domenica 3 giugno 2012

Il culto dei morti e la religione della dea

In primo luogo diventa necessario fornire una definizione corretta della religione, selezionando uno tra i due significati possibili che sono stati via via elaborati negli ultimi secoli per quest’ultima.

Secondo una prima (e più ristretta) forma di classificazione, la religione costituisce un’insieme di credenze, comportamenti sociali ed atti rituali con cui i gruppi umani si rapportano con le divinità (o un solo dio/dea), considerate esseri (un solo essere) soprannaturali e superpotenti, oltre che in molti casi viste come creatori dello stesso universo.

Secondo una diversa (e più ampia) definizione, la religione rappresenta invece un insieme di credenze, comportamenti sociali ed atti rituali attraverso i quali i gruppi umani si rapportano con il sacro, inteso come una sfera ben distinta dalla normale vita quotidiana e profana, contraddistinta principalmente dalla presenza di spiriti immateriali e dalla sopravvivenza dello spirito dei defunti dopo la morte, in forme più o meno attive: senza richiedere necessariamente la compresenza di un dio/più divinità, e tanto meno di un dio (più divinità) creatore del mondo.

Secondo la prima definizione, la religione diventa il rapporto dell’uomo con dio/più divinità.

Per la seconda, la religione costituisce invece la relazione che collega l’uomo con gli spiriti e, soprattutto, con gli spiriti degli uomini dopo la loro morte fisica.


Per la prima classificazione, religione = rapporto degli uomini con un dio/divinità, nel suo nucleo essenziale.

Per la seconda classificazione, religione equivale alla relazione tra uomini e spiriti operanti dopo la morte: nucleo centrale a cui molto spesso si è aggiunto la credenza in un dio/più divinità nel processo di genesi/creazione dell’universo, almeno dopo il 27.000 a.C.

Anche astraendo dal problema storico delle “religioni-atee” (il primo buddismo non prendeva in considerazione l’azione e l’esistenza delle divinità, ma rappresentava altresì sicuramente una forma di pensiero religioso), la seconda definizione risulta sicuramente più corretta e profonda della prima, proprio perché riflette la genesi concreta, la dinamica ed il processo di sviluppo di un particolare insieme di credenze, comportamenti sociali ed atti rituali del genere umano durante il paleolitico medio e superiore.

Infatti se l’uomo del paleolitico, dalla comparsa dell’Homo Habilis fino al 27.000 a.C., non espresse ancora credenze relative all’esistenza di divinità superiori, aveva già adottato tutta una serie di miti e di rituali rispetto ai “mana” e, almeno dopo il 100.000 a.C., e all’interrelazione degli spiriti/mana dei defunti con il mondo parallelo dei viventi.

In principio era il “mana”, centinaia di migliaia di anni prima della genesi del fenomeno religioso, anche inteso in senso ampio.

Tutte le società paleolitiche di raccoglitori /cacciatori, che sono sopravvissute fino agli ultimi due secoli, condividono infatti la convinzione dell’esistenza di una forza immateriale ed attiva, diffusa in tutti gli enti ed oggetti, ivi compresi quelli materiali (sassi, alberi, ecc). Tale potenza immateriale era denominata “mana” presso i popoli della Polinesia, Melanesia e dei maori; hasina presso le tribù paleolitiche del Madagascar; orenda presso le tribù nordamericane degli Huron; tilo presso i balonga africani; yok presso i tinglir, e così via: nomi diversi per esprimere lo stesso concetto e la stessa potenza, immateriale ed omnipervasiva, adottati da popoli di raccoglitori/cacciatori mai entrati in contatto reciproco e distanti centinaia, a volte migliaia di chilometri gli uni dagli altri.[1]

Ora, il mana (e le sue varie declinazioni, in tutte le popolazioni paleolitiche del globo via via conosciuto negli ultimi secoli) non è una divinità, anche perché il mana pervade anche gli oggetti più grezzi e banali per l’essere umano (frutta, bastoni per la raccolta di tuberi, ecc), ma allo stesso tempo non diventa mai un oggetto concreto, risultando immateriale, intangibile e non percepibile direttamente dai sensi umani.

Seppur da cose/esseri viventi, tuttavia, il mana è interno e collegato indissolubilmente ai vari oggetti e, come aveva rilevato M. Eliade, “non si trova in nessun luogo il mana ipostatizzato, staccato dagli oggetti, dagli avvenimenti cosmici, dagli esseri o dagli uomini”: non sussiste la concezione del “Mana-Dio”, per gli esseri umani paleolitici. [2]

Esso costituiva una forza magica e sacra che, secondo i popoli dell’età della pietra, permeava ed agiva in qualunque cosa: facendo si che ogni evento ed oggetto, anche una pietra (considerata anzi simbolo dell’origine della vita), secondo i popoli del paleolitico possedesse delle particolari intenzioni e volontà, buone o cattive a secondo dei casi, manifestando una sorta di “occhio immateriale” e di energia cosmica che si rivolgeva costantemente verso gli uomini in forme propizie o nefaste, a secondo dei casi.

Tale animismo primitivo, e cioè la credenza sociale che ogni cosa o evento avesse un principio vitale ed un mana immateriale, faceva si che l’uomo primitivo fosse immerso in una realtà mitica e magica, sacrale e materiale allo stesso tempo.

“Perché, scrive Georges Gusdorf, egli” (l’uomo del paleolitico, quasi sicuramente anche del paleolitico superiore e delle epoche più remote di esistenza della nostra specie) “non conosce l’instabilità dell’uomo moderno che ha perduto il suo luogo ontologico e non fa che andarne alla ricerca. L’uomo primitivo si sente al suon posto al centro della realtà non abbastanza cosciente di sé per volersi diverso da quanto sia”. Sarebbe inutile definire religioso o ateo questo stato iniziale. È insieme l’uno e l’altro, e dunque al contempo la loro reciproca negazione. Nello stato mitico l’essere è unitario; non c’è distinzione tra sacro e profano, tra naturale e soprannaturale. L’uomo primitivo vive nello spazio del sacro, ma un sacro vissuto, non concettualizzato. Il mito è la realtà ultima, che comprende tutto e il suo contrario, minacciosa e amica che attrae e respinge. Mircea Eliade ha rimarcato questa ambivalenza del sacro originario, e infatti una reazione di fronte a un mondo pieno di intenzioni sia benefiche sia malefiche capace di produrre il bene e il male, il piacere e il dolore.

