giovedì 20 giugno 2013

La morte ci fa belli

Cragun
Sui non credenti girano tante leggende metropolitane, diffuse spesso dagli integralisti religiosi. Sono talvolta descritti dai testi sacri e dagli apologeti come amorali, insensibili, gretti, infelici. Nonché terrorizzati dalla morte, come racconta l’aneddotica — spesso apocrifa — che li vorrebbe invocare Dio alla fine della vita. Un libro interessante per sfatare i miti che esaltano i credenti a scapito di atei e agnostici, con molti dati alla mano e ricerche citate, è What You Don’t Know about Religion (but Should) del sociologo Ryan T. Cragun. Qual è ad esempio il rapporto dei non credenti rispetto alla morte? Il blog Friendly Atheist riprende il libro di Cragun che tratta la questione, riportando considerazioni interessanti.

"siamo animali sociali e incorporiamo i nostri cari in noi stessi"

Cragun parte dalla sua esperienza personale di ex mormone diventato ateo e della scomparsa dei suoi cari. Mentre i parenti elaboravano il lutto credendo che la persona scomparsa vivesse un’altra vita nell’aldilà, lui l’ha fatto accettando prima di tutto l’inevitabilità della morte. Nel caso del fratello, poteva sopportarne la scomparsa sapendo che non avrebbe più sofferto (analogamente a quanto sosteneva Epicuro). Si è anche impegnato a ricordarlo e celebrarlo, ad esempio scrivendone. Cragun ha inoltre dovuto comprendere che la ragione per cui la perdita è difficile da affrontare risiede nel fatto che “siamo animali sociali e incorporiamo i nostri cari in noi stessi“. Dal suo punto di vista, “aggiungere domande riguardanti la sorte eterna sembra rendere l’elaborazione più difficile, non più facile”.
 
Secondo lo studioso, sempre più ricerche sembrano supportare l’idea che i non religiosi riescano più facilmente ad affrontare la morte rispetto ai credenti. Gli increduli sembrano meno preoccupati, meno propensi a usare mezzi invasivi per allungare la propria vita in situazioni disperate e meno ansiosi durante l’agonia, sebbene ciò appaia “straordinariamente controintuitivo”. I credenti sono convinti che ci sia un’altra vita dopo la morte e questo si ritiene li renda più sereni, ma accade che siano più incerti su dove andranno a finire. Nessuno di loro può essere sicuro al cento per cento di ritrovarsi in paradiso.

Dando un’occhiata ai dati del World Values Survey che riporta, si nota che più si considera la religione importante e più si è portati a pensare alla morte. Ci si chiede se essere religiosi infonda una maggiore paura della morte o se è la concreta paura della morte che porti la gente a essere religiosa. Cragun, sulla scorta di altri studiosi, propende per la seconda ipotesi, sebbene sia difficile dare una risposta definitiva.
 
"la religione talvolta può anche peggiorare l’elaborazione del lutto"

Le ricerche suggeriscono inoltre che la religione possa aiutare ad affrontare in generale i traumi, come la morte, perché fornisce “spiegazioni, giustificazioni o razionalizzazioni” (a prescindere se siano fondate o meno) e la speranza di ricongiungersi ai propri cari. Ma la religione talvolta può anche peggiorare l’elaborazione del lutto, perché può capitare che alcuni diano la colpa a Dio e ritengano di essere stati puniti da lui, oppure cadano in uno stato di angoscia perché sono incerti sulla sorte del defunto. Basti pensare alla credenza per cui i bambini non battezzati finiscono all’inferno, secondo la dottrina ribadita senza compromessi nel corso dei secoli dalla Chiesa cattolica, solo recentemente stemperata e resa più vaga.
 
Cragun conclude che “anche in un ambito dove la religione è largamente considerata come un considerevole aiuto per le persone, può essere problematica”. Non è la prima volta che qualcuno evidenzia il miglior approccio dei non credenti alla morte: già diversi medici l’avevano notato e tra essi diversi italiani, come Umberto Veronesi. L’inchiesta suffraga tali sensazioni. Sarà perché sono quasi sempre abituati a concepire la propria vita con un termine, atei e agnostici sembrano saperla affrontare meglio. Sembrano anche saperla sfruttare meglio prima. Che la demonizzazione della loro etica compiuta da così tanti credenti sia solo la spia di una diffusa invidia?