domenica 3 giugno 2012

SULL'ORIGINE DELLA RELIGIONE

Quando si affronta, sul piano scientifico (e per quanto sia possibile), il problema dell'origine umana della religione, bisognerebbe fare un'importante distinzione preliminare, quella fra società antagonistiche e società collettive (tribali, claniche, comunitarie, ecc.). Tale distinzione permette subito di capire se un dato atteggiamento religioso (o mistico, irrazionale...) può essere strumentalizzato o no. Non è tanto, in effetti, il sentimento religioso in sé a costituire "problema", a destare il maggiore interesse (in un certo senso è irrilevante sapere come esso nasca), quanto piuttosto è l'atteggiamento della collettività nei confronti di tale sentimento, è lo sviluppo ch'esso assume in una determinata collettività.


Facciamo un esempio. La dipendenza dell'uomo dalla natura, quand'era avvertita con angoscia, poteva determinare un comportamento cosiddetto religioso (del tutto spontaneo, istintivo), ma mentre in una società divisa in classi c'è sempre qualche forza sociale che pensa di utilizzare tale comportamento per un fine di potere (cioè per sottomettere altre forze sociali), viceversa, nelle società caratterizzate dal comunismo primitivo tale strumentalizzazione avrebbe avuto molte meno ragioni di affermarsi.

In altre parole: il bisogno di usare la religione (cioè i sentimenti d'impotenza, d'angoscia e di dipendenza, relativi a certi fenomeni naturali o sociali) per sottomettere qualcuno, poteva nascere solo in una società dominata dalla presenza dello schiavismo o della soggezione servile. Proprio tale concreta, sociale, sottomissione comportava, di necessità, che ogni atteggiamento quotidiano venisse ricondotto, per essere giustificato, a una motivazione di tipo religioso (almeno formalmente religioso), poiché solo con questa motivazione si poteva legittimare il riprodursi di quella stessa sottomissione.

Al contrario, nell'atteggiamento spontaneo dell'uomo primitivo la religione, al massimo, poteva costituire un aspetto della sua vita sociale e/o personale (se mai vi fosse stata una differenza tra i due ambiti), e neppure quello più significativo, in quanto relativo a particolari momenti di sconforto e di abbandono: il che poi non era così frequente, come in genere si crede, essendo la comunità, proprio in quanto "comunità", capace di supplire, relativamente, alla debolezza del singolo individuo nel suo rapporto con la natura.

Quindi la vera, profonda contraddizione non è sorta quando gli uomini hanno cercato di dare delle spiegazioni fantastiche (appunto religiose, mitologiche) ai drammi della loro vita quotidiana, ma è sorta quando qualcuno ha preteso di regolare tutta la vita quotidiana (anche quella "naturale", priva di angoscia) sulla base di tali spiegazioni irrazionali. Una vita a stretto contatto con la natura è molto meno religiosa di quel che si creda. La religione, in sostanza, cominciò a diventare un freno allo sviluppo quando qualcuno (ad es. una classe sociale o una casta particolare) se ne servì per condizionare tutta la vita di una determinata società o comunità.

La religione, al pari della superstizione, è senz'altro un prodotto dell'ignoranza, ma non necessariamente della malafede o del pregiudizio. Essa è potuta diventare uno strumento dello sfruttamento economico e della soggezione politica quando la comunità primitiva si era già divisa in classi antagonistiche, quando cioè il principio della proprietà privata aveva fatto sorgere interessi contrapposti. Nel suo Discorso sulla disuguaglianza ha scritto Rousseau: "Il peccato più grave non è stato quello di dire "questo è mio", dopo aver recintato un terreno, ma quello di credere nella verità di questa affermazione".

Sotto tale aspetto però si potrebbe anche sostenere che l'uso strumentale della religione è già indice di un'affermazione di princìpi ateistici, benché in modo rozzo e volgare. Non sarebbe infatti possibile servirsi della religione in termini così spregiudicati se chi lo facesse non avesse da tempo abbandonato il sentimento religioso più genuino, più spontaneo e naturale. Certo, si può anche essere convinti che la realtà dello schiavismo sia frutto, più o meno, della volontà di dio, ma se si continua a credere in questo anche nel momento in cui lo schiavo pretende una propria libertà, allora ogni convinzione perde subito qualunque carattere di ingenua spontaneità.