L’atteggiamento ambivalente dell’uomo di fronte a un sacro che è insieme attraente e repellente, benefico e pericoloso, si spiega non soltanto con la struttura ambivalente del sacro in se stesso, ma anche con le reazioni naturali manifestate dall’uomo davanti a questa realtà trascendente che lo attrae e lo spaventa con pari violenza. La resistenza si afferma più precisamente quando l’uomo si trova in presenza di una sollecitazione totale del sacro, quando è chiamato a prendere la decisione suprema: abbracciare completamente e irrevocabilmente i valori sacri, oppure rimanere rispetto ad essi in un atteggiamento equivoco”. [3]

Secondo Minois e molti altri ricercatori, lo stadio ideologico-cognitivo del mana risulta “coessenziale” alla nostra specie ed appartiene al nostro bagaglio culturale proprio fin quasi dalle nostre più lontane origini, dall’Homo abilis di più di due milioni di anni or sono: non si può tuttavia parlare ancora di religione, anche intesa nel senso più ampio possibile, ma invece di un campo di potenzialità da cui poteva nascere la magia e/o la religione, e persino la reazione al sacro “in modo negativo con repulsione, rifiuto, odio, sarcasmo o indifferenza”[4]

In ogni caso, a partire approssimativamente dal 100.000 a.C., iniziò a svilupparsi progressivamente da questa base e campo di potenzialità la prima forma di religione, intesa in senso ampio: dalla concezione generale del mondo imperniata sul mana derivò infine la credenza che anche i morti (oggetti e cose come tutte le altre) fossero almeno in parte… vivi e potenzialmente ancora in grado di interferire con il mondo degli esseri viventi, venendo spesso considerati dalle popolazioni paleolitiche come immersi in un sonno profondo ma momentaneo, da cui potevano sempre risvegliarsi.

Tutta una serie combinata di studi accurati, a partire dalla fine dell’Ottocento, ha messo in luce la complessa dialettica morto/vivo esistente tra i popoli primitivi con cui si è entrati in contatto nel corso degli ultimi secoli, certo solo una volta acquisita la coscienza collettiva della nostra mortalità e del carattere inevitabile del suo arrivo, sconosciuta a qualunque altra forma di vita animale sulla Terra. Gli animali soffrono per la morte dei propri simili, ma non hanno coscienza che la stessa sorte capiterà a loro, e tanto meno hanno le facoltà per comprendere cosa sia il suicidio... ne è convinto l’etologo Danilo Mainardi attraverso le pagine di Focus Extra, affermando che “in molti animali, specialmente quelli evoluti e che hanno una vita sociale, c’è l’evidente consapevolezza della morte altrui, che spesso dà luogo a sofferenza. Ho visto personalmente – dice l’esperto – due giovani gorilla soffrire in modo evidente per la morte del loro padre e capobranco. Tuttavia ciò che solo l’uomo riesce a fare è il ragionamento che se un essere uguale a me muore, allora prima o poi toccherà anche a me. Manca cioè, negli animali, la coscienza della propria morte”, coscienza propria dell’Homo sapiens almeno a partire dal 100.000 a.C.

Venne alla luce, in altri termini, il primo grande salto di qualità nel processo di sviluppo del fenomeno religioso, con la genesi del sacro e del processo di interrelazione costante tra i vivi e gli spiriti dei morti, dimostrata anche dalle prime sepolture rituali di defunti databili attorno al 100.000 a.C.

“Dopo anni di studio diretto delle culture più primitive dell’Africa, l’etnologo tedesco Leo Frobenius (1873/1958) – nel suo Monumenta Africana (1929) – segnalò che mentre fra i popoli cacciatori si crede che ogni morte sia conseguenza della violenza – e causa di più violenza – e, invece di essere inquadrata nel destino naturale degli esseri viventi, la sua realtà viene ascritta al mondo della magia; fra le culture agricole, o quanto meno dei raccoglitori, la morte si accetta come una fase naturale della vita.

Per i popoli cacciatori, gli spiriti dei morti – siano di animali cacciati o di persone scomparse – oppongono resistenza ad abbandonare questo mondo e vogliono vendicarsi di coloro che sono ancora vivi, i quali possono sentirsi al sicuro per mezzo della magia e seppellendo gli estinti in modo sicuro, cioè mettendo il corpo con la faccia in giù nella fossa, accumulando pietre sopra il cadavere, legandolo o fasciandolo rigidamente con una tela o con una rete, tappandogli tutti gli orifizi del corpo affinché non esca il suo spirito, abbandonando il suo corpo lo stesso giorno della morte nella selva affinché lo divorino gli animali mangiatori di carogne, sottomettendo i parenti più prossimi a prove dolorose affinché l’estinto si possa considerare doverosamente pianto,ecc. In generale, più buono e potente era il morto – animale o persona – in vita, più pericoloso sarebbe diventato il suo spirito liberato dal corpo”[5]

A partire almeno dal 100.000 a.C., i clan paleolitici attribuirono via via anche ai morti il mana ed uno spirito vitale, ritenendo che anche i defunti potessero interagire con il nostro mondo terreno e con le persone ancora viventi, spesso manifestando delle intenzioni malevole verso i vivi: ricerca di vendetta dovuta, sempre secondo le mentalità collettive tipica dell’era paleolitica, al fatto che anche la morte non veniva considerata come un evento naturale, come avviene nella maggioranza dei casi, ma un fenomeno determinato dalla violenza e dai soliti mana, nel loro lato maligno e pericoloso.

Sorta solo dopo aver conquistato, con un lento processo di sviluppo mentale durato milioni di anni, la coscienza della morte come evento inevitabile, la credenza nella sopravvivenza dello spirito/mana dopo la morte del corpo fisico venne ulteriormente rafforzato dalla presenza ed azione emotiva di quei sogni ed incubi che avevano nei defunti il loro oggetto privilegiato, secondo un ipotesi molto plausibile: non sono certo solo gli animali a sognare ed entrare in fase REM, ma il processo si applica ovviamente anche agli uomini del tardo paleolitico.

“ Un ipotesi plausibile suggerisce che la credenza nella sopravvivenza dopo la morte fu generata dal mondo onirico. Oggi nessuno più si spaventa di sognare un parente morto o di vedere se stesso conversare o fare qualcosa insieme a lui; tutti sappiamo – o crediamo di sapere - che cos’è un sogno e, pertanto, non gli diamo grande importanza. Tuttavia, molte migliaia di anni fa rivivere la presenza di un estinto nel mezzo della notte, e avere la sensazione di poter interagire con lui, non dovette avere altra giustificazione migliore della più ovvia: tale visione informava e/o confermava che quel morto continuava ad essere vivo, anche se non nel mondo materiale che illuminava il giorno, ma nella sfera degli spiriti che prendeva vita di notte.

