mercoledì 30 novembre 2011

LA CROCE E IL POTERE

I cristiani da martiri a persecutori.
di Giovanni Filoramo.
È in un breve periodo, compreso tra l' editto di Costantino nel 313 sulla libertà di culto e il 380, quando Teodosio dichiara il cristianesimo unica religione ufficiale dell' Impero romano, che i cristiani da martiri diventano persecutori e la loro croce, fino a quel momento simbolo della passione e della morte di Cristo, diviene strumento di potere e controllo.
Giovanni Filoramo racconta questa straordinaria storia, fatta di conflitti sempre più violenti tra i seguaci dei culti pagani 
e i cristiani, di divisioni interne tra i vari gruppi cristiani in Oriente, in Europa e in Africa, di relazioni sempre più strette tra capi religiosi e capi del potere politico. Fino a quando la Chiesa cattolica, sconfitti nemici interni ed esterni attraverso una serie di persecuzioni, si affermerà come l'unico potere religioso dell'Impero.
Uccidere in nome di Dio: il caso di Ipazia
Figlia di un matematico e filosofo, Teone, di cui era stata discepola prima di succedergli nell’insegnamento, era, a un tempo, filosofa, matematica e astronoma (quindi verosimilmente astrologa) ed esperta nella costruzione di astrolabi e altre macchine, che amava far fabbricare ai suoi allievi. Il suo nome evoca un’idea di «eminenza », «acutezza», «suprema altezza».
Lo storico ecclesiastico Socrate – che ci ha lasciato la versione dei fatti della corte costantinopolitana, particolarmente critica nei confronti di Cirillo, ritenuto il primo responsabile della sua morte – ce ne parla in termini altamente elogiativi:
Era la figlia del filosofo Teone; grazie alla sua eccellente formazione, ella superava tutti i filosofi del suo tempo. Ella aveva ricevuto la successione della scuola filosofica di Plotino ed esponeva a chi lo voleva gli insegnamenti filosofici. Per questo tutti quelli che volevano istruirsi in filosofia accorrevano presso di lei. A causa della nobile liberta di parola che le derivava dalla sua educazione, ella si presentava davanti ai governatori con grande modestia, né vi era alcuna vergogna nel fatto che si trovasse (sola) in mezzo a degli uomini, dal momento che tutti la rispettavano e l’ammiravano a causa della sua castità fuori dal comune.
Quando mori, Ipazia doveva essere una donna matura, tra i 45 e i 60 anni (a seconda dell’ipotesi che si sceglie per la data diomini, dal momento che tutti la rispettavano e l’ammiravano a causa della sua castità fuori dal comune nascita). Ella era anche celebre per la sua bellezza. Cosi la descrive un suo ammiratore:
Quando ti vedo ti adoro, e quando ascolto la tua parola, avendo sotto gli occhi la Vergine e la sua dimora astrale. Poiché tu tocchi il cielo, augusta Ipazia, astro immacolato di un sapere pieno di saggezza.
L’insegnamento di Ipazia era pubblico, era cioe finanziato dalla citta e si svolgeva in locali appositi situati nel centro di Alessandria, probabilmente vicino al Museo. Il suo insegnamento filosofico consisteva, com’era tipico di queste scuole, nella lettura e nel commento dei rappresentanti più significativi della tradizione filosofica, da Platone e Aristotele a Plotino. Ma la forza dell’insegnamento di Ipazia era un’altra. In una lettera di raccomandazione per due giovani amici, espropriati dei loro beni, che Sinesio le indirizza, egli afferma: «Tu hai sempre avuto potere. Possa tu averlo a lungo, e possa tu di questo potere fare buon uso». Questo potere particolare, oltre che nel suo carisma personale che la rendeva un’insegnante particolarmente brillante, consisteva soprattutto nella sua capacita, in un’epoca che ormai si avviava a diventare cristiana anche nella cultura, di tener desto il modo di vita ellenico tradizionale, quella paideia che nei secoli aveva formato le élites dirigenti prima delle città greche, poi ellenistiche, infine del vasto Impero romano. Questa paideia era stata la molla profonda che aveva mosso Giuliano nel suo tentativo abortito di restaurazione del paganesimo, questa stessa paideia era stata al cuore della formazione culturale e del tentativo di sintesi con i valori cristiani operato da intellettuali come Basilio di Cesarea, Gregorio di Nazianzo e Gregorio di Nissa nella Cappadocia della fine del IV secolo. Questo ideale di vita, ormai al tramonto, in cui si fondevano la religione della cultura e lo scopo classico dell’educazione del cittadino alla areté, alla virtù che doveva servire di guida nella conduzione della vita pubblica, aveva trovato un’ultima incarnazione nella filosofa figlia di Teone.
