martedì 5 giugno 2012

POLITICA E DIRITTO NELLE QUESTIONI RELIGIOSE

L'umanesimo socialista, come ogni altro tipo di umanesimo reale, democratico, è in grado di avvicinare uomini e donne di religioni diverse o di nessuna religione. Se esiste una unità di intenti, in nome di tale umanesimo, su obiettivi comuni, ogni essere umano, in privato, può liberamente credere nella religione che vuole.

Per quale ragione un'affermazione così semplice da capire, viene categoricamente rifiutata da quanti fanno della religione un modello di vita? E' noto infatti che chi concepisce in maniera integralistica la propria fede religiosa, non accetta di viverla in forma "privata". E' dunque su questo concetto di "privatezza" che bisogna intendersi in maniera preliminare.

Un socialismo autenticamente democratico non può in alcun modo precludere la partecipazione al culto e alle funzioni religiose in genere, tuttavia questa forma di espressione religiosa agli integralisti è assai raro che appaia sufficiente.

Un integrista o integralista o fondamentalista esige che la religione abbia una rilevanza pubblica di tipo politico. Se il socialismo chiedesse a tale credente di non servirsi della religione per disobbedire a qualche legge, quasi certamente riceverebbe una risposta negativa.


Generalmente le leggi non obbligano a comportarsi contro la morale pubblica, contro i principi etici o religiosi o contro la libertà di coscienza. Tuttavia, pur vivendo da secoli in società i cui Stati si definiscono "laici", non è affatto raro che ancora oggi vi siano persone che si sottraggono a determinate leggi appellandosi alla propria coscienza religiosa.

Se un giudice cattolico crede nell'indissolubilità del matrimonio, potrebbe anche sentirsi in dovere di non concedere il divorzio alla coppia che glielo chiede. Se un medico cattolico considera l'embrione una persona umana, potrebbe anche rifiutarsi di applicare la legge sull'aborto.

In questi e altri casi analoghi che cosa si può fare perché la legge venga rispettata? Si possono fare tre cose:

  1. sospendere dall'incarico il soggetto e destinarlo ad altra mansione o funzione;
  2. sostituirlo con un collega, in modo che il servizio venga comunque garantito;
  3. fare un lavoro politico e culturale a favore della laicità dello Stato.

Certamente non si può impedire l'obiezione di coscienza. In fondo, proprio in virtù di tale obiezione (che non fu patrocinata solo dal mondo cattolico) è nato il servizio civile, in alternativa a quello militare, e oggi è addirittura scomparsa la leva obbligatoria. E' mutato l'atteggiamento delle autorità costituite.

L'obiezione di coscienza tuttavia potrebbe essere esercitata anche da un insegnante non religioso che decide di togliere il crocifisso dalla propria aula, al fine di rispettare le diverse religioni di appartenenza dei propri alunni. In questo caso come si dovrebbe comportare un dirigente scolastico: prendere atto di una mutata situazione sociale o far rispettare il Concordato?

E' ben noto che ogniqualvolta si procede per via amministrativa, si finisce col creare situazioni di conflitto ideologico, che alla fine risultano controproducenti ai fini della diffusione delle idee di laicità. Quindi o si trovano situazioni di compromesso transitorie, che possano andar bene a tutte le parti, oppure (ma sarebbe meglio dire che le cose andrebbero fatte contestualmente) si procede con mezzi e metodi politici e culturali (conferenze, seminari, dibattiti pubblici...), in modo che sia direttamente la gente comune a farsi un'idea personale, ragionata, sulle vicende in corso.

Sarebbe assurdo pensare che uno Stato laico sia contrario all'uso della libertà di coscienza, non può esserlo neppure quando questa viene usata contro le sue stesse leggi. Però quello che i cittadini politicamente consapevoli sono tenuti a fare, devono farlo, proprio nel rispetto della democrazia.