Migliaia di sogni di migliaia di persone, durante migliaia di notti, sono una base probatoria sufficiente affinché qualcosa di tanto inspiegabile finisca per divenire una certezza. I sogni placidi e piacevoli, ma anche gli incubi, diedero vita alle regole di un mondo di sopravvissuti eterei che si muovevano al ritmo della buona o cattiva coscienza di ciascun soggetto. Gli animali cacciati con rispetto, o i defunti con i quali si stava in pace fornivano degli spiriti protettori; ma le morti in cui si fosse offeso un tabù di caccia o tribale, recuperavano la vita per mezzo di incubi alimentati dai rimorsi e gridavano vendetta contro il trasgressore. Nessuno poteva trarsi in salvo dato che non è possibile controllare i propri sogni. Solo la magia poteva proteggere i vivi dai morti e trasformare gli spiriti in alleati. La religione, con le sue elaborazioni mitiche, andò progressivamente complicando quel mondo di illusioni e finì per dare un gusto inusitato all’aldilà”.[6]

Nella splendida cultura degli aborigeni australiani, risalente a circa 40.000 anni orsono, l’epoca primigenia della creazione era chiamata ad esempio “l’era dei sogni”, mitica epoca in cui “l’universo esisteva già, ma si rivelava d’altro canto indifferenziato ed abitato da esseri totemici, generalmente rappresentati come creature gigantesche con forma di animali. Camminando, cacciando, danzando o semplicemente sedendosi per terra, essi lasciarono nel mondo fisico tracce delle loro azioni e segni del loro passaggio: le montagne , le rocce, le pozze d’acqua, e ogni altro oggetto presente in natura”.[7]

Alla lunga, dopo milioni di anni, la concezione del mana e la presenza costante dei sogni sui morti si combinarono dialetticamente per produrre assieme la convinzione diffusa negli uomini del medio paleolitico della sopravvivenza dei defunti, spesso considerata come uno stato di “sonno instabile” dei morti: ma hanno ragione Rodriguez e Minois, tra gli altri, a rilevare come non solo tale credenza non abbia nulla in comune con l’idea di esseri superiori in grado di creare le anime/mana (tra le altre cose…) dal niente, ma anche con le concezioni angosciate della morte che dominano il nostro pensiero collettivo da alcune migliaia di anni, e specialmente negli ultimi due secoli.

Per gli uomini del medio paleolitico, infatti, l’elemento centrale nel rapporto vivi/morti era che gli individui morivano ma il clan invece sopravviveva, tanto che la sua riproduzione concreta diventava assolutamente centrale nella loro concezione del mondo e dei rapporti sociali.

“Generalmente si tende a giudicare i popoli primitivi in base ai nostri parametri culturali odierni. Si nota infatti che la fede nella sopravvivenza post mortem sorse come meccanismo per sfuggire all’angoscia prodotta dalla certezza dell’annichilimento di sé in quanto soggetto. Oppure come strumento dottrinale destinato a regolare e controllare la vita del soggetto attraverso la promessa di ottenere, nella vita eterna, una ricompensa positiva o negativa, in funzione della qualità –secondo le norme imposte dalle credenze – delle sue azioni in vita (le dottrine della reincarnazione sono una variante di questa ipotesi, ma in esse è lo stesso soggetto, e non un dio, il responsabile ultimo della ricompensa conseguente). Entrambi i meccanismi psicosociali certamente risiedono nel cuore di tutte le grandi religioni fin da circa 4000 anni, ma nessuno dei due può giustificare l’origine di questa credenza.

In primo luogo, fra i popoli primitivi perdere la vita era una possibilità che si viveva – e ancora si vive – con indifferenza, giacché rischiarla, ieri come oggi, fa parte della routine quotidiana; per altro verso, l’individualità, cosa a cui teniamo tanto, assume un’importanza minima in culture incentrate sulla collettività, sul clan. Nelle comunità primitive, l’idea di sopravvivenza post-mortem si sarebbe limitata a diventare il principio animatore di altri corpi – qualcosa come una premonizione del principio fisico che afferma che l’energia né si crea né si distrugge, solo si trasforma -, ma senza avere memoria né rapporto con l’identità precedente. Sembra assurdo pensare che ci fu bisogno di creare un riduttore di angoscia come questa credenza in un tempo e contesto in cui l’annichilimento della persona non si vedeva ancora come un problema. In secondo luogo, la testimonianza etnografica e archeologica dimostra che l’idea di ricompensa post-mortem è – e fu – totalmente estranea alla mentalità primitiva e, pertanto, poté essere la causa della sua origine”.[8]

Anche le concezioni sociali della morte cambiano profondamente, tra un epoca storica e l’altra: ha pertanto sbagliato uno studioso intelligente come Luigi De Marchi, nel suo libro “Lo shock primario”, a proiettare l’angoscia sociale verso la propria morte, tipica degli ultimi millenni, nel lontano passato preistorico, dove l’angoscia/paura era invece determinata proprio dai defunti e dalla loro (presunta) azione sui vivi.

In ogni caso, attorno al 100.000 a.C. la credenza paleolitica nella sopravvivenza dello spirito dei defunti si coagulò in un vero e proprio culto dei defunti ed apparve con sicurezza per la prima volta “l’homo religiosus”, anche se teso a riprodurre una religione ancora senza divinità, distante poi anni-luce dall’idea di un dio creatore del mondo e delle anime.

Sono datate quasi centomila anni fa, espresse sia dall’Homo sapiens sapiens, che dal nostro “cugino” di Neanderthal, le prime sicure forme di sepoltura rituali, anche se alcuni ricercatori le fanno risalire ad un’epoca precedente ed attorno al 130.000 a.C. (resti di uomini paleolitici trovati a Skhul Cavo, Palestina, ed a Krapina in Croazia).

