sabato 3 dicembre 2011

IL DIRITTO DI MORIRE

Io son nato, quasi certamente, 76 anni fa. Dico “quasi”, perché, ovviamente, devo fidarmi dell’ atto di nascita, e di mio padre che ne fece allora la denuncia (con la firma di un testimonio). Suppongo che il mio concepimento sia avvenuto in seguito ad un atto d’amore e di piacere, e forse anche con l’ intendimento di avere un figlio ma ancora non ne son sicuro, giacché i miei genitori ne avevano già tre di figli (femmine); d’altra parte, due anni dopo ne ebbero un altro (femmina). In tutto cinque. Credo proprio che babbo e mamma ci provassero gusto.
Da bambino non ho mai capito che ci stessimo fare al mondo, io, il sole, le stelle, le piante, e tutto il resto. Ma neppure adesso non lo so. Ho studiato, mi sono laureato, ho lavorato, mi son sposato, ho due figli e due nipoti, ma neanche adesso, che ho appena compiuto 76 anni (il 16 settembre, grazie degli auguri), non mi rendo conto del perché. Eppure conosco un bel numero di persone, di amici, che conoscono il perché. Citano la Bibbia, i Vangeli, alcune il Corano o altre religioni, e lì, mi dicono, si trovano le ragioni misteriose della vita dell’uomo e dell’universo: tutto è opera di Dio. Non mi convincono le loro spiegazioni. Allora mi replicano: dimostraci il contrario, dimostra tu che Dio non esiste. Ma com’è possibile dimostrare l’inesistenza di una cosa che non c’è?

Insomma, non c’è niente da fare; sennonché, alcuni (molti) di questi credenti pretendono che anche coloro che non lo sono (come me, per esempio), debbano adeguarsi alle loro concezioni di vita: specialmente i musulmani e, in Italia, i cristiani cattolici. E così dovrei credere che dopo qualche giorno dalla formazione dell’embrione del sottoscritto, nato dalla gioiosa copula dei miei genitori, mi si formò anche l’anima (anemos, il “soffio” divino), che anche adesso, un po’ invecchiata (forse) dovrebbe pervadere il mio malandato corpo.
Insomma, che volete che vi dica: non ci credo – ma rispetto quelli che invece professano una religione, purché non costringano gli altri, con le buone o (spesso) con le cattive, ad adeguarsi alle loro convinzioni.
Propongo, come esempio, un caso particolare, che potrebbe riguardarmi personalmente ora o tra non molto: la malattia, la sofferenza della malattia e del modo di morire; l’eutanasia, il suicidio. Le soluzioni, al riguardo, possono essere riassunte in due posizioni.
1) La Chiesa ufficiale sostiene che la vita è un dono di Dio, e nessuno, per nessun motivo, può toglierla a se stesso o ad altri. Molti credenti sono fanatici seguaci di Santa Madre Teresa di Calcutta, che propugnava il culto del dolore: perché il dolore avvicina a Dio, perché Gesù sulla croce ha sofferto, perché chi sta male si guadagna il Paradiso.
2) Shakespeare, nel celebre monologo di Amleto, afferma invece che solo il timore che dopo la morte ci sia qualcosa d’inesplorato e di terribile c’impedisce di toglierci la vita, per non sopportare un’esistenza piena di dolori morali e fisici. Altrimenti il disgraziato si toglierebbe la vita.
La soluzione, a questo punto, sembrerebbe semplice e, per così dire, pacifica.
1) Chi è credente ed è convinto del potere salvifico della sofferenza porti pure il cilicio fino alla morte: purché non lo imponga agli altri.
2) Chi, invece credente non è, perché non può utilizzare, nei casi estremi, l’eutanasia (euthanatos, la buona morte) o, se nessuno può dargliela, il suicidio?
Quand'io messo sulla bilancia le cose positive e quelle negative della mia vita e constato che non ho più la forza e la voglia di sopportare quest’ultime, ho tutto il diritto di risolvere autonomamente la mia esistenza. Se mi rendo conto che le mie condizioni fisiche e psichiche non reggono più, che non possono più esser di giovamento a nessuno, ma anzi sono di peso; oppure, stremate dalla malattia, mi costringono ad una vita sul letto, imbottito di farmaci e assillato da cure che attenuano un po’ il dolore e rallentano soltanto la mia fine e indeboliscono il fisico e anche, spesso, l’intelletto; condizioni che costringono pure i miei parenti ed amici ad una penosa assistenza lunga e crudele per me e per loro, che anch’essi sanno inutile fino alla conclusione inevitabile: perché dunque, chiede Amleto, «sopportare le frustate e gli insulti del tempo (…) quando di mano propria potrebbe saldare il suo conto con due dita di pugnale?».
Certo, se ci fosse una legge civile, invece del pugnale si potrebbe concepire una morte più dignitosa, più dolce, che somigli al sonno: «Morire, dormire. Nient’altro. E con quel sonno poter calmare i dolorosi battiti del cuore, e le mille offese naturali di cui è erede la carne! Quest’è una conclusione da desiderarsi devotamente. Morire, dormire».
Ma in un Paese di bigotti, uno dovrà impiccarsi o gettarsi dalla finestra o sotto il treno a meno che non incontri un medico coraggioso e misericordioso che gl’inietti (illegalmente) un po’ di morfina (solo, però, allo stadio finale).
Sergio Puxeddu
(1 dicembre 2011)