Al tempo dei romani, allorché lo Stato pagano pretendeva che si considerasse l'imperatore una sorta di divinità terrena, i cristiani e gli ebrei, appellandosi alla libertà di coscienza, preferivano il martirio piuttosto che riconoscergli questa prerogativa; e grazie a questi martiri oggi apprezziamo enormemente la libertà di coscienza; ne abbiamo capito il suo profondo valore umano.

Oggi nessuna legge al mondo obbliga qualsivoglia credente a diventare ateo. L'unico Stato ateo del mondo - si diceva una volta - era quello albanese, che in effetti lo fu dal 1967 al 1991.

E' stato semmai il cristianesimo che, a partire dall'imperatore Teodosio, ha obbligato i cittadini ad essere credenti nell'unica religione ammessa, creando così il ben noto "Stato confessionale". Esiste tutta una secolare lotta politica e culturale dei cittadini (non credenti o credenti in altre religioni) per emanciparsi da questa costrizione.

Il problema in effetti non sussiste quando è in causa il cittadino comune: uno può sempre appellarsi alla libertà di coscienza per non eseguire determinate disposizioni (p.es. gli studenti musulmani rifiutano nelle mense scolastiche determinati cibi; per quelli di religione ebraica il sabato è festivo, ecc.).

Tuttavia se la decisione di non rispettare le leggi contrasta col dovere di applicarle e di farle applicare, non sarebbe meglio che chi ricopre un ruolo di responsabilità civile cambiasse mestiere o funzione?

Se la maggioranza dei cittadini è a favore della laicità dello Stato, per quale ragione debbono esserci dei funzionari pubblici, stipendiati con soldi pubblici, a svolgere mansioni di tipo clericale?

Laicità dovrebbe voler dire questo, che a una legge sbagliata si deve opporre, come cittadini, una legge giusta, da approvarsi a maggioranza: una volta approvata, l'applicabilità di questa legge non può essere a discrezione della volontà del singolo cittadino, altrimenti la convivenza diventa impossibile.

Se la coscienza religiosa individua in determinate leggi un ostacolo insormontabile all'espressione della libertà di coscienza, ci si dovrebbe organizzare come cittadini per modificarle, altrimenti si dovrebbe accettare il principio che la religione è una questione privata.

Se uno vuole vivere basandosi unicamente sui principi della propria religione, facendo assumere a tali principi una funzione politica e istituzionale vera e propria, occorre che si isoli in un perimetro geografico ben definito, ove le persone siano state preventivamente selezionate. Non è possibile vivere l'integralismo politico della fede religiosa in un contesto in cui la maggioranza dei cittadini non è religiosa o ha idee religiose diverse.

Tutto il Medioevo è stato integralista, ma questa situazione storica è definitivamente tramontata. Sono secoli che lo sviluppo del pensiero laico ha dimostrato che nessuna religione è mai stata capace di costruire una società a misura d'uomo, nessuna, una volta giunta al potere, è mai stata capace di risolvere i conflitti di classe, le discriminazioni sociali e l'oppressione in genere, in modo che fossero i ceti subalterni a trarne i maggiori benefici.

Il cristianesimo ha avuto duemila anni di tempo per dimostrare la propria capacità politica di risolvere i problemi dell'antagonismo sociale. Il fatto che non ci sia riuscito non poteva non essere preso come occasione per affermare il carattere del tutto privato delle scelte in materia di religione.

Il cristianesimo e se vogliamo la religione in generale non è più un fenomeno socialmente ovvio, anche se i poteri costituiti se ne servono o per equiparare fondamentalismo a terrorismo, specie in riferimento all'islam trapiantato in occidente, o per tenere le masse in una condizione in cui l'illusione serve per sopportare meglio le frustrazioni della vita.

LIBERTA' DI COSCIENZA E LIBERTA' DI RELIGIONE

Il principio costituzionale della libertà di coscienza dovrebbe escludere, a priori o in via di principio, qualsiasi privilegio nei confronti della religione. Quindi non solo tutte le religioni dovrebbero essere dallo Stato considerate uguali o equivalenti, in maniera astratta, generica, a prescindere dall'effettivo rispetto ch'esse devono dimostrare nei confronti delle leggi, ma si dovrebbe dare anche all'ateismo, cioè alla libertà "da" ogni religione, la sua prima e piena libertà giuridica.

