giovedì 21 giugno 2012

Cristianesimo ed ebraismo: Dal peccato d'origine all'idea di martirio

Nei confronti del cosiddetto «peccato d'origine» - che altro non è, nel Genesi, se non la rappresentazione simbolica del distacco dalla vita comunitaria primitiva (pre-schiavistica) -, la chiesa cattolica ha sempre assunto un atteggiamento piuttosto fatalistico, che si è andato accentuando in quella protestante.

Infatti, mentre la chiesa ortodossa ha sempre sostenuto l'impossibilità o l'insensatezza di una trasmissione ereditaria (genetica) di quel peccato (attraverso l’atto sessuale), poiché ciò impedirebbe all'uomo la possibilità di una libera scelta, e ha preferito limitarsi a credere che gli uomini soffrono i condizionamenti storici (sociali ecc.) derivati da quella colpa; la chiesa romana invece ha sempre fatto del peccato originale uno dei principali pretesti per indurre gli uomini a rinunciare a qualunque forma di liberazione terrena.

Qui è bene sottolineare che il criterio interpretativo del cattolicesimo romano, in merito al racconto del Genesi, è piuttosto regressivo anche rispetto a quello ebraico, poiché, mentre gli ebrei, attraverso quel racconto, volevano evocare la nostalgia di un paradiso perduto e suscitare quindi il desiderio di ritrovarlo sulla terra, l'esegesi cattolica, al contrario, si serve di quel racconto per sostenere che sulla terra non è possibile alcun paradiso e che quello adamitico è stato perduto una volta per sempre, e che l'unico paradiso possibile è quello dei «cieli», ideato e costruito unicamente da dio, senza concorso umano.


L'idea ebraica di poter realizzare il paradiso nell'ambito di una particolare nazione, circondata dall'inferno di altre nazioni «pagane», caratterizzate da rapporti di tipo schiavistico, non era un'idea del tutto peregrina.

Discutibili forse furono i modi usati per realizzarla (il regno davidico, p.es., ha senza dubbio conosciuto momenti di forte intolleranza), ma il torto maggiore degli ebrei fu un altro, quello di non aver compreso con sufficiente chiarezza che il desiderio di liberazione appartiene ad ogni uomo e che un popolo libero non può essere delimitato da confini geografici. Il concetto di «nazione eletta» esprime un certo pessimismo nei confronti del diritto a una libertà universale dall'oppressione. È il genere umano che va considerato «eletto», non un popolo particolare, anche se può esserci un popolo migliore di altri (nella loro esperienza di liberazione gli ebrei hanno prodotto una cultura di inestimabile valore. Il fatto stesso che il cristianesimo sia di derivazione ebraica la dice lunga: la rinuncia al concetto di «nazione eletta» in fondo nasce proprio all'interno del fariseismo).

In sé dunque non è sbagliata l'idea di voler realizzare la giustizia in una nazione particolare; è sbagliata l'idea di credere che tale realizzazione sia possibile solo entro quella nazione, in virtù della propria particolare storia e cultura.

Tuttavia, non ha senso - come poi ha fatto la chiesa romana - porre come alternativa a questo limite della civiltà ebraica la rinuncia a lottare per la giustizia sociale, nell'attesa di ottenerla, come premio della propria rassegnazione, nel cosiddetto «regno dei cieli».

La chiesa romana avrà sempre ragione contro quanti sostengono che per realizzare il bene è sufficiente rispettare la legge, ma avrà sempre torto quando sostiene che per realizzare il bene è sufficiente aver fede in dio, praticandone le opere (che poi l'opera principale, per questa chiesa, è, in ultima istanza, l'obbedienza al pontefice).

Dio è un ente così astratto che la fede riposta in lui può assumere delle manifestazioni tutt'altro che umane. Quando p.es. si afferma che il vero cristiano è colui che imita il Cristo, si rischia facilmente di cadere in un'aberrazione ideologica, in quanto, essendo il Cristo vissuto duemila anni fa, qualunque pretesa di contemporaneità col suo messaggio può essere facilmente il frutto di un'interpretazione irrazionale, e questo nonostante si dica che i vangeli siano la quintessenza dell'umanità dell'uomo. Cioè anche se i vangeli esprimessero fedelmente il messaggio di Cristo (il che comunque non è), resterebbe sempre da dimostrare che l'applicazione alla lettera dei loro principi costituisca il meglio per l'uomo contemporaneo.

