e Austria) fino in Scandinavia. Questo grumo di Paesi è quello che risente meno della crisi economica, che esporta alta tecnologia nel resto dell’Europa e del mondo, che compete anche con le più aggressive tigri asiatiche, che ha i maggiori tassi di occupazione, che paga meglio i propri lavoratori, che conserva una buona integrazione sociale, che distribuisce meglio la ricchezza, che rispetta di più l’ambiente (anzi fa del rispetto dell’ambiente una leva per lo sviluppo). Guarda caso questo grumo di Paesi si distingue per gli alti investimenti in R&S, prossimi agli obiettivi di Barcellona, e per gli alti investimenti nella scuola, di ogni ordine e grado. È questo, con la parziale eccezione della Francia, l’unico frammento dell’Europa che tiene vivo il suo rapporto con la scienza. Forse è il modello a cui l’Europa deve aggrapparsi per evitare il declino. Forse è l’ultimo appiglio cui può aggrapparsi per tirare su quella parte dell’Europa, compresa l’Italia, che è già in una condizione di declino conclamato.

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