lunedì 12 dicembre 2011

LE MAMME PERDUTE DEL SINAI. «IL NOSTRO INFERNO TRA I PREDONI»

Stupri e torture: i racconti delle africane vittime dei trafficanti.
TEL AVIV - È pomeriggio, ha smesso di piovere, ma questa donna nella camera in fondo è ancora a letto, nell'odore acre di chiuso e abbandono, dentro il fumo irrespirabile di un fornello a gas acceso nella prima stanza, vicino al materasso. «Devi far prendere aria al piccolo», dice Michal, l' assistente sociale, a una ragazza che siede accanto a un fagotto di pochi mesi. Lei non capisce. Due bambine che corrono tra le pozzanghere in sandali più grandi dei loro piedi vengono chiamate per tradurre.
 La ragazza annuisce, ma non si muove. Michal sospira: «È una situazione così difficile...».
Venticinque letti ricavati dall' Ong Ardc in una struttura bassa nel quartiere più povero di Tel Aviv per altrettante donne. Ognuna con uno o più bambini, tante con una pancia di mesi, l'ultimo parto tre settimane fa, una femmina. La gran parte vittima di stupri, ripetuti e feroci, da parte dei beduini che le hanno tenute segregate nel Sinai, lungo il percorso per Israele. La tappa finale di un viaggio che inizia in Eritrea, passa per il Sudan, arriva in Egitto; e che da anni lascia migliaia di migranti in balìa di ex contrabbandieri ora trafficanti di esseri umani.

Dalle donne è cominciato tutto. «Le rapivano per violentarle, poi hanno capito che potevano chiedere soldi». Davanti al computer, nella sede dell'associazione Hotline for migrant workers , Sigal Rozen parla, beve caffè, non perde di vista il telefono. «Anche stamattina mi hanno chiamato: "Manda la polizia, ti prego!"». Le si incrina la voce. «"Dove siete?", ho chiesto. "In un container sottoterra", ha risposto l'uomo. Sono così vicini...». Ma è l'altro lato del confine, in Egitto, che può fare? Ong israeliane, associazioni internazionali, l'Alto commissariato Onu per i rifugiati, hanno tutti raccolto cifre, prove, testimonianze. L'ultimo rapporto dice che oggi, in questo momento, 350 persone, donne e bambini compresi, sono in attesa di riscatto o di aiuto.

Dal 2006, 46 mila profughi africani, il 90 per cento eritrei e sudanesi, sono entrati nello Stato ebraico attraverso il Sinai. Al principio, piccoli gruppi; dopo i respingimenti italiani e la guerra in Libia, un'onda crescente. Solo nel 2010 sono stati 14.735; nel 2011 fino al 6 novembre Hotline ne ha contati 12.407. Almeno la metà ha una storia atroce di torture, abusi, reclusioni in condizioni disumane che finiscono solo con il pagamento di cifre spaventose per chi è scappato dalla fame, oltre che da violenze e dittature.

«Mai pensato di venire in Israele - dice Temesghen, 33 anni, alla clinica di Physicians for human rights (Phr) a Jaffa -. Se avessi saputo che cosa mi aspettava, non l'avrei fatto». Eritreo, ha subito le prigioni libiche, ha tentato quattro volte di partire per Lampedusa, non c'è riuscito. Quindi, s'è avviato verso Est ed è caduto nell'inferno del Sinai: «Ci picchiavano ogni giorno con tubi e bastoni, ci minacciavano: se non pagate vi prendiamo gli organi». Tutti riferiscono di un particolare accanimento dei carcerieri musulmani sugli eritrei cristiani, e allo stesso tempo di un uso incontrollato e poco islamico di alcol e droghe.