Queste osservazioni per dire che l'ateismo è la vera dimensione della coscienza umana: quanto più tale coscienza è sviluppata tanto più l'ateismo vi sarà radicato. Il vero sentimento religioso non è che una breve tappa dell'ingenuità, riscontrabile, nelle moderne società occidentali, soltanto nei preadolescenti. Si potrebbe anzi definire col termine di "inconsapevole" l'ateismo primitivo, a causa delle sue perplessità di fronte a certi fenomeni naturali e biologici, come la vita, la morte, la malattia, la riproduzione ecc., mentre quello delle tre epoche antagonistiche (schiavismo, servaggio e capitalismo) può essere ritenuto "consapevole", ma solo da parte delle classi egemoni, che si servono appunto della religione (e di altre illusioni) per conservare il loro potere: si tratta quindi di un ateismo agnostico, ambiguo, superficiale, volgare... Il vero ateismo, quello scientifico, umanistico, coerente, è quello socialista, cioè quello che riflette un rapporto sociale democratico, egualitario, non alienato, un rapporto che non ha bisogno di false rappresentazioni per poter sopravvivere e riprodursi.

Occorre inoltre fare una precisazione sul concetto di "ignoranza". Gli uomini primitivi senza dubbio lo erano, ma certo non nel senso che non avevano le capacità o le possibilità di conoscere la realtà. Essi avevano una capacità proporzionata ai loro mezzi e alla loro esigenza di conoscere, cioè alla loro effettiva autocoscienza. Se fossero stati completamente vittime di concezioni mistiche o irrazionali, non si sarebbe verificato alcun progresso scientifico, tecnico, speculativo, alcun mutamento nei loro strumenti di lavoro, alcun cambiamento nelle loro società.

L'ignoranza quindi è un concetto molto relativo. Già Socrate, amando il paradosso, diceva di poter soltanto "sapere di non sapere". Oggi, ad es., sappiamo tantissime cose sulla natura della materia, ma sappiamo anche che tantissime altre ci sfuggono: la stessa ignoranza circa l'origine dell'universo e dello stesso uomo (o del processo d'invecchiamento) angoscia certo più noi di quanto potesse farlo centomila anni fa. Il peso dell'ignoranza è tanto più avvertito quanto più è forte l'esigenza del conoscere, che è a sua volta correlata al livello di autoconsapevolezza umana e al livello di strumentazione tecnica a disposizione. Entrambe le cose sono indispensabili, poiché, ad es., ci sono voluti più di duemila anni prima di dimostrare che i ragionamenti filosofici dei greci sull'atomo non erano del tutto astratti. Il che poi non significa che l'uomo non sia destinato a raggiungere un tipo di esperienza in cui l'ignoranza venga avvertita senza angoscia. In fondo l'innocenza dell'uomo primitivo, che sicuramente non conosceva la malizia dell'uomo moderno, andava esente da molte di quelle frustrazioni e di quei complessi che oggi sono di ordinaria amministrazione.

Quel che è certo è che la soddisfazione dell'esigenza intellettuale di conoscere non risolve, di per sé, il sorgere delle false rappresentazioni su di sé e sulla realtà circostante (sociale e naturale), altrimenti non si spiegherebbe il motivo per cui tantissimi intellettuali sono (o si dichiarano) "credenti". Le false rappresentazioni sono anzi un fenomeno più intellettuale che primitivo, in grado di condizionare molto meno la vita di un uomo semplice, spontaneo, istintivo. Sono gli intellettuali che, restando legati a certe false rappresentazioni della realtà, compiono azioni deleterie ai fini degli interessi sociali. L'intellettuale alienato (con idee religiose, mitologiche o comunque irrazionali) sa distinguere, come il primitivo, la finzione dalla realtà, ma, a differenza del primitivo, attribuisce a certe finzioni (ovvero a certe "idee fisse") un peso di molto superiore a quello della realtà. La finzione per lui non è un "gioco" ma una cosa seria, che può portare anche alla follia (vedi Kierkegaard, Nietzsche...)..

