Negli ultimi vent’anni abbiamo assistito a un gran proliferare di nuovi esopianeti. L’eventuale scoperta di una Seconda Terra che ospiti la vita e che viaggi inconsapevole in qualche remoto punto dell’Universo ha un fascino invincibile al quale cediamo senza opporre resistenza. Cerchiamo pianeti simili al nostro per dimensioni, temperature e atmosfera e li cerchiamo nella “zona abitabile”, la regione intorno a una stella dove un’altra Terra potrebbe avere acqua liquida sulla sua superficie.
Ma se il nostro pianeta è effettivamente l’unico posto a noi noto dove la vita complessa sia riuscita a evolvere, questo non significa che la vita complessa sia necessariamente come noi la conosciamo, o che non possano esistere pianeti totalmente diversi dalla Terra dove la vita si sia sviluppata. Diversi recenti studi chiedono di ripensare al concetto di abitabilità, ultimo tra questi arriva quello a firma di René Heller, della McMaster University, e John Armstrong, della Weber State University, pubblicato recentemente su Astrobiology. Secondo i due ricercatori i pianeti alieni leggermente più grandi del nostro potrebbero essere addirittura più adatti a ospitare la vita di quanto non lo sia la Terra.


“Dal pot-pourri di mondi abitabili che possono esistere sulla carta, la Terra potrebbe risultare come un pianeta marginalmente abitabile e piuttosto bizzarro”, scrivono nell’articolo. Heller e Armstrong sostengono che sarebbe meglio concentrarsi sulle “Super-Terre”, quei pianeti grandi circa 2-3 volte il nostro che i due ri-batezzano come potenzialmente “super-abitabili”. Il che renderebbe il nostro un caso fortuito di presenza di vita all’interno di un mondo non ostile ma neanche troppo ospitale.
“La nostra argomentazione può essere intesa come una confutazione dell’ipotesi della rarità della Terra”, si legge nell’articolo. “Nel 2000 Ward e Brownlee hanno sostenuto che la nascita della vita richiedesse un intreccio estremamente improbabile di condizioni sul nostro pianeta, concludendo che la vita complessa sarebbe un fenomeno molto improbabile nell’Universo. Mentre siamo d’accordo che la presenza di un altro pianeta davvero simile alla Terra è banalmente impossibile, riteniamo che tramite questo argomento non si possa escludere l’esistenza di altri pianeti abitati”, scrivono. Heller e Armstrong sostengo anzi che la Terra possa essere considerata un mondo marginalmente abitabile, e che di fatto esistano una varietà di processi per i quali altri pianeti o lune potrebbero avere condizioni ben più ospitali per il sostentamento della vita. I pianeti rocciosi più grandi avrebbero per esempio una serie di vantaggi, e l’articolo ne elenca una decina. Tra questi un’attività tettonica più lenta, il che significa condizioni più stabili per la vita, e una massa più grande, il che significa più probabilità di avere un’atmosfera spessa grazie alla maggiore attività vulcanica che rilascia gas.


Come detto, quella di Heller e Armstrong non è l’unica spinta per un cambiamento di paradigma nella ricerca di pianeti abitabili. Nel maggio scorso, un articolo pubblicato su Science a firma del fisico teorico Sara Seager del Massachusetts Institute of Technology, proponeva qualcosa di simile. L’acqua e la vita, scriveva Seager, posso trovarsi anche su Super-Terre che orbitano la loro stella fuori dalla zona abitabile, a distanze dieci volte superiori di quella Terra-Sole, a patto che le atmosfere di questi mondi contengano idrogeno gassoso a sufficienza, e quindi un effetto serra potente, capace di mantenere il calore all’interno dell’atmosfera e creare un clima mite nonostante le poche radiazioni ricevute in superficie. Allo stesso modo anche pianeti aridi e più vicini alle proprie stelle madri potrebbero avere bisogno di una quantità minore di acqua per creare la vita, vista l’alta umidità atmosferica. E la vita potrebbe esserci addirittura sui pianeti vagabondi che viaggiano per l’universo liberi da vincoli orbitali, scrive Seager, in caso abbiano avuto la fortuna di sviluppare calore da processi radioattivi o del nucleo e di avere i giusti gas nell’atmosfera.


Articoli di questo tipo raramente trovano consenso unanime all’interno della comunità scientifica. Questo perché a oggi il problema principale rimane la nostra effettiva incapacità tecnologica di determinare tutte le caratteristiche di un pianeta. Al di là di massa, raggio e quantità di luce ricevuta, infatti, non abbiamo ancora i mezzi per analizzare in maniera esaustiva le atmosfere, le superfici e le composizioni geologiche dei pianeti extrasolari. Per questo molti ritengono prematuro, se non completamente superfluo, mettere in discussione il concetto di “zona abitabile” e abitabilità dei pianeti così come l’abbiamo formulata finora: finché non svilupperemo le tecnologie adatte, quello della zona abitabile sembra il migliore degli strumenti possibili.


Certo, bisognerebbe quantomeno mettersi d’accordo sull’effettiva grandezza di queste fasce. La definizione standard della zona abitabile attorno a una stella simile al Sole ha subìto nel corso degli anni diverse ridefinizioni a seconda del modello fisico utilizzato per le stime. L’ultima proposta di revisione di questi parametri è del dicembre scorso ed è stata avanzata dall’astrofisico Jérémy Leconte, del Pierre Simon Laplace Institute di Parigi, in un articolo pubblicato su Nature. Secondo i modelli utilizzati da Leconte e colleghi le dimensioni della zona abitabile sono per esempio molto più piccole delle stime utilizzate dalla missione Kepler, che aveva fornito una cifra probabilistica forse troppo ottimistica di 22 miliardi di pianeti simili alla Terra e potenzialmente abitabili, nella Via Lattea.


http://www.media.inaf.it/2014/02/05/dove-dobbiamo-cercare-la-vita-extra-terrestre/