Sigal, come altri attivisti, conosce i nomi delle tribù che dirigono i traffici, e persino dei loro capi: Samieh detto Abu Musa, tra gli altri. Ma indicare un punto preciso nella terra di nessuno oltre il Negev è affare da militari e competenza degli egiziani. «Loro lo sanno - dice -. Un uomo che hanno cosparso di benzina, bruciato e poi bagnato perché non morisse è stato liberato, ma non riusciva a camminare: ha raggiunto il confine strisciando per mezzo chilometro. Vuol dire che sono qui - allunga il braccio - a 500 metri di distanza da Israele!». Ma nessuno va a prenderli.

Pure Zemen ha passato la frontiera reggendosi sulle ginocchia. L'hanno torturato per ottenere numeri di telefono di qualcuno che pagasse per lui 20 mila dollari. «Mi dicevano: se muori meglio, i tuoi reni valgono di più. Sono stato sei mesi legato, quando hanno tagliato le catene non riuscivo a muovermi». Adesso è convalescente a Newe Shalom, ospite di una famiglia israeliana, padre, madre e tre figlie. Parlano a segni e sorrisi, funziona. Quando Suor Azezet Kidane, comboniana eritrea, gli fa visita, lo trova incredibilmente migliorato. Il padrone di casa conferma: «Ha un buon appetito...».
Suor Azezet è indispensabile. È grazie a lei che le associazioni per i diritti umani sono riuscite a mettere insieme un dossier inappellabile. Due volte alla settimana si reca nella clinica di Jaffa per fare da interprete con i malati, ma soprattutto per aiutare nella raccolta dei dati. Ogni nuovo arrivato, un questionario. Quanti mesi sei stato prigioniero? Quanto hai pagato? Ti hanno sparato? Una bellissima ragazza di ventun'anni che sembra sul punto di partorire annuisce: ha attraversato il confine da poche settimane, superata la rete è svenuta, per stanchezza e paura. La polizia di frontiera egiziana mira ad altezza d'uomo.

I medici della clinica di Phr sono stati i primi a capire che qualcosa di orribile accade nel Sinai. «Arrivavano sempre più frequentemente persone con problemi ortopedici, soprattutto registravamo un preoccupante aumento di disturbi ginecologici e richieste d'aborto - spiega il direttore dell'Ong, Ran Cohen -. All'inizio erano casi individuali, adesso è chiaro che è un sistema: almeno un profugo su due riferisce di abusi».
Ed è pure «una questione economica», aggiunge il responsabile dell'Unhcr a Tel Aviv, William Tall. Un enorme giro d'affari. Le tribù nomadi che dal Sudan fino al Sinai truffano, rapiscono, vendono e comprano esseri umani a migliaia. Poliziotti e militari corrotti. E all'arrivo in Israele un bacino di manodopera in nero, con l'ansia di tirare almeno 12 ore di lavoro al giorno per ripagare i debiti del viaggio. Se ai primi migranti estorcevano 2-3 mila dollari, i prezzi del rilascio hanno raggiunto i 20 mila. Senza nessuna garanzia di sopravvivenza. E con una prospettiva di fatica e povertà.

Nella foschia della sera Lewinsky Park, a sud di Tel Aviv, si popola di fantasmi. «Tanti vengono a dormire qui, all'aperto», indica le sagome scure Sara Robinson, di Amnesty International. Israele ha firmato e non ha ratificato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati: ne rispetta la spirito, ma è a disagio con un'immigrazione non ebraica che minaccia il delicato equilibrio demografico. Ieri il consiglio dei ministri ha varato uno stanziamento di 160 milioni di dollari per completare la barriera al confine e allargare il centro di detenzione per i clandestini. Sara spiega un meccanismo complicato per cui gli eritrei non hanno status di rifugiati, ma una sorta di «libertà condizionata» da rinnovare periodicamente. Una protezione che però non dà accesso ai diritti.
Un uomo alterato dall'alcol in un bar frequentato da eritrei si lamenta e dice: «Non ci accettano, né ci mandano via».
Alessandra Coppola
12 dicembre 2011 | 8:43