venerdì 24 maggio 2013

Perché Veronesi (e gli altri scienziati) non credono al metodo Stamina

Perché Veronesi (e gli altri scienziati) non credono al metodo Stamina.

L’approvazione della legge per mettere alla prova il protocollo terapeutico Stamina segue lo stesso iter della famosa cura Di Bella. E questo preoccupa molto gli scienziati.

C’è molta preoccupazione nella comunità scientifica per l’approvazione da parte del Parlamento italiano della legge che avvia una sperimentazione pubblica del protocollo sviluppato dalla Stamina Foundation per la cura di alcune malattie attraverso iniezioni di cellule staminali. Preoccupazioni che nascono dal fatto che non si tratta affatto di una novità: era il 1998 e allora, sotto la pressione popolare, il governo italiano decise di sottoporre a verifica la terapia sviluppata dal professor Luigi Di Bella per la cura del cancro (di tutti i tipi di cancro). Di Bella era uno scienziato, un fisiologo per l’esattezza, che aveva iniziato a fare esperimenti in casa propria una volta andato in pensione, al termine di una carriera all’Università di Modena. Aveva sviluppato un cocktail di sostanze che somministrava a diversi pazienti per curare i tumori. La Commissione Oncologica Nazionale l’aveva bollata come priva di effetti, ma i pazienti di Di Bella sostenevano il contrario. Così, sotto la spinta di milioni di cittadini attratti dalla speranza che un oscuro medico italiano avesse trovato la cura per il cancro, il governo decise di provarla. Un metodo terapeutico, per essere accettato dalla comunità scientifica, dev’essere sottoposto a trial clinico seguendo parametri molto stringenti. Il metodo Di Bella non ebbe esiti positivi. Solo lo 0,8% dei pazienti riscontrò qualche miglioramento, considerato del tutto statistico. La stragrande maggioranza, quasi 600 pazienti, morirono nel giro di un anno. Sono questi i dati che preoccupano gli scienziati, tra cui il professor Umberto Veronesi che ha espresso perplessità sul metodo Stamina pur ricordando che non c’è nulla di male ad ampliare le sperimentazioni con le staminali.

“Stamina” e staminali non sono la stessa cosa


I due concetti sono infatti del tutto diversi. Le cellule staminali rappresentano, senza dubbio alcuno, la più promettente frontiera della medicina moderna. Le potenzialità terapeutiche sono enormi e le ricerche procedono a passo spedito. Il passo spedito della ricerca scientifica non è tuttavia quello che immaginiamo. La scoperta delle staminali pluripotenti indotte, che ha rivoluzionato il settore, risale appena al 2006. Dalla scoperta alle applicazioni pratiche possono passare decenni, perché una cosa è scoprire come funziona il meccanismo, un’altra è riprodurlo “a comando” in modo controllato e sicuro. Anche una volta scoperta un’applicazione terapeutica, non la si può provare direttamente sui pazienti. Non conoscendo gli effetti collaterali, che potrebbero essere anche più gravi della malattia che s’intende curare, bisogna prima fare test in laboratorio (in vitro), poi sugli animali, e quindi su pazienti controllati. Ciascuno step può durare anni, perché deve rispettare protocolli rigorosissimi, vagliati poi dalla comunità scientifica prima di passare allo step successivo.

La Stamina Foundation ha cercato di bruciare le tappe. Con i tumori non c’entra nulla, a differenza di quanto molti credono: le iniezioni di staminali mesenchimali adulte vengono effettuate a pazienti come malattie neurodegenerative, allo scopo di sostituire le cellule danneggiate con cellule nuove. Ma la filosofia alla base è identica a quella Di Bella. Si somministra a dei pazienti una terapia che non è passata al vaglio della comunità scientifica. Certo, se questa terapia non uccide, si è liberi di applicarla e i pazienti sono liberi di provarla. Ma non la si può definire “scientifica” se non è prima passata per un trial clinico: è quello che il governo italiano ora farà con la legge approvata in Parlamento, così come accadde nel 1998-99 con il protocollo Di Bella. Solo allora, prove (e cartelle cliniche) alla mano, si potrà stabilire se il metodo funziona. Finora, non c’è nulla che faccia presagire miracoli. Nessun paziente è guarito dalle malattie trattate con le staminali mesenchimali prodotte dalla Stamina Foundation. Il caso mediatico della piccola Sofia non è una guarigione, ma solo un minimo miglioramento che certo alimenta le speranze ma poco più: una rondine, dicevano i nostri nonni (più saggi, a quanto sembra, di noi), non fa primavera.

I complottisti contro Big Pharma


Dall’estero sono piovute condanne pesanti. Premi Nobel e prestigiose riviste scientifiche hanno condannato il comportamento del governo italiano, che non avrebbe dovuto accettare di spendere milioni di euro in una sperimentazione che si rivelerà inutile e deleteria per i pazienti. Il rischio non è tanto quello di andare incontro a gravi effetti collaterali (i protocolli sanitari vigileranno in tal senso), ma quello di alimentare false speranze nei pazienti e nei loro familiari. Già oggi cresce l’entusiasmo in Rete su quella che per la maggioranza degli italiani è la cura a tutti i mali. L’assoluta convinzione che il metodo Stamina (o “metodo Vannoni”, dal nome del suo sviluppatore, Davide Vannoni, fondatore nel 2009 della Stamina Foundation) si appresti a svuotare gli ospedali si basa unicamente su un servizio di una trasmissione televisiva che non si occupa di scienza, ma di inchieste scandalistiche, e sul passaparola su Facebook.

Dov’è la scienza? Per molti, è impegnata unicamente a mettere i bastoni tra le ruote ai medici “alternativi”. Veronesi e i suoi colleghi sarebbero parte di un complotto mondiale portato avanti dalle case farmaceutiche di mezzo mondo per tenere la cura del cancro chiusa in una cassaforte, e continuare a vendere costosissimi e inutili farmaci. Che esista un problema “Big Pharma” (come è noto il sistema delle grandi compagnie farmaceutiche mondiali), è indubbio; ma non ha nulla a che fare con presunti complotti di sterminio globale. La verità è ben diversa. In pochi si mettono nei panni dei milioni di medici e ricercatori di tutto il mondo, impegnati silenziosamente in ricerche fondamentali e costretti spesso a lottare con la mancanza di finanziamenti. Vedere ora che un’oscura fondazione privata, solo grazie ai riflettori di una trasmissione televisiva, abbia ottenuto 3 milioni di euro per una sperimentazione pubblica, non può non produrre delusione e scoraggiamento in chi magari per anni ha atteso invano quei soldi per effettuare trial clinici di terapie probabilmente più promettenti. C’è poco da lamentarsi, poi, se i nostri migliori ricercatori decidono di fare le valigie per lavorare all’estero.

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