Si è purtroppo costretti a usare il condizionale, perché di fatto nelle Costituzioni occidentali le cose stanno ben diversamente. Nei paesi democratico-borghesi gli Stati sono laici solo nel senso che permettono alle religioni (specie a quelle maggioritarie sul piano nazionale) di prevalere sulla non-religione, cioè sull'umanesimo laico. Spesso e volentieri questi Stati offrono maggiori privilegi a una religione maggioritaria rispetto a tutte le altre religioni.

La libertà di religione non è un aspetto, per questi Stati, della libertà di coscienza, ma questa viene considerata come una "concessione straordinaria" che si fa da parte dell'integralismo religioso, uscito sconfitto da guerre secolari. Cioè la chiesa ammette (e quella romana l'ha fatto per la prima volta col Concilio Vaticano II) che si può essere semplicemente credenti particolari, non praticanti o non allineati alla confessione dominante, al limite si può essere deisti o agnostici, mai comunque atei, poiché l'ateismo è negazione esplicita di qualunque religione, della necessità di una fede religiosa e, sul piano storico-politico, esso è strutturalmente connesso all'edificazione di una società socialista.

Ateismo vuol dire "umanesimo integrale", nel metodo e nei contenuti (ovviamente non nel senso di Maritain, per il quale i contenuti restavano, in definitiva, del tutto "religiosi"). Dal punto di vista ateistico è la religione in sé, cioè a prescindere dalle sue particolari, specifiche, manifestazioni, ad essere priva di credibilità: in tal senso è improponibile chiedere all'ateismo di parteggiare per questa o quella religione, o di fare differenza tra una posizione "religiosa" e una "superstiziosa". Non si parteggia per un credente, si parteggia per quel cittadino credente che sa essere democratico.

La concezione parziale, limitata, della libertà di coscienza, codificata nelle Costituzioni borghesi, è stata ereditata da una lotta contro la chiesa cristiana che non s'è conclusa in maniera coerente: è un retaggio sia delle guerre di religione svoltesi in Europa al tempo della nascita del protestantesimo, che della guerra ideologica e politica condotta dall'illuminismo, dalla rivoluzione francese e dai moti liberali contro il tardo-feudalesimo. In tutti questi casi non si è mai arrivati a considerare la libertà di religione un aspetto della libertà di coscienza. Questa, più che un diritto, è diventata una sorta di concessione che, obtorto collo, la chiesa ha fatto alla borghesia e la borghesia l'ha accettata come concessione, pur avendola ottenuta come un diritto, perché in realtà tra borghesia e chiesa esiste un'esplicita intesa in funzione anti-socialista.

Sotto questo aspetto lo Stato laico borghese è sì uno Stato agnostico o indifferente alla religione, ma solo nel senso che non crede nella religione come forma ideologica, o meglio, nel senso che dimostra di credervi teoricamente (in maniera appunto laicizzata), benché praticamente si comporti in contraddizione ai principi che tutela o a cui dice di ispirarsi. Questa è stata per decenni la politica dei cosiddetti "partiti cattolici" o "democratico-cristiani", ch'erano o dicevano d'essere "cristianamente ispirati", mentre oggettivamente favorivano la diffusione del capitalismo nel loro paese.

La doppiezza stava nel fatto che a parole si diceva di accettare i valori della chiesa dominante, mentre nei fatti la religione veniva più che altro usata come forza politica, per un controllo delle masse, che avrebbero potuto opporsi alla diffusione del capitalismo.

Questo dimostra che lo Stato borghese in realtà non riconosce alcun vero "diritto", ma solo i rapporti di "forza", cioè i rapporti "politici". Lo Stato borghese riconosce i diritti solo a quelle forze politiche che li rivendicano e una di queste forze è stata appunto la chiesa, un'altra è stata la classe operaia. E tali diritti non vengono mai riconosciuti come "inalienabili" o "definitivi", essendo sempre soggetti a continui tentativi di revisione, di restrizione, di riformulazione in senso peggiorativo per gli interessi delle masse lavoratrici.

