lunedì 2 luglio 2012

Non sul mio corpo

In Turchia servono figli per far crescere la nazione, e chi non li vuole complotta contro il Paese. Il premier Erdogan spacca il fronte dei laici con la proposta di modificare la legge sull’aborto. Insorgono le donne: «Non vogliamo il governo nelle nostre camere da letto». E nemmeno la religione

A 21 anni, Aysegül ha le idee chiare: «Il mio corpo appartiene solo a me, non al governo o a qualcun altro. Il primo ministro sta reprimendo le donne con uno stile di vita diverso, proprio come in passato erano represse le donne col velo». Il sole già estivo di Istanbul che arroventa la più grande manifestazione delle donne turche per difendere il diritto all’aborto non dà tregua. Ma non basta certo a fermare le migliaia che, come Aylin e Özge, urlano: «Non vogliamo il governo nelle nostre camere da letto». La loro è una battaglia difensiva: a trascinarcele è stato il premier Recep Tayyip Erdogan, che il 25 maggio ha rilanciato il dibattito con un’entrata a gamba tesa: «L’aborto è omicidio. Se uccidi un bambino nel ventre o dopo la nascita, non c’è differenza».


In pochi giorni, il colore viola delle manifestazioni ha invaso Istanbul e Ankara. Una mobilitazione massiccia testimoniata anche dalla campagna “Say no to abortion ban”, cui hanno già aderito 331 organizzazioni turche e 209 dall’estero e che fa appello al sostegno internazionale. Del resto i toni usati dalla maggioranza conservatrice del partito di ispirazione islamica Akp, al governo dal 2002, non potevano che portare a una spaccatura. Il ministro della Salute Recep Akdag, per esempio, con un infelice richiamo alla Bosnia ha suggerito che nei casi di stupro «sarà lo Stato a farsi carico di quei bambini», mentre Melih Gökçek, sindaco della capitale Ankara, si è spinto a dire che le donne che abortiscono «farebbero meglio a uccidersi». Ma perché Erdogan si è lanciato in una campagna che secondo molti sondaggi non ha neppure il favore della maggioranza dei turchi?Lui l’ha spiegata come la reazione a «un piano furbo per eliminare la Turchia dal palcoscenico globale». Insomma, un complotto contro lo sviluppo della nazione, che della spinta demografica fa uno dei suoi punti di forza rispetto all’Occidente a crescita zero. Sedicesima economia al mondo, con una crescita del Pil lo scorso anno seconda solo a quella cinese, la Turchia vuole entrare nel G10 entro il 2023, centenario della Repubblica. E per riuscirci punta moltissimo sul dinamismo di una popolazione che ha già sfondato la soglia dei 78 milioni con una crescita annuale dell’1,5 per cento: un quarto dei turchi non ha ancora superato i 15 anni, mentre quelli con più di 64 non arrivano al 10 per cento.
Il complotto, quindi? «Sono un primo ministro che è contrario ai parti cesarei», insiste Erdogan, spinto dalla convinzione che diminuiscano la fertilità delle donne. Gli fa eco la ministra per la Famiglia Fatma Sahin: «Per l’Organizzazione mondiale della sanità il tasso medio di cesarei è del 15-20 per cento, mentre in Turchia lo pratica una donna su due». Non c’entra solo la religione, insomma. Ma nel dibattito non è mancata la voce della massima autorità islamica turca, il capo della direzione per gli Affari religiosi (Diyanet) Mehmet Görmez: «Come la madre e il padre non hanno diritti di proprietà sul bambino, non hanno neppure l’autorità per porre fine sua vita. Quindi non possono dire “il corpo è mio, posso usarlo come voglio”». Non possono più. Perché queste parole rappresentano un passo indietro rispetto al suo predecessore, che aveva approvato la legge del 1983 che permette l’interruzione di gravidanza fino alla decima settimana. Ora il rischio è di tornare alle politiche di crescita demografica che fino al 1965 etichettavano l’aborto come “crimine contro la razza”: il ddl allo studio del governo prevede di ridurre il limite legale a 4 settimane