“Le prime vestigia incontestabili di sepolture umane provengono dall’insediamento di Jebel Qafzeh – una grotta situata 3 chilometri da Nazareth -, luogo dove furono ritrovati i resti di vari umani moderni arcaici (11 adulti e 7 bambini); la sepoltura più antica, che conteneva un giovane di 20 anni con un bambino di 6 ai suoi piedi, risale a quasi 100.000 anni fa. Di età leggermene inferiore sono le ossa provenienti da Skul (Israele) o da Shanidar (Iraq) – dove il referto più antico ha circa 70.000 anni -, che appartengono a membri della cultura neanderthal.

Le pratiche funerarie appaiono già chiaramente documentate sia nei neanderthal che nell’uomo moderno arcaico e, inoltre, si presentano arricchite dal corredo che accompagnava il defunto e che era solitamente composto da oggetti e/o parti di animali che per quelle culture dovevano avere un grande valore simbolico. Così, per esempio, fra le inumazioni dei neanderthal notiamo che: il bambino trovato a Teschik Tach (Uzbekistan) era stato sepolto con tutt’intorno corna di stambecco o capra montana – e, dato che il suo scheletro presenta segni di utensili di pietra, c’è da supporre che era stato scarnificato ritualmente prima di essere inumato -; quello di Derderiyeh (Siria) aveva un oggetto triangolare di selce all’altezza del cuore; uno degli uomini di Shanidar (Iraq) era accompagnato da utensili ed era stato deposto in un letto di fiori medicinali – achillea, fiordaliso, cardo, ramno, equiseto, malvarosa, ecc -, che formavano un bel tappeto di colore verde, bianco, giallo e azzurro; un adolescente di Jebel Qafzeh (Israele) aveva corna di daino sulle mani e sulla parte superiore del petto; il giovane di Le Moustier (Francia) era stato sepolto, come se dormisse su un letto di selci levigate e con in mano un’ascia di pietra finemente lavorata; a La Ferraise (Francia) è stato trovato lo scheletro di un bambino senza testa piegato dentro una fossa e poco più in alto si trovava il cranio, senza mandibola, sotto una lastra calcarea, la cui parte inferiore era stata dipinta con ocra rossa e quella superiore incisa con diciotto buchetti, ecc.

Nel continente europeo si conoscono sepolture risalenti al paleolitico superiore – senza contare le ancora discutibili pratiche funerarie di Atapuerca -, ma l’uso generalizzato di cimiteri non cominciò prima di 12.000 anni fa circa. Le inumazioni variavano secondo il luogo e la cultura, e il corredo funebre comprendeva corna di cervo, decorazione con ocra rossa, denti d’animali e conchiglie marine, utensili, gioielli, ecc. Poco più di 6.000 anni fa i popoli dell’Europa occidentale incominciarono a costruire monumenti di pietra sopra i loro morti, inaugurando così una tradizione megalitica che durò fino a 5.000 anni fa.

In Australia, la prima sepoltura documentata è un’incinerazione che avvenne sulle sponde del lago Mungo circa 26.000 anni fa; la scoperta di un altro individuo che fu inumato ornato di ocra rossa suggerisce anche la continuità di un uso rituale che già abbiamo visto nell’Homo erectus.

L’America fu colonizzata dagli esseri umani circa 15.000 anni fa, quando dei gruppi di cacciatori dalla Siberia passarono nell’America del nord attraverso il ponte naturale di Bering. Fra le prime tracce di comportamento rituale si nota l’uso dell’ocra rossa, quest’aspetto mette in relazione quei primi americani con la loro origine eurasica. La necropoli più antica trovata fin ad oggi è quella di Sloan (Arkansas) e risale a circa 9.500 anni fa; le tombe contenevano offerte – scorte di punte di freccia nuove e altri strumenti non usati – che suggeriscono qualche tipo di credenza nella sopravvivenza alla morte che li portava a dotare i defunti maschi di armi per poter continuare a cacciare nelle praterie dell’aldilà. Il sud del continente americano cominciò ad essere popolato circa 12.000 anni fa. I primi templi e costruzioni funebri documentati risalgono a circa 6.000 anni fa e sono della regione andina; le prime tombe erano solite contenere offerte di animali sacrificati.”[9]

A partire dal 100.000 a.C., la pratica sacro-religiosa della sepoltura dei defunti iniziò via via ad espandersi tra i clan primitivi, attestando concretamente:

  • la coscienza collettiva del paleolitico rispetto al fenomeno della morte individuale;
  • la credenza paleolitica nella sopravvivenza dei defunti post-mortem, con la presenza diffusa dell’ocra rossa (simbolo di vita) e del corredo funerario.
  • Il tentativo magico-religioso di proteggere il clan, ed i suoi vari individui sia dall’anima degli estinti che dalle loro possibili vendette, oltre che un tentativo rudimentale di ingraziarsi gli spiriti dei morti con offerte votive: la prima, elementare, rozza forma di religione, intesa in senso ampio.

Si trattò di sentimenti collettivi e pratiche religiose assolutamente non innate, prodotte da una nuova ed autonoma forma di attività sviluppata dagli uomini del medio paleolitico senza alcun intervento divino; elaborate da donne e uomini “senza dio”, ancora non in grado di produrre lo stesso concetto di un essere cosciente soprannaturale ed iperpotente: contrapposte tra l’altro alla lunghissima assenza di sepolture per gran parte del paleolitico, tra i due milioni di anni fa (Homo abilis, capace già di produrre strumenti di produzione con altri oggetti) ed il “fatidico” 100.000 a.C.; ma pur sempre sentimenti e pratiche di natura religiosa e sacra, nel senso più esteso del termine. La fonte principale del bisogno/credenze religiose, sia intesa in senso largo che in senso stretto, è stata allora (ed è tuttora) il rapporto dell’uomo con il suo divenire biologico individuale, con i morti e con la morte, anche se a tale forza motrice centrale si è via via aggiunto la paura (Lucrezio) rispetto agli inspiegabili fenomeni naturali e, dopo il 3.900 a.C., l’impotenza/paura rispetto alle spietate dinamiche delle società classiste.

Parallelamente, e sempre nella stessa fase, assieme al culto dei morti iniziarono ad affermarsi anche il totemismo e lo sciamanesimo, altre forme di manifestazioni dell’animismo espresso dai popoli di raccoglitori/cacciatori riprodottisi durante il medio paleolitico.

Il totemismo non è altro che una pratica religiosa (intesa in senso ampio) tribale, attraverso la quale i gruppi sociali del paleolitico attribuivano la discendenza del loro clan da un unico e mitico antenato, di regola un animale considerato particolarmente forte e coraggioso (orso, leone, ecc): in tal modo si stabiliva sia l’identità collettiva della tribù che la differenza con le altre limitrofe, attingendo risorse ed energia dalla potenza magica posseduta dal presunto antenato-animale.