Gli Stati capitalisti sono in definitiva degli Stati confessionali dal punto di vista borghese. Il confessionalismo viene gestito dalla borghesia a seconda dei propri interessi di potere: di qui la politica dei compromessi, dei concordati, delle intese... Là dove non esiste un effettivo regime di separazione tra Stato e chiesa, lì esiste per forza una sorta di "confessionalismo statale".

E in tale confessionalismo è impossibile impedire a un cittadino di non prendere le proprie concezioni religiose come pretesto per sottrarsi all'adempimento degli obblighi civili, quando questi obblighi vengono ritenuti contrari ai suoi interessi religiosi: è la stessa Costituzione che gliene offre l'opportunità. I cattolici integralisti, p. es., obbediscono allo Stato solo nella misura in cui la chiesa accetta di riconoscere la realtà di questo Stato. Non obbediscono quindi per "ragioni di coscienza" e, al limite, neppure per "timore", ma solo per convenienza, opportunità politica, solo perché da questo Stato ottengono favori, privilegi, speciali riconoscimenti.

STATO LAICO O ATEO?

Uno Stato davvero "laico" è solo uno Stato che in un certo senso è "ateo": la laicità borghese è troppo ambigua per poter tutelare adeguatamente la libertà di coscienza. E' "ateo" in senso formale, esteriore, estrinseco, indiretto...

Se si volesse essere coerenti sino in fondo bisognerebbe arrivare a dire che se un cittadino può professare liberamente qualsiasi religione o non professarne alcuna, significa che lo Stato, in pratica, è "ateo", anche se non lo è in senso giuridico né tanto meno etico, in quanto non impone l'ateismo a nessuno, né potrebbe farlo, senza violare appunto la libertà di coscienza.

Stato "ateo", o "laicista" che dir si voglia, dovrebbe semplicemente voler dire "aconfessionale", coerentemente "areligioso", la cui "neutralità" in materia di religione non è però indifferente ai tentativi della religione di volersi imporre politicamente o ideologicamente. Anzi, lo stesso credente avrebbe tutto l'interesse che il suo status di cittadino e la sua identità religiosa non risultassero condizionati da posizioni di tipo clericale (la strumentalizzazione politica della fede) o anche solo superstizioso (p.es. i fenomeni che negano valore alla scienza o al buon senso, come la magia bianca o nera, l'astrologia e quant'altro): ne potrebbe avere l'interesse sia come credente, per far capire che la vera religione non ha bisogno di queste cose, sia come cittadino, per evitare che in nome di tali strumentalizzazioni accadano eventi contrari alla libertà o alla sicurezza o all'integrità dell'individuo.

Certo, è impossibile stabilire il limite oltre il quale il cittadino credente non riesce ad andare nella critica del fenomeno religioso, ma dal punto di vista dello Stato è sufficiente ch'egli rispetti e faccia rispettare il principio di separazione tra Stato e chiesa e tra chiesa e scuola.

L'importante è chiarire il fatto che per "ateismo statale" non s'intende l'obbligo che il cittadino ha di aderire all'ateismo, poiché l'ateismo può solo essere scelto in coscienza, ma semplicemente l'obbligo che il cittadino ha di comportarsi formalmente come "ateo" (o, se si preferisce, come "laico") nell'ambito delle istituzioni civili, come p.es. gli uffici pubblici, le scuole, gli enti locali territoriali, la magistratura, l'apparato militare ecc. Nulla può impedire a questo cittadino di partecipare a funzioni religiose al di fuori di queste istituzioni.