Non è singolare che quanti dicono di voler «imitare Cristo», si concentrino soprattutto sul momento critico della crocifissione, senza rendersi conto che possono essere esistiti dei martiri la cui vita non è stata affatto un modello di esemplarità? Una morte cruenta può forse essere di per sé indice di santità? [1]

Non è assurdo (o se vogliamo ingenuo) pensare che il senso della vita di un uomo possa essere racchiuso nel fatidico e breve momento della sua morte? Non è forse una forzatura credere che il martirio di una persona possa riscattare, di colpo, un'intera vita vissuta con disperazione o risentimento?

Certo, il dolore che si subisce ingiustamente può impressionare, può anche farci credere che tutta la vita di quel martire sia stata caratterizzata da lealtà e sincerità (quando mai in fondo si parla male dei morti? e quando mai si dice che da vivi erano state delle persone ingiuste?), ma una conclusione del genere sarebbe sicuramente affrettata, dettata come minimo dall'emotività.

Per poter veramente capire se una persona è degna di fiducia, si ha bisogno di metterla alla prova, cercando di conoscerla mentre è «viva». E questa fiducia va ogni volta riguadagnata, poiché è nella natura umana essere incostanti.

Quando la chiesa romana sostiene che il momento più alto dell'amore di Cristo per il mondo, è avvenuto nel momento del patibolo, essa dimentica di aggiungere che la scelta del martirio non poteva che essere stata dettata da ragioni di opportunità, che spesso hanno quanti lottano davvero per la giustizia.

Ci si sacrifica per salvare gli altri più che se stessi, non per uno strano senso del dovere o per una follia personale, ma semplicemente perché si ritiene che quella sia la soluzione migliore per il proseguimento dell'ideale di liberazione.

Dunque «salvare gli altri» non tanto dall'ira di un dio vendicativo, che dai tempi di Adamo ha conservato rancore per il genere umano, quanto piuttosto dalle conseguenze dell'immaturità degli uomini, del loro primitivismo. Gli uomini vanno educati con la persuasione alla democrazia, costasse anche il sacrificio di sé.

In tal senso il martirio può anche servire a «salvare se stessi» dalla tentazione di voler imporre con la forza i propri ideali. O forse si preferisce l'immagine di un Cristo che sceglie il martirio per riscattare agli occhi dei propri seguaci una vita trascorsa in maniera insulsa, piena di delusioni e di fallimenti?

Gli uomini hanno bisogno non di essere colpiti emotivamente da gesti eclatanti, ma di essere coinvolti attivamente in un'esperienza significativa per la loro vita quotidiana. Abbiamo bisogno di incontrare persone normali che vivano un'esperienza gratificante sul piano della giustizia sociale, e non persone eccezionali che vivono secondo i criteri del più puro individualismo.

Le persone normali non hanno mai la pretesa di «imitare Cristo» e di imitarlo addirittura fino al Golghota. È assurdo pensare di poter imitare una persona al punto da identificarsi totalmente con la sua storia personale. Una identificazione del genere sarebbe altamente improbabile persino se si finisse realmente sulla croce.

Peraltro, l'idea stessa di voler affermare una stretta coerenza tra ideale di assoluta perfezione e prassi quotidiana (sempre piena di contraddizioni), a partire dal supremo sacrificio di sé, cioè a partire dalla logica del martirio (la sola con cui si crede di poter nascondere il proprio vuoto), è un'idea che riflette una concezione di vita secondo cui, non potendo esserci vera felicità sulla terra, l'unica possibile è quella che assume consapevolmente la sofferenza, il dolore come criterio di vita.

«Chi soffre ha sempre ragione» - dice l'integrista. Questa affermazione però non viene detta coll'intenzione di vedere l'oppresso liberarsi dalla sofferenza; al contrario, essa è un invito a vedere nella propria oppressione una fonte di felicità per l'aldilà.

Un integrista, al pari di chiunque soffra gravi disturbi psicopatologici, lo si riconosce sempre da almeno una di queste caratteristiche:

- non compie mai nessuna vera autocritica;

- non ha alcun senso della storia;

- non riconosce alcun valore alle ideologie diverse dalla propria.



[1] Questo senza poi considerare che per i cattolici il martirio del Cristo fu addirittura da lui «desiderato», proprio allo scopo di togliere l'ira di dio che pesava sugli uomini dal giorno del peccato originale. Non sono forse i vangeli che a più riprese sostengono che il Cristo «doveva» morire?

http://www.homolaicus.com/religioni/ebraismo-cristianesimo.htm