Ecco perché il fenomeno religioso deve sempre essere esaminato in rapporto al contesto storico-sociale in cui si forma e si sviluppa. Bisogna, in particolare, esaminare l'alienazione che domina a livello di rapporti di proprietà, di lavoro e di socializzazione. Peraltro, oggi, al posto della religione le classi egemoni usano altri "oppiacei" per tenere sottomesse le classi produttive, prive di proprietà. Essendo maturato il livello di autoconsapevolezza, cioè il livello di coscienza materialistica, storica, ateo-scientifica, il potere borghese ha bisogno di strumenti che tengano conto di questo habitus mentale.

LA FORMAZIONE DEL PENSIERO RELIGIOSO

Vi sono molti storici, archeologi e antropologi che sostengono che la religione sia sorta come un riflesso fantastico della debolezza e sottomissione dell'uomo nei confronti della natura, un riflesso maturato in un cervello relativamente sviluppato. I primi riti religiosi sarebbero basati sul culto delle forze naturali e animali, soprattutto in rapporto alla caccia, quale fonte principale di sussistenza. Gli uomini avrebbero cercato di divinizzare gli oggetti o i fenomeni naturali più temuti per volgerli a loro favore. Tracce evidenti di rituale religioso si trovano nelle sepolture del paleolitico superiore (40.000-18.000 anni fa) e forse anche nell'epoca dell'uomo di Neanderthal (40-50.000 anni fa).

Secondo questi studiosi, il processo, in un certo qual modo, è stato naturale. Esso presupponeva uno sviluppo non indifferente delle capacità intellettuali dell'uomo, non avendo gli animali, come noto, alcuna religione. In tal senso se è esistito un lungo periodo "areligioso" (forse un milione di anni) è stato anche perché l'uomo primitivo (pitecantropo, sinantropo ecc.) non possedeva ancora determinate facoltà di astrazione, pur essendo indubbiamente capace di vita collettiva e di manipolazione strumentale.

Io penso che questo modo di vedere le cose sia un po' riduttivo. Il fatto che l'uomo ad un certo punto abbia cominciato a inventarsi letteralmente delle motivazioni irreali per giustificare il suo stato di soggezione nei confronti della natura, andrebbe considerato non solo come un segno del suo sviluppo intellettuale, ma anche come un elemento che dovrebbe indurci a riflettere sulla natura sociale e organizzativa del comunismo primitivo. La nascita della religione deve aver trovato infatti un terreno fertile nella crisi del comunismo primitivo come organizzazione sociale.

Pecca di superficialità la tesi secondo cui la nascita della religione (quale pensiero astratto) rientra in quel processo evolutivo naturale che ha fatto uscire l'uomo dal suo stadio animalesco. In realtà la religione non solo riflette rapporti sociali alienati, ma anche un limite all'espressione del pensiero astratto, in quanto lo priva di riferimenti alla realtà. L'uomo primitivo infatti possedeva capacità di astrazione che applicava a espressioni di tipo artistico, che di religioso non avevano nulla.

La stessa pretesa di voler attribuire alle sepolture una funzione religiosa è alquanto discutibile. Un bambino che rompe un giocattolo in modo irrimediabile non lo butta del bidone dell'immondizia, ma lo ripone, in genere, nella cesta dei giocattoli inutilizzabili, che si trova e resterà sempre all'interno della sua stanza, almeno fino a quando non vorrà disfarsene consapevolmente. In particolare, il giocattolo verrà risposto "così com'è" (p.es. una bambola coi suoi vestiti). E' raro vedere un bambino piccolo staccare qualche pezzo dal giocattolo rotto per utilizzarlo con un altro giocattolo (fa questo solo quando il suo cervello è relativamente sviluppato). La rottura impone la "morte" di tutto il giocattolo.

