giovedì 18 ottobre 2012

La longevità umana dal punto di vista dell'evoluzione

La riduzione della mortalità umana è un fenomeno che non ha eguali nel mondo biologico perché è avvenuta a partire dal XX secolo e ha coinvolto solamente le ultime quattro delle circa 8000 generazioni di esseri umani. Il fenomeno andrebbe quindi indagato per le sue cause e le sue conseguenze non solo sociali, economiche e sanitarie, ma anche evolutive (red)


La speranza di vita è costantemente aumentata nell’ultimo secolo nella maggior parte dei paesi sviluppati, superando in molti casi gli 80 anni. Si tratta di un sicuro progresso, giustamente sottolineato nei rapporti sulla salute pubblica e sulle condizioni socioeconomiche dei diversi paesi. Uno studio pubblicato sui “Proceedings of the National Academy of Sciences” cerca ora di inquadrare il fenomeno in una più ampia prospettiva evolutiva.

Molti studi recenti hanno documentato la notevole capacità degli esseri umani nel prolungare la lunghezza della vita: si è dimostrato in particolare che nei paesi più longevi, la speranza di vita alla nascita ha conosciuto un miglioramento incredibilmente lineare a partire dal 1840 per arrivare ai giorni nostri, con un tasso di circa 3 mesi all’anno. Analogamente, si è dimostrato che il miglioramento nella longevità è stato ottenuto con una rapida e costante diminuzione della mortalità a ogni età.

Questi dati hanno generato negli anni un ampio dibattito non solo sulle possibili cause, ma anche sulle conseguenze sociali, economiche e sanitarie. Ma secondo Oskar Burgera, Annette Baudischa e James W. Vaupela, rispettivamente del Max-Planck-Institut per la ricerca demografica, in Germania, dell’Istituto di Sanità pubblica dell’Università della Danimarca del Sud, e della Duke University, a Durham, è mancata quasi totalmente una riflessione approfondita sulle modalità con cui l'aumento della longevità umana, e di conseguenza la plasticità biologica che ne è alla base, possa essere compresa nelle teorie evoluzionistiche dell’invecchiamento.

Per colmare questa lacuna, Burgera e colleghi hanno condotto un esteso confronto del profilo di mortalità delle popolazioni umane a partire da quelle dei cacciatori-raccoglitori, per arrivare a epoche storiche recenti fino ai giorni nostri.

Dai dati raccolti emerge un dato essenziale: la mortalità umana è diminuita in modo così sostanziale che la differenza tra le antiche popolazioni di cacciatori-raccoglitori e quelle attuali dove la mortalità più bassa – ovvero i giapponesi e gli svedesi – è maggiore di quella tra gli stessi cacciatori-raccoglitori e gli scimpanzé selvatici. L’unica popolazione con una mortalità simile a quella delle prime società umane sono gli schiavi di Trinidad nel XIX secolo.

Nei cacciatori-raccoglitori, il tasso di mortalità fino a 15 anni di età era più di 100 volte maggiore rispetto a giapponesi e svedesi, e di 10 volte più elevato sull’intero ciclo di vita. Ma l’aspetto forse più eclatante è che la riduzione della mortalità è stata molto rapida e molto recente: gran parte di essa è avvenuta infatti a partire dal XX secolo, riguardando quindi solo quattro circa delle 8000 generazioni di esseri umani vissute finora.

In definitiva, sottolineano gli studiosi, la recente diminuzione della mortalità umana è un fatto che non ha eguali nel mondo biologico e testimonia una straordinaria plasticità del genoma umano in questo particolare aspetto della vita. Resta il problema dare un’interpretazione evolutiva a simili risultati, e l’articolo di PNAS si conclude con una serie di domande aperte: “Come si spiega questa plasticità? Per quale motivo il genoma umano consente una riduzione così drastica della mortalità attraverso processi non genetici? Altre specie possiedono una plasticità simile?”. E soprattutto: “Per quanto tempo ancora potrebbe continuare a migliorare la speranza di vita?”.

http://www.lescienze.it/news/2012/10/17/news/aspettativa_vita_prospettiva_evoluzionistica-1313422/