Un cittadino religioso può comportarsi in maniera religiosa in una istituzione statale solo se ciò non viola l'identità religiosa di credenti diversi da lui e se non viola le disposizioni amministrative dello Stato. Un impiegato ebreo può non venire a lavorare in ufficio il sabato? Un impiegato islamico ha diritto a varie sospensioni dal lavoro per poter pregare il suo dio? Se questi individui riescono a trovare da parte dei colleghi il consenso necessario ad assicurare comunque il servizio pubblico, non sussiste alcun problema, ma se qualcuno si oppone, lo Stato deve necessariamente intervenire.

Prima che un sacerdote decida di svolgere la messa d'inizio anno scolastico o benedire gli alunni in occasione delle feste pasquali, occorre che gli insegnanti si assicurino che tali iniziative non violino la libertà di coscienza degli alunni non cattolici o non danneggino il corso regolare delle lezioni. Ha senso che uno studente pretenda di giustificare la propria impreparazione appellandosi alla frequentazione del catechismo pomeridiano?

STATO E PARTITO: QUALE DIFFERENZA VERSO LA RELIGIONE?

Uno Stato ateo o socialista o laicista non è contro la religione in sé, poiché uno Stato non può fare propaganda contro la religione, non può "educare all'ateismo", ma ha il dovere di ostacolare la pretesa ingerenza politica o ideologica che la chiesa può avere nell'ambito delle istituzioni; se questa ingerenza avviene anche nell'ambito della società civile, devono essere gli stessi cittadini, di altre religioni o di nessuna religione, a difendersi, facendo valere i loro diritti.

E' semmai il partito politico ad essere contrario alla religione in sé. Ecco perché il socialismo classico sosteneva che la religione poteva essere considerata una "questione privata" di fronte allo Stato, ma non poteva esserlo anche di fronte al partito. Il partito comunista può permettere allo Stato di tutelare la possibilità di scegliere una fede religiosa, ma ciò non gli impedisce di considerare tale scelta come una forma di libertà superata, anche se non potrà andare a sindacare sui conflitti di coscienza che può nutrire un militante comunista che nutre ancora sentimenti di tipo religioso.

La fede religiosa non può mai essere vietata con la forza, né a livello statale né a livello di partito; viene semplicemente tollerata come una sopravvivenza del passato, il cui superamento lento e progressivo dovrà avvenire nel rispetto pieno e integrale della democrazia.

Il fatto che molti credenti possano essere migliori di molti atei non va addebitato a una pretesa superiorità della religione sull'ateismo, ma a una diversa capacità di vivere coerentemente i propri valori. Sia nell'ambito del laicismo che nell'ambito della religione, vi sono persone migliori delle teorie che professano e teorie migliori delle persone che le applicano. La superiorità di una teoria rispetto a un'altra va semplicemente dimostrata nella pratica.

STATO E CHIESA POSSONO COESISTERE PACIFICAMENTE?

I valori che la chiesa promuove generalmente sono di tipo "religioso", altrimenti non vi sarebbero "credenti" ma solo "cittadini" di orientamento laico (agnostici, atei ecc.). Questo ovviamente non vuol dire che ogni chiesa non faccia di tutto per dimostrare che i propri valori "religiosi" sono gli unici valori "umani". Le religioni non sono soltanto in competizione tra loro ma anche con l'umanesimo laico e approfittano di ogni debolezza altrui per dimostrare la propria superiorità.

Detto questo, lo Stato non può impedire alle chiese di sbandierare i loro propri valori come gli unici autenticamente "umani": il diritto di parola non può essere negato a nessuno. Sta al cittadino capire quando tali valori non hanno nulla di più di quanto si afferma sul piano laico nell'ambito della società civile.

L'importante è che una chiesa, quando promuove un qualunque valore, lo faccia nell'ambito delle leggi vigenti. Nessuna chiesa può delegittimare un'istituzione pubblica asserendo ch'essa non applica un determinato valore umano così come la chiesa stessa lo concepisce.

Facciamo un esempio: per la chiesa romana il matrimonio religioso è indissolubile (salvo concedere con sempre maggiore frequenza e sulla base di motivazioni sempre più ampie la facoltà dell'annullamento presso la Sacra Rota); ebbene essa non può delegittimare la legge sul divorzio, i tribunali che la applicano, gli avvocati che la difendono ecc. Nella società vige la democrazia: si discute intorno a determinati valori e poi si prendono delle decisioni e la minoranza si deve attenere alle decisioni della maggioranza.