Questo forse può spiegare il motivo per cui nelle sepolture degli uomini primitivi si trovano oggetti di uso domestico, personale, trofei di guerra, di caccia, ecc. Cioè non la religione ha portato a queste sepolture, ma queste ad un certo punto possono aver fatto nascere quella (p.es. la paura dei morti può essere nata dal fatto che i cadaveri putrefatti erano fonte di contagio o malattie; il timore suscitato da una persona quand'era in vita può aver portato a credere nell'aldilà, ecc.). La stessa carenza di cibo ad un certo punto deve aver fatto nascere le credenze totemiche.

In ogni caso, per comprendere la transizione dall'animale all'uomo, non possiamo considerare l'illusione di poter controllare con la religione i processi naturali un aspetto più significativo di quanto invece non sia stata la capacità di trasformazione della materia attraverso gli strumenti lavorativi.

Questo poi senza considerare che è impossibile che l'uomo primitivo, solo perché "primitivo", non si rendesse conto della differenza tra "finzione" e "realtà". Qui lo sviluppo della conoscenza scientifica non c'entra niente. Fa parte infatti della natura umana chiedersi, ogniqualvolta ci s'imbatte in un atteggiamento che non rientra in quelli comunemente e regolarmente accettati da una comunità, se chi in quel momento lo sta compiendo "finga" o "faccia sul serio".

Tutti si rendono conto che una cosa è accettare, come "comunità", che un dato atteggiamento rientri nella "finzione" e come tale venga considerato; un'altra è convincerci, nonostante le sensazioni, le tradizioni, la memoria... dicano il contrario, che un qualche atteggiamento "insolito" contiene elementi di verità, al pari di altri atteggiamenti già noti. In questo secondo caso la religione è già diventata strumento nelle mani di qualcuno.

Certo, la nascita del sentimento religioso non può di per sé stare ad indicare la presenza di rapporti sociali basati sullo sfruttamento, però può esserne considerata l'anticamera. Cioè il vero problema non è sorto quando gli uomini hanno cercato di dare delle spiegazioni fantastiche ai drammi della loro vita, ma quando la persistenza di tali spiegazioni è diventata un segno della mancata soluzione di quei drammi e quindi la premessa alla nascita di una società in cui facilmente qualcuno avrebbe sfruttato quelle spiegazioni per legittimare degli abusi. Non a caso nel momento stesso in cui è sorta l'intenzione di strumentalizzare il senso di paura verso certi fenomeni naturali o sociali, al fine di assoggettare gli uomini alla volontà di altri uomini, è sorta anche, inevitabilmente, la "critica della religione", all'inizio in forme istintive e poi sempre più razionali.

Da un lato quindi la religione (in questa fase ancora "naturale") è nata come prodotto della debolezza umana; dall'altro il suo uso strumentale non può essere stato che il prodotto della forza umana, la forza di una parte della comunità primitiva contro l'altra. L'interesse che deve aver mosso questo processo è stato indubbiamente quello dello sfruttamento, il cui scopo doveva essere o quello di conservare un benessere materiale acquisito progressivamente, indipendentemente dalla volontà della comunità, o quello di ottenerne uno ancora più grande.

La religione non venne sottoposta a critica serrata nel periodo in cui si formò come religione "naturale" soltanto perché la spontaneità non le dava quel carattere di forte oppressione che invece assumerà quando la società sarà nettamente divisa in classi. Sarà proprio l'opposizione sociale allo sfruttamento che determinerà, a sua volta, la trasformazione della religione da "naturale" a "rivelata". Infatti, la critica ateistica, che è sempre legata a un'istanza di liberazione sociale, ad un certo punto deve aver tolto alla spontaneità delle rappresentazioni fantastiche la loro primitiva ingenuità. Ecco perché le religioni "rivelate" hanno dovuto riconoscere che le forme delle religioni "naturali" altro non erano che "superstizione".

Sotto questo aspetto le religioni "rivelate" non rappresentano che una sorta di mascherata ateizzazione delle religioni "naturali". Hanno fatto uscire l'uomo dall'ingenuità di credere naturale la propria debolezza e l'hanno fatto entrare nell'ipocrisia di credere la propria debolezza come voluta da dio.