Lo sciamanesimo, a sua volta, costituì un’insieme di pratiche magiche attraverso le quali la figura dello sciamano/sciamana, uomini e donne dotati di particolari poteri magici, potevano “viaggiare” in stato di trance nel mondo dei mana/spiriti, utilizzando grandi poteri di quest’ultimi a vantaggio dei clan preistorici in cui operavano.

In ogni caso la lunga storia della religione era ancora agli inizi, piena di sorprese e future evoluzioni: almeno attorno al 27.000 a.C., se non prima, si verificò infatti il secondo salto di qualità nel processo di sviluppo del fenomeno religioso.

Negli ultimi due secoli si sono trovate ed accumulate le prove concrete del fenomeno per cui l’uomo del paleolitico inferiore, e più recente, avesse iniziato a produrre attorno al 27.000 a.C., il concetto di divinità e che (sorpresa, sorpresa) la prima divinità fosse di sesso femminile, anche se a volte raffigurata con in bella evidenza un fallo maschile.

Fin dall’origine dell’uomo, quando iniziammo a differenziarci dagli altri primati superiori (innanzitutto scimpanzé e bonobo, i nostri più vicini “cugini” con cui condividiamo circa il 98% del nostro materiale genetico), i nostri lontani antenati assistettero agli eventi fondamentali della gravidanza e della nascita di altri esseri umani, generati dal corpo femminile.

Con il progressivo, seppur lento e “molecolare”, aumento delle capacità cognitive e tecniche dell’homo sapiens sapiens, i clan paleolitici espressero ed autoprodussero la concezione di una potente e superiore divinità che fosse l’estensione macrocosmica del corpo femminile, e soprattutto del suo potere concreto di donare la vita all’intero genere umano: le famose statuette femminili del paleolitico, una delle prime forme di arte umana, costituiscono allo stesso tempo la più antica testimonianza dell’origine e sviluppo della prima forma conosciuta di religione (in senso stretto) della nostra specie.

Non sapremo mai esattamente le cause immediate del salto di qualità avvenuto nel processo di elaborazione della concezione del mondo dell’uomo paleolitico, ma sta di fatto che a partire almeno dal periodo gravetiano/perigordiano (27.000-20.000 a.C.) il mistero della fecondità, della quale non si conoscevano ancora dinamiche concrete e la parte “fecondatrice” svolto dal sesso maschile, si trasformò in culto della Dea.

“A partire dalla seconda metà del gravetiano/perigordiano (circa 27.000-20.000 a.C.), tuttavia, le culture europee paleolitiche non solo ampliarono la loro gamma artistica per quanto riguarda la produzione parietale e di beni mobili, ma cominciarono anche, cosa fondamentale, a elaborare statuette femminili così notevoli e sbalorditive – forse sia per loro che per noi – che niente più è uguale dal loro rinvenimento. Questo tipo di sculture figurative continuarono ad essere in vigore fino alla fine del magdaleniano (circa 15.000-9.000 a.C.), anche se, curiosamente, fra le figure magdaleniane e le sue antecedenti gravetiane troviamo un intervallo di tempo – solutreano (circa 18.000-15.000 a.C.) -, nel quale per il momento non sono state trovate statuette femminili nell’occidente europeo – usarono solo materiali perituri come il legno o altri per realizzarle? -, anche se invece si conoscono figure di quella stessa epoca nell’estremo oriente del continente (Ucraina e Russia).

A differenza delle figurazioni animali, che vengono rappresentate con estremo realismo, e danno l’impressione di vita e movimento, le pitture di figure umane sono molto schematiche, lineari e senza movimento – o lo hanno congelato – e le statuette femminili sono sempre statiche, rigide – al massimo con delle pose, ma senza movimento. La gran maggioranza di esse presenta tratti morfologici deformati o, per lo meno, molto esagerati – in particolare seni, fianchi, natiche e triangolo pubico -, le braccia normalmente riposano sul ventre gravido (sfiorando il pube), sopra i seni, oppure non esistono; e molte sono prive di testa, o la loro faccia non ha dettagli, e coperta di una maschera di animale, o ne assume i tratti fondamentali, specialmente di uccello”.[10]

Il punto essenziale è che non si trattava solo né principalmente di opere d’arte, peraltro splendide, ma invece di simboli religiosi che sintetizzavano ed esprimevano la nuova sacralità femminile: della Dea Madre e della sua stretta parente, la Dea Gravida.

Proprio nel paleolitico superiore comparve infatti la rappresentazione della principale divinità di quel periodo, la Dea dispensatrice di vita: le statuette del paleolitico, ben lungi dall’essere un espressione dell’erotismo maschile (raffigurano donne con tratti morfologici molto esagerati, a partire proprio dai tradizionali attributi sessuali femminili), costituiscono la celebrazione e l’inno alla divinità femminile, nelle sue diverse incarnazioni.

“Le statuette femminili del paleolitico potranno essere “arte” per noi, ma la loro importanza cruciale risiede nella loro qualità di testimoni muti, oltre che simboli centrali, del primo sistema di credenze religiose strutturate che plasmò la psicologia umana. I concetti, i segni e i simboli che l’umanità paleolitica collegò alla fertilità alla generazione e al femminile, avrebbero posto la base che permise di ideare le prime formulazioni circa l’esistenza di una divinità datrice della vita e protettrice. Nel corso di più di venti millenni, non vi fu altro dio che la Dea paleolitica; e durante vari millenni ancora essa, attraverso le sue evocazioni ha continuato a dominare l’espressione religiosa delle differenti culture del continente eurasico e del Vicino Oriente”.[11]

Risulta in ogni caso utile notare il carattere bivalente assunto quasi subito dalle nuove divinità femminili, a volte raffigurate nel Paleolitico superiore anche sotto forma di animali quali il gufo, l’avvoltoio, il bisonte femmina o la giumenta.

Infatti la Dea Madre diventò anche Messaggera e Dea della Morte, seppur svolgendo anche questo ruolo mistico in qualità di elemento di rigenerazione della stessa vita. La grande e suprema divinità dispensatrice di vita poteva trasformarsi nella Dea Uccello ed in una spaventosa immagine di morte, venendo raffigurata a volte nel corso del paleolitico superiore anche come un nudo rigido e con uno sproporzionato triangolo pubico, al cui interno tuttavia incominciava il processo di trasfigurazione della morte in vita ed in una nuova esistenza di altri esseri umani, attraverso l’utero simbolico della Dea, nella sua funzione di dispensatrice di morte e, allo stesso tempo, di rigenerazione vitale.