La legge non obbliga mai nessuno a fare cose contro la propria coscienza. Nessuna legge può violare il principio della libertà di coscienza. La legge tuttavia deve tutelare se stessa da chiunque voglia continuamente rimetterla in discussione. Una legge approvata dalla maggioranza dei cittadini può essere modificata o abolita dalla stessa maggioranza, ma finché resta in vigore nessuno può disattenderla o impedire che venga applicata. La legge può prevedere la pena capitale per l'omicidio, ma nessuno può obbligare qualcuno a fare il boia.

La cosa che maggiormente dà fastidio, delle organizzazioni religiose, è la loro pretesa di dimostrare la superiorità dei propri valori religiosi quando constatano l'incoerenza di teoria e pratica da parte dei valori umani. Per quale ragione infatti, in tali frangenti, il credente interviene come "credente" e non semplicemente come "cittadino"? Che bisogno ha di speculare su una debolezza per dimostrare la propria superiorità? Se si comportasse in maniera laica, non ne trarrebbe vantaggio morale anche la propria confessione religiosa? I credenti dovrebbero intervenire come tali quando le loro stesse chiese contraddicono nella pratica i valori professati in sede teorica.

Il criterio fondamentale per comprendere quale atteggiamento dovrebbe tenere un cittadino credente in una società democratica, è il seguente: non lo Stato nella chiesa ma la chiesa nello Stato. Cioè il credente è anzitutto "cittadino" e solo per sua libera scelta è anche "credente". Lo Stato è per tutti e la chiesa solo per chi ci crede.

Il noto principio liberale: "Libera chiesa in libero Stato" non è del tutto errato se si pone l'accento sulla preposizione "in". Essa, che è di "luogo" non di "valore", non implica una subordinazione ideologica della chiesa nei confronti dello Stato, ma una semplice coesistenza pacifica regolamentata giuridicamente.

La preposizione semplice "in" dovrebbe servire a escludere che tra chiesa e Stato vi possa essere una rivalità di tipo politico nell'ambito di uno stesso territorio, come di regola invece avviene in tutti i regimi concordatari, dove il patto determina un compromesso temporaneo, una tregua pacifica in attesa di nuovi conflitti.

Uno Stato laico-democratico non dovrebbe realizzare un compromesso con un ente politico che gli minaccia continuamente l'integrità territoriale. E non si tratta neppure di realizzare una sorta di controllo assoluto da parte dello Stato nei confronti della chiesa. Si tratta semplicemente di operare una sorta di riconoscimento di fatto di due realtà diverse, da ratificarsi in sede giuridica, in maniera tale che mentre sul piano politico lo Stato esercita il proprio potere, la chiesa si limita a esercitare un proprio ruolo sul terreno etico-religioso della società civile.

In tal modo il regime di separazione è assicurato sul piano politico-istituzionale, mentre su quello sociale e culturale vige una sorta di coesistenza pacifica e di collaborazione reciproca.

LA PERSONALITA' GIURIDICA

Non essendo un soggetto politico-istituzionale, in quanto del tutto facoltativo, la chiesa non può avere una personalità giuridica, però essendo un'associazione privata, regolamentata da statuti, gestita da consigli di amministrazione ecc., non può non avere una personalità giuridica corrispondente alla sua funzione. Alla chiesa p.es. lo Stato potrebbe affidare la gestione (non la proprietà) di alcuni patrimoni museali, artistici... La chiesa potrebbe gestire scuole private.

Le finalità ecclesiastiche sono indubbiamente "religiose" e, sotto questo aspetto, può apparire irrilevante riconoscere alla chiesa una qualificazione "giuridica", ma è anche vero che attorno a queste finalità vi sono aspetti economici e amministrativi da affrontare, e di questi non può essere ritenuta responsabile la singola persona.