Si badi, con questo non si vuole considerare la religione in sé peggiore della scienza. Nelle moderne società è comunissimo il fatto che qualcuno miri a servirsi della conoscenza e della sicurezza offerta dalla tecnologia per assoggettare gli uomini. Non è l'ignoranza in sé o la conoscenza in sé che rende l'uomo libero o schiavo. Oggi sono tantissime le cose che possono surrogare le funzioni della religione e che vengono usate appunto come una religione.

SUL DESTINO DELLA RELIGIONE

Esiste un processo "in avanti" che costringe le varie religioni mondiali a laicizzarsi progressivamente. Ciò è dovuto alle pressioni del secolarismo, che si esprime nelle varie forme del laicismo, ateismo, agnosticismo, materialismo, ecc.

Il fatto che oggi si riconosca ampia libertà a tutte le religioni non significa che il mondo si stia indirizzando verso la religione, ma, al contrario, significa ch'esso è così sicuro delle proprie conquiste laico-scientifiche da non avere più alcun timore nei confronti di nessuna religione.

In questi ultimi tempi, il mondo laico può anche aver aperto alla religione più porte di quante avrebbe dovuto, ma ciò è dipeso dal fatto che gli errori commessi nel passato (oppressione, anticlericalismo, fanatismo ideologico...) sono stati considerevoli, e la storia insegna che gli errori prima o poi si pagano, in misura proporzionale al danno arrecato.

Tuttavia, sui fondamenti teorici più significativi è assai dubbio che il laicismo tornerà indietro. Oggi anzi esso sta registrando un altro punto a suo favore laddove si assiste a un processo di autorecupero, interno alle religioni, delle loro proprie radici ideali. Un processo del genere porterà sicuramente la religione ad accettare più facilmente le verità laiche, per quanto ciò presupponga la fine della stessa religione.

Infatti la verità originaria di ogni religione è sempre di carattere laico-umanistico, del tutto immanente. La religione è subentrata in seguito, come un corpo estraneo, sovrapponendosi alla verità originaria, cioè falsificandola con un'interpretazione fantastica, arbitraria, infondata.

Oggi il laicismo sprona le religioni ad accettare le verità umanistiche, ma il processo esse lo subiscono come una pressione dall'esterno. Normalmente le religioni accettano di convivere con queste verità, sentendosi delle assediate, comunicando pochissimo e solo su cose marginali rispetto ai loro contenuti tradizionali. Proprio a causa del razionalismo e laicismo occidentale, la religione è costretta a parlare più che altro di aborto, divorzio, eutanasia, bioetica, ecc., omettendo volutamente di confrontarsi su cose più pertinenti alla sua ideologia. In questo senso è difficile sapere fino a che punto la religione accetterà spontaneamente la necessità, la naturalità, di questo processo laicistico. In realtà non poche di esse sperano in una colossale rivincita contro lo spirito laico, umanistico e razionale del mondo contemporaneo. Sembrano essere lì lì per approfittare di ogni errore che si commette, di ogni dramma e tragedia, di ogni clamoroso insuccesso scientifico, tecnologico, economico.

L'ideale sarebbe che la religione, dall'interno, come per uno sviluppo progressivo, automoventesi, arrivasse a comprendere l'originalità di se stessa, ovvero la propria negatività. Tuttavia, questo percorso a ritroso, se avverrà, non sarà indolore, poiché esso porta a negare l'essenza stessa della religione, la quale è sì disposta a tornare indietro, ma sino a un certo punto. Anzi, ogniqualvolta la religione vuol recuperare la propria idealità originaria, si scatenano fanatismi a non finire.

Ciò che il credente, non la religione, deve scoprire è che le idee umanistiche moderne non sono in contraddizione con quelle che la religione ha tradito. Il credente cioè dovrebbe essere messo in grado di capire (ovviamente dall'ateismo-scientifico) che l'origine della sua religione è stata il frutto di un tradimento di idee sostanzialmente umanistiche, che per il loro carattere umanistico restano universali.