Il tema della morte, già elaborato nel medio paleolitico con il culto dei defunti, venne in ogni caso ripreso e riprodotto in modo creativo all’interno di una diversa prospettiva generale, imperniata sul culto della/delle divinità femminili tipico del paleolitico superiore a partire almeno dal 27.000 a.C.: un’attività rituale tra l’altro celebrata da sacerdotesse, visto che le cerimonie rituali della Dea Madre risultavano appannaggio delle donne e nelle quali le divinità di sesso maschile comparirono solo in tarda epoca, assumendo per altro un ruolo nettamente subalterno rispetto alla “grande dispensatrice” della vita su scala cosmica.

In estrema sintesi, l’insieme combinato delle ricerche archeologiche e storiche – peraltro completamente sconosciute, per forza di cose, a Marx, Engels e Lenin – attesta che nel paleolitico medio e in quello superiore si formarono due grandi e diverse tipologie di religione, fondate prima sul culto/neutralizzazione dei morti ed in seguito sul culto/esaltazione della Dea Madre.

Fatto ancora più eclatante, entrambe risultavano perfettamente inserite e compatibili con il carattere collettivistico e la matrice comunista/comunitaria (primitiva) assunta dai rapporti di produzione e distribuzione durante il paleolitico, all’interno dei clan di raccoglitori-cacciatori nei quali era sconosciuto sia lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo che la proprietà privata della terra e del prodotto della caccia/raccolta, anche per l’assenza di disponibilità di un surplus plusprodotto costante ed accumulabile nel tempo.

In altri termini, la religione nacque in un ambiente socio produttivo collettivistico e si sviluppò in presenza di rapporti di produzione collettivistici; si conservò per molte decine di migliaia di anni in totale assenza di sfruttamento dell’uomo sull’uomo; si dimostrò una pratica sociale perfettamente compatibile con il processo plurimillenario di sviluppo del comunismo primitivo, a partire almeno dal medio paleolitico (100.000 anni or sono) fino ad arrivare all’11.000 a.C., alla nuova fase di sviluppo mesolitica/neolitica.

Non può pertanto essere messo in discussione che la religione fosse “rossa” e comunitaria, come sua prima matrice originaria e come sua caratteristica fondamentale, durante i primi novantamila anni di riproduzione storica.

Ma non solo: la seconda grande forma di religione, apparve nel paleolitico superiore fu in aggiunta imperniata sul culto della fertilità femminile, estremizzato fino ad essere impersonato dalla figura della Dea Madre e da una divinità superpotente, seppur non sempre benevola e dal volto materno.

Una religione femminile e “protofemminista”, per così dire; un culto imperniato sul sesso femminile detentore del potere per i tempi miracoloso della procreazione, in possesso a tutti i livelli – ivi compreso quello religioso – della magica fonte della vita, umana e non umana.

Dio è nato donna, ha sottolineato giustamente Pepe Rodriguez: una “donna” collettivistica e cooperativa, seppur in presenza di un basso livello di sviluppo delle forze produttive umana, che svolgeva un ruolo socioproduttivo molto importante nelle società del paleolitico superiore.

Sotto questo profilo sembra che, almeno secondo l’archeologo statunitense Dean Snow, gli autori di alcuni degli stupendi affreschi effettuati in alcune grotte paleolitiche fossero… delle artiste: esaminando le pitture di Pech Merle (Francia) e dell’italiana Grotta Paglicci, lo studioso americano ha notato come molte delle impronte lasciate sui graffiti delle due grotte fossero particolarmente sottili, con tutta probabilità lasciate da esponenti femminili dei nostri antenati paleolitici dell’epoca di Cro-Magnon.[12]

Donne-sacerdotesse, donne-artiste: un paleolitico superiore all’insegna del sesso femminile, in altri termini.

La situazione sopra delineata sul fronte religioso non cambiò sostanzialmente nel periodo neolitico/calcolitico (9.000-3.900 a.C.), almeno per quanto riguarda le fiorenti ed avanzate società neolitiche e calcolitiche in cui rimase intatta l’egemonia dei rapporti di produzione di matrice collettivistica e della “linea rossa” socioproduttiva, come era già avvenuto (con rarissime eccezioni quali Dolni Vestonice) anche nella precedente e lunghissima epoca paleolitica. Si trattava di culture collettivistiche, contraddistinte dalla proprietà comunitaria del suolo e dalla redistribuzione periodica del surplus; culture neolitiche e calcolitiche di matrice collettivistica, che rimasero all’avanguardia del progresso tecnologico-produtttivo e culturale durante tutti i sei millenni presi in esame, superando nettamente in quasi tutti i campi (meno che nel settore delle armi, purtroppo) le arretrate e militaresche strutture sociopolitiche che invece formarono nello stesso periodo della “linea nera” classista, dominate dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo (e sulle donne/bambini).

Nelle società collettivistiche del neolitico-calcolitico, da Gerico fino agli Ubaid ed alla cultura europea di Varna, la religione continuò infatti ad essere egemonizzata principalmente dal culto della Dea Madre e rimase perfettamente compatibile con la riproduzione costante di relazioni di produzione cooperative ed egualitarie, anche tra i due sessi.

Certo, il passaggio epocale della raccolta/caccia del paleolitico all’era neolitica del surplus, contraddistinta dall’agricoltura/allevamento/ceramica/primi centri urbani, ebbe due ricadute significative anche in campo religioso: la Dea Madre, creata dalle donne/maschi del paleolitico, mutò parzialmente volto e venne inoltre parzialmente affiancata da divinità maschili, seppur in posizione nettamente subordinata.

“Nella nuova economia agricola, la Dea Gravida del Paleolitico fu trasformata in una divinità della Fertilità della Terra diventando simbolo del ciclo vitale della vegetazione (nascita, fioritura, morte). Mentre acquistarono simultaneamente grande importanza gli aspetti legati alla fecondità di uomini e animali, l’abbondanza dei raccolti, la fioritura delle piante e i processi della crescita e dell’ingrassamento (la scrofa divenne sacra a questa Dea per le sue capacità di crescita veloce e di ingrassamento). La rappresentazione del mutamento delle stagioni si intensificò, manifestandosi nei rituali estivi/invernali o primaverili/autunnali e nella comparsa dell’immagine di una madre/sorella e di un particolare Dio maschile, spirito della vegetazione che nasce e muore”.[13]

La continuità con l’epoca del paleolitico superiore, espressa dalle nuove società collettivistiche del neolitico/calcolitico, rimase in ogni caso l’elemento centrale e dominante sotto l’aspetto religioso.