Ipazia abitava in una villa privata ai margini della citta; la riceveva allievi e seguaci, svolgendo un insegnamento più privato ed esoterico, in linea con la tradizione misteriosofica inaugurata da Giamblico e cara a Giuliano. Come nel caso di Sinesio, ma probabilmente anche del prefetto Oreste, cio che univa la maestra ai suoi discepoli era un paganesimo filosofico, che, come si e visto, nel caso di un Sinesio poteva rivestirsi di una patina più o meno superficiale di cristianesimo. Questo era possibile perché ormai da secoli questo paganesimo delle élites non prestava più fede alle credenze popolari del politeismo, alle sue leggende e ai suoi miti, reinterpretati in chiave allegorica e accettati soltanto nella misura in cui legittimavano e fondavano il culto pubblico dell’Impero. Filosofi neoplatonici come Porfirio e Giamblico e imperatori filosofi come Giuliano avevano poi insegnato a collocare queste reinterpretazioni sullo sfondo di una visione del cosmo dominata da una divinità unica, che si manifestava nella molteplicità degli dei delle credenze popolari, ma prima ancora nella bellezza della volta del cielo. Ipazia coniugava dunque in sé, e agli occhi dei suoi allievi e ammiratori, le virtù del filosofo di tradizione platonica dotato di una solida formazione retorica e dialettica, con quei tratti più misteriosi e affascinanti che improntano il filosofo della tarda antichita, incline a stabilire un rapporto più diretto e personale con la divinita suprema e la sua schiera di dei, fino a spingersi a pratiche teurgiche e a iniziazioni misteriche.
Il successo di questo insegnamento privato, grazie al quale Ipazia esercitava un’influenza non indifferente sulle élites aristocratiche di Alessandria, fini inevitabilmente per attirare l’attenzione del patriarca di Alessandria, personalità autoritaria e intollerante di una forma di concorrenza cosi pericolosa da parte di una filosofa pagana, per di più bella e affascinante. I decreti teodosiani lo avevano designato come unico capo religioso legittimo della citta, lo stratega politico vincente nonché l’aspirante arbitro delle sue controversie dottrinali. Lo storico Socrate – che, certo, rispecchia il punto di vista avverso a Cirillo di una città che aveva fin dalla sua fondazione lottato contro il seggio episcopale di Alessandria, ma che proprio per questo era ben situato per cogliere la natura politica del conflitto – sottolinea la tendenza del patriarca alessandrino a erodere avidamente il potere di coloro che, come Oreste, lo esercitavano per conto dell’imperatore. Per lo storico costantinopolitano, Cirillo inaugura un episcopato ancor più simile, rispetto a quello di Teofilo, a un principato, dal momento che, a partire da lui, la carica episcopale di Alessandria comincio a condizionare il potere dello Stato oltre il limite consentito alla sfera sacerdotale. Era dunque inevitabile che egli dovesse prima o poi fare i conti con Ipazia e con il prestigio e la considerazione di cui godeva.