In teoria la chiesa dovrebbe essere considerata non "soggetto" ma "oggetto" di diritto (un cittadino credente è "soggetto" di diritto non in quanto "credente" ma in quanto "cittadino"), tuttavia, finché esiste un'amministrazione statale, è impossibile non riconoscere alla chiesa una competenza giuridica che le permetta di tutelare al meglio i propri diritti e le proprie attività. Anche perché può apparire invasivo che lo Stato si preoccupi di regolamentare tutto quanto nell'ambito della chiesa non concerne strettamente il culto.

Lo Stato ha tutto l'interesse a relazionarsi con un organo che agisce alla luce del sole, ma per far questo deve necessariamente concedere ampi spazi di manovra, che ovviamente possono anche essere utilizzati contro l'interesse dello Stato.

Se lo Stato si mette a regolamentare tutta l'amministrazione "laica" della chiesa, delegando a quest'ultima compiti strettamente liturgici o religiosi, si finirà col creare un clima di sfiducia reciproca, che non aiuterà certo lo sviluppo della democrazia.

Certo è che dovrebbe essere nell'interesse degli stessi credenti gestire in proprio gli aspetti economico-amministrativi della loro chiesa, sottraendoli al controllo del clero o comunque esonerando quest'ultimo da un compito che potrebbe anche turbare la propria serenità interiore. Non si capisce infatti il motivo per cui la chiesa dovrebbe osteggiare, anche al proprio interno, una separazione nella gestione degli aspetti "spirituali" e "materiali".

Piuttosto ci si può chiedere se sia giusto che lo Stato riconosca il diritto alla libertà di religione solo in presenza di un'associazione regolarmente registrata. Lo Stato non può non riconoscere al cittadino il diritto a una religiosità "naturale" o individuale: è lo stesso principio della libertà di coscienza che obbliga a riconoscere questo diritto.

Sarebbe paradossale che uno Stato "separato" dalle chiese fosse costretto ad acquisire una particolare competenza in materia di religione, al punto di dover stabilire quando un'espressione di fede è "naturale" o "positiva".

Il fatto è che gli Stati temono che la libertà di coscienza possa essere invocata contro l'ordine pubblico e sospettano che le associazioni religiose svolgano un'azione ostile alle leggi costituite. Ma è difficile pensare di poter regolamentare delle attività in cui la libertà di coscienza gioca un ruolo di primo piano.

Nel passato "socialismo reale" s'impediva p.es. al clero il diritto all'elettorato attivo e passivo, poiché si riteneva che un membro del clero avesse degli ideali politici viziati in partenza, tali per cui, di fronte all'alternativa di salvaguardare gli interessi dello Stato o quelli della propria chiesa, egli avrebbe sempre scelto, in ultima istanza, quelli della chiesa.

Questo ragionamento non è molto diverso da quello che facciamo circa i nostri insegnanti di religione nelle scuole statali: un docente potrà essere "pluralista" quanto vuole, aperto al contributo di tutte le religioni (ecumenista o irenico che dir si voglia), ma in ultima istanza, messo alle strette, cioè messo nella condizione di dover scegliere, questo docente tenderà sempre a difendere ciò che lui rappresenta e in cui meglio si identifica.

Tuttavia, gli aspetti sono diversi: un docente di religione non dovrebbe esistere in una scuola statale, per definizione "laica" (a scuola non si fa "catechismo", né può essere obiettivamente fatta una "storia delle religioni" da parte di un docente "mandato" dalla curia diocesana); inoltre il rapporto educativo tra docente e studente è asimmetrico, non è alla pari, sicché è difficile per uno studente replicare alle eventuali posizioni "clericali" assunte da un docente di religione.

Viceversa in ambito politico-parlamentare diventa un problema della coscienza del membro del clero, essere costretto a esprimersi secondo un linguaggio che di "religioso" non ha nulla. Se un sacerdote sceglie una vocazione politica perché continua a restare sacerdote?

http://www.homolaicus.com/diritto/diritto-religione.htm