VERSO L'ATEISMO PASSANDO PER IL MONOTEISMO

Le religioni monoteistiche sono una forma di cripto-ateismo nell'ambito della superstizione. Considerando che per milioni di anni pitecantropi, sinantropi ecc. non hanno avuto alcuna religione e che per alcuni millenni le primi cosiddette "civiltà" hanno avuto varie forme di politeismo, le religioni monoteistiche, nel loro antipoliteismo, possono essere considerate una sorta di cripto-ateismo (tant'è che i cristiani venivano considerati "atei" dai pagani).

Questo significa che con le religioni monoteistiche l'umanità ha fatto un passo avanti in direzione dell'ateismo, cioè in direzione del recupero di quel proto-ateismo che ha caratterizzato la nascita del genere umano. Almeno sino al paleolitico superiore sappiamo con certezza che gli esseri umani non avevano alcuna credenza religiosa.

Ponendosi come superamento di tutti i monoteismi, l'umanesimo laico è riuscito a fare un altro passo avanti. Il successivo sarà quello di collegare strettamente umanesimo laico a socialismo democratico.

Resta però da chiarire se il passaggio dall'animismo al politeismo può essere considerato una forma di progresso intellettuale. Personalmente ritengo di no, poiché mentre nell'animismo era chiara la subordinazione dell'uomo dalla natura, nel politeismo invece si è cominciato ad affermare il contrario, e questo perché il politeismo rifletteva determinati conflitti di classe.

L'animismo (di cui il totemismo, il feticismo ecc. non sono che varianti) esprimeva soltanto una forma di debolezza delle forze sociali nei confronti di quelle naturali, ma non esprimeva (come non lo esprime oggi nelle ultime tribù rimaste) la presenza di conflitti sociali entro una medesima tribù.

Anche se non è affatto da escludere che ad un certo punto parte della tribù abbia iniziato a dare risposte sociali conflittuali alla debolezza della stessa tribù nei confronti della natura.

E' probabile infatti che le prime forme di politeismo siano nate dalla volontà di una parte (minoritaria) della tribù contro la maggioranza animista e che dall'impossibilità di ricomporre il conflitto sociale la tribù abbia deciso di dividersi.

Un processo del genere può addirittura essere stato all'origine del passaggio dall'ateismo primordiale alle prime forme di animismo. In fondo l'atteggiamento di Adamo appare più ateistico di quello di Eva, che immagina invece poteri particolari in una determinata pianta. E' normale che la parte più debole di una determinata tribù attribuisca, in un momento di difficoltà, poteri superiori a una realtà ad essa esterna.

In questa attribuzione ingenua di poteri si può vedere il passaggio dall'ateismo all'animismo, e nella giustificazione soggettiva del passaggio ("il demonio mi ha ingannata"), si può vedere il passaggio, eticamente più grave, dall'animismo al politeismo.

L'animismo non suppone una casta sacerdotale, una gerarchia di ruoli, una stratificazione sociale basata sullo sfruttamento dei non abbienti.

Viceversa nel politeismo ogni clan, inizialmente, ha i propri dèi, ma poi, all'interno della tribù, i clan iniziano a riconoscere alcune divinità comuni, che poi col tempo diventano dominanti, fino al punto da imporsi come divinità uniche. Il passaggio dagli Elohim a Javhè deve essere avvenuto così.

Gli ebrei sono stati i primi a capire che i limiti sociopolitici del politeismo potevano essere ovviati col monoteismo, anche se poi s'illusero di poter risolvere i conflitti sociali unicamente col monoteismo.

La figura di Cristo ha ripristinato l'originario ateismo, ma i suoi seguaci, tradendo il suo messaggio, hanno soltanto trasformato il monoteismo politico-nazionalistico degli ebrei in un monoteismo spiritualistico-cosmopolita, che tale è rimasto sino alla rottura cattolico-romana, con cui si è voluto affermare un monoteismo politico-internazionale.

Fonti

http://www.homolaicus.com/teoria/ateismo/ateismo9.htm