Secondo lo storico James Mellart, che diresse gli scavi nelle due importanti città anatoliche di Catal Huyuk e Hacilar (6500-5000 a.C.), veri e propri fori di civiltà (collettivistica) di quel tempo, “il fatto più interessante è che gli scavi in questi due siti rivelano una stabilità e una continuità dello sviluppo, durato forse diverse migliaia di anni delle culture sempre più avanzate che adoravano la dea”… “si può dimostrare una continuità religiosa da Catal Huyuk e Hacilar fino a risalire alle grandi “Dee Madri” di epoca arcaica e classica” e che l’interpretazione dell’arte del Paleolitico Superiore incentrata sul tema di un complesso simbolismo femminile (sotto forma di animali e simboli), mostra forti somiglianze con le immagini religiose di Catal Huyuk e Hacilar”.

Sebbene si parli molto poco di questo, i numerosi scavi neolitici in cui sono state trovate statuette e simboli della dea coprono una vasta area geografica, che va ben oltre il Vicino e medio Oriente, come dall’India fino all’isola di Malta, nel mediterraneo, per esempio. Insomma, quasi ovunque, i luoghi dove avvennero i grandi progressi sociali e materiali della tecnologia hanno il culto della Dea come caratteristica comune.

Risale probabilmente a questo primissimo periodo neolitico l’origine del concetto della dea Dispensatrice di Vita e di Nascita come Fato, poiché decide della durata della vita, della felicità e della salute, e come filatrice o tessitrice perfino dell’esistenza umana (il primo animale addomesticato, l’ariete, divenne sacro alla dea Uccello e la dea divenne così associata alla tessitura e alla tosatura).

Contemporaneamente, la scoperta della ceramica aprì altri orizzonti verso la creazione di nuove forme scultoree, e verso un nuovo modo di raffigurare i simboli attraverso la pittura su ceramica. Apparvero quindi i vasi antropomorfi a forma di donna-uccello (chiamati askoi) e motivi decorativi come corsi d’acqua, triangoli, bande decorate a rete, spirali, serpenti e spire serpentine divennero predominanti”.[14]

Proprio in quel periodo apparvero nuove concezioni mitologiche del mondo, nelle quali l’origine dell’uomo derivava dal processo di coltivazione dei cereali: in alcuni miti cinesi, ad esempio, la dea giunse a salvare l’umanità che moriva di fame con il riso.

“Secondo una leggenda, la dea Guan Yin si impietosì degli umani affamati e, strizzandosi il seno, produsse del latte che riempì le spighe vuote del riso, dando così origine ai chicchi. Poi si schiacciò il seno ancora più forte e ne uscì sangue mescolato al latte, e questa mistura si infilò in alcune piante. Ecco perché il riso esiste nelle due varietà, rossa e bianca. Un altro racconto cinese parla invece di una grande inondazione, alla quale sopravvissero pochi animali da cacciare. Mentre erano in cerca di cibo, alcuni uomini videro un cane venir loro incontro, con la coda piena di granelli gialli. Gli uomini piantarono quei semi, che crescendo diedero riso e permisero di scacciare per sempre la fame. In un’altra serie di miti, diffusi in Indonesia e in tutte le isole dell’Indocina, il riso ha l’aspetto di una fanciulla delicata e virtuosa. La dea del riso indonesiana, Sri, è la dea della terra che protegge gli uomini dalla fame. Una storia racconta che Sri fu uccisa dagli altri dei, per salvarla dalle avance lascive del re degli dei, Batara Guru. Quando il corpo di Sri venne sepolto, dai suoi occhi germogliò il riso e dal suo petto crebbe il riso glutinoso. In preda al rimorso, Batara Guru offrì queste piante agli uomini perché la coltivassero”.[15]

In ogni caso tutti i (numerosi e concordanti) dati storici venuti in nostro possesso mostrano come, all’interno dell’estesa ed avanzata sezione collettivistica egemone sull’insieme delle società neolitiche e calcolitiche, il culto della Dea risultasse sempre centrale e perfettamente compatibile con la riproduzione di relazioni di produzione fondamentalmente cooperative ed egualitarie, sia tra gli uomini che tra i due sessi.

Anche nelle civiltà neolitiche/calcolitiche di matrice collettivistica, come nel precedente paleolitico, la pratica sociale religiosa continuava pertanto ad essere di matrice “rossa e protofemminista”, ossia fondata principalmente su un culto della Dea della Fertilità ben inserito in un contesto socioproduttivo essenzialmente comunitario-socialista e nel quale l’egemonia era ancora esercitata da relazioni sociali di produzione collettivistiche, in assenza di sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

Fino al 4.400/3.900 a.C., l’epoca neolitica/calcolitica vide in gran parte del globo la simultanea centralità sia della “linea rossa” socioproduttiva che della religione gilanica della Grande Dea, in Europa come nell’Africa sahariana, in Egitto come in Iran, in Mesopotamia come nella regione siro-palestinese, con l’importante eccezione di gran parte delle tribù nomadi-pastorizie.

Sebbene in queste ultime regioni non siano state trovate molte figure femminili come in Europa, se ne hanno a sufficienza per poter affermare che la religione della dea fu universale fino a pochi millenni fa.

A Beidha (sud della Giordania), un villaggio formatosi verso il 9.000 a.C., che fu abitato per quasi tre millenni, gli archeologi non hanno trovato vestigia di ceramica ma, invece, hanno rinvenuto una piccola (2,8 cm) figurina di fango crudo, modellata senza braccia e alla quale manca la testa, che si ritiene una Dea della rigenerazione.