Cirillo era diventato patriarca nel 412. Poiché l’uccisione di Ipazia avvenne nel 415, dobbiamo dedurne che all’inizio Cirillo non vide in lei un concorrente pericoloso. Il suo problema era quello del controllo delle masse, dei numerosi pagani che, dal suo punto di vista, si ostinavano a rimanere tali nonostante le persecuzioni subite. Un giorno, pero, passando dalle parti dell’abitazione di Ipazia, Cirillo noto una casa di fronte alla quale era ferma una moltitudine di uomini e di carri; avendo chiesto quali fossero le cause di questo assembramento, gli fu risposto che si trattava della casa di Ipazia, e che ella vi stava parlando. Non e difficile immaginare l’invidia che il patriarca deve aver provato per la rivale. Anche se noi non abbiamo la prova materiale che fu lui a commissionare direttamente il suo omicidio, tutto lascia pensare che fu in una circostanza di questo tipo, roso dall’invidia, che egli decise di compiere, come lo definisce un filosofo antico, Damascio, il «crimine più sacrilego di tutti». Attaccando ed eliminando Ipazia, Cirillo colpiva al cuore anche le élites pagane o superficialmente cristiane di Alessandria, che rifiutavano di subordinarsi al suo potere ierocratico. In particolare, colpiva colei che da certi cristiani veniva considerata la causa della mancata riconciliazione del prefetto con Cirillo. Giravano evidentemente voci che il suo insegnamento privato, considerato da alcuni alla stregua di pratiche magiche – o meglio teurgiche – aveva «stregato» il prefetto, trasformandolo in un nemico di Cirillo. Per riconciliare Oreste col patriarca, occorreva eliminare questa teurga pagana.
Fu ordito un vero e proprio complotto, guidato da un certo Pietro il lettore, un chierico al servizio del patriarca. Degli uomini «dallo spirito acceso», – racconta Socrate, che ci fornisce la versione più accurata e attendibile della sua morte – guidati da Pietro, le tesero un agguato mentre rientrava a casa:

Dopo averla tirata giù dalla carrozza, la trascinarono alla chiesa che prende il nome dal cesare imperatore (Kaisarion) e, dopo averla spogliata degli abiti, la massacrarono usando cocci aguzzi e la fecero a brandelli. Fatto a pezzi il cadavere, dopo aver portato quei resti in un luogo denominato kynaron, li bruciarono. E fu una non piccola infamia questa compiuta da Cirillo e dalla chiesa di Alessandria. Perché assassini e guerriglie e cose simili sono qualcosa di totalmente estraneo allo spirito di Cristo.
Gli ostraka con cui viene uccisa Ipazia sono cocci taglienti di terracotta, provenienti da vasi o tegole, tipiche armi improprie di miliziani clericali, cui sotto il dominio romano, come a tutti, era proibito circolare armati. Il modo in cui viene uccisa varia a seconda delle fonti: o scorticata viva, il supplizio capitale riservato nell’antichità ai grandi eretici; o letteralmente fatta a pezzi, secondo la pena comminata sia ai colpevoli di stregoneria e di magia sia alle prostitute; o infine smembrata in forma rituale, ossia anche eviscerata, secondo l’arcaica prassi del sacrificio: nel qual caso le sarà anche stato strappato il cuore. Ipazia diventava cosi la vittima sacrificale – secondo un antico modello di sacrificio di fondazione – su cui poter costruire l’edificio del dominio incontrastato del patriarca.
L’uccisione di Ipazia costituisce un caso eccezionale nel contesto della lotta al paganesimo portata avanti da vescovi e monaci con l’appoggio delle autorita imperiali, che di conseguenza non va indebitamente generalizzato. Che nella millenaria storia delle innumerevoli reinterpretazioni che questo tragico evento ha conosciuto Ipazia sia a un certo punto assorta ad eroina del libero pensiero, a protomartire di una «chiesa» laica assalita da una Chiesa cattolica che perseguita eretici e liberi pensatori come Giordano Bruno, ci rivela piuttosto il retroterra ideologico di queste interpretazioni, ma falsa la realtà storica. D’altro canto, per quanto eccezionale, perché legato a una città particolare come Alessandria e a una personalità cosi ossessionata dalla conquista del potere come Cirillo, non per questo esso va sottovalutato. Il seme del fanatismo e dell’intolleranza che lo ha generato, e che si manifesta nel modo più fosco e truculento nei parabalani che fanno scempio del suo corpo, una volta gettato, era destinato a crescere.


Giovanni Filoramo, La croce e il potere. I cristiani da martiri a persecutori, pp. 388-392