Fra gli esemplari ritrovati risaltano la Dea Gravida proveniente dal villaggio di Cayonu (nel sud-est dell’Anatolia; abitato fra il 7300 e il 6500 a.C.), le dee trovate a tepe Sarab (Monti Zagros, Iran; da circa il 6600 a circa il 6000 a.C.), o le figurine femminili di aspetto fantastico intagliate o incise schematicamente sui ciottoli o modellate in argilla provenienti da livelli preceramici di Munhata (Israele; da circa il 6800 a circa il 6100 a.C.), a Mallaha (Israele) le rappresentazioni della vulva della Dea datate a circa il 10.000 a.C.; e nei siti archeologici della cultura halafiense (circa 5500-4800 a.C.) abbondano le rappresentazioni del bucranio o testa di toro con le corna, simbolo di rigenerazione associato alla Dea neolitica.[16]

“Ma un’altra forza stendeva allora le sue ali, parole che dicevano che gli uomini son tutti disuguali”, si potrebbe affermare parafrasando Francesco Guccini nella sua splendida “Locomotiva”.

A partire dal 9000 a.C., infatti, iniziò via via a produrre le sue pesanti ricadute concrete l’effetto di sdoppiamento, in tutto il globo ed anche in campo religioso. Come si vedrà meglio nel prossimo capitolo, a partire dal 9000 a.C. e dalla fase storica in cui l’umanità entrò nell’era del surplus costante ed accumulabile a causa della nascita dell’agricoltura/allevamento), diventò possibile sia la riproduzione di rapporti di produzione collettivistici che di quelli classisti, fondati sul processo di appropriazione del surplus, mezzi di produzione e condizioni della produzione (terra, acque, risorse naturali) da parte di una minoranza del genere umano.

Tra il 9000 e il 3900 a.C., alcune società e civiltà dell’epoca neolitica e calcolitica adottarono gli alternativi e spietati rapporti di produzione classisti, entrando a far parte a pieno titolo della “linea nera” socioproduttiva e politico-sociale, specialmente (ma non solo… ) tra i gruppi umani dediti alla pastorizia nomade. Ed anche la pratica religiosa, in queste nuove realtà classiste, assunse subito un nuovo ruolo sociale ed una nuova forma, svolgendo anzi in alcuni casi il ruolo di “apripista” nel processo di affermazione dell’egemonia di relazioni di produzione fondate sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, come avvenne nella Mesopotamia del 3700/3100 a.C., con la teocrazia sumera.

Come si vedrà meglio nel prossimo capitolo, in Eurasia si affermarono a loro volta nel tempo le culture dei kurgan prima, tra il 4400 ed il 2300 a.C., e dei popoli indoeuropei in seguito. Basata principalmente sull’allevamento di animali, la civiltà dei kurgan era strutturata su una rigida divisione in classi, con i guerrieri e i loro capi che comandavano e sfruttavano schiave/schiavi ad essi sottoposti, spesso acquisiti tramite razzìe e guerre di aggressione contro i pacifici popoli agricolo-sedentari dell’Europa e del Medioriente.

La religione via via elaborata e riprodotta dalle popolazioni proto-indoeuropee non poteva che risultare maschilista e basato sul culto della forza, distante anni-luce ed agli antipodi rispetto a quella pacifica ed egualitaria della Dea Madre. Mentre i capi polico-militare venivano seppelliti sotto grandi tumuli (Kurgan), con un grande corredo funerario (ivi compresi animali abbattuti allo scopo, a volte con gli stessi schiavi del defunto), la principale divinità risultava infatti Dyeus, un dio maschile che dominava sul cielo, sugli agenti atmosferici (pioggia, ecc) e su una banda di altre divinità, al cui interno spiccavano figure bellicose come Perkwunos, alias “colui che attacca”, Welnos (il dio del bestiame), i Gemelli-Cavallo (dei del cavallo, ovviamente) e Nepots, signore delle acque.

Nella religione indoeuropea le divinità femminili svolgevano ormai solo il ruolo subordinato di spose di grandi dei guerrieri, oppure di fanciulle prive di ogni potere concreto ed apprezzate solo per le loro doti estetiche ed erotiche.

I pastori-predoni Kurgan e la loro elite crearono inevitabilmente un universo parallelo “divino” e sacrale, una religione (che non certo a caso) riprodusse nel mondo celeste la loro concreta gerarchia sociale, le loro regole di sfruttamento e violenza verso “gli inferiori” in un particolare “patrimonio” socioculturale, che successivamente passò in eredità alle popolazioni indoeuropee, ugualmente classiste bellicose e nella cui religione Dyeus diventò Zeus degli antichi greci, Nepots Nettuno, e così via.

Ovviamente la nuova religione, maschilista e violenta, risultava perfettamente compatibile proprio con i rapporti di produzione classisti, e pertanto continuò per millenni a dominare la cultura religiosa delle popolazioni Kurgan ed indoeuropee: Dyeus (Zeus) assumeva nel loro pantheon religioso la stessa posizione ottenuta sia dai loro monarchi e capi guerrieri in campo politico-sociale, che dal patriarca all’interno della famiglia di tipo schiavistico, che si era ormai formata durante il processo di sviluppo delle culture classiste in via di esame.

In estrema sintesi, l’effetto generale di sdoppiamento creò le potenzialità per lo sviluppo “sdoppiato” delle religioni, vero e proprio terzo salto di qualità in campo religioso, tanto che alla religione proto-classista del neolitico/calcolitico si affiancò anche nella realtà la sua alternativa, la religione di matrice collettivistica. Ma per forza di cose, a questo punto, diventa indispensabile analizzare in modo sintetico proprio quell’effetto di sdoppiamento, le cui ricadute non furono certo limitate al periodo neolitico/calcolitico ed alla pratica religiosa.

Note

[1] G. Minois, op. cit. pag. 20

[2] Op. cit. pag. 24

[3] Og. cit., pag. 23

[4] Op. cit., pag. 23

[5] P. Rodriguez, “Dio è nato donna”, pag. 106, Editori Riuniti

[6] Op. cit., pag. 130/131

[7] Op. cit., pag. 130/131

[8] Op. cit., pag. 129/130

[9] Op. cit., pag. 119/120

[10] Op. cit., pag. 154/155

[11] Op. cit., pag. 162/163

[12] A. del Vecchio, “Fu una donna a disegnare i cavalli di Grotta Paglicci nel paleolitico”, fonte Garganopress.net.

[13] In www.tmcrew.org/femmm/storiadelledonne/dea.

[14] www.tmcrew.org, op. cit.

[15] J. Standage, “Una storia commestibile dell’umanità” pag. 15, ed. Codice

[16] P. Rodriguez, op. cit. pag. 178/179

Fonte: www.robertosidoli.net/?page_id=229

http://www.homolaicus.com/religioni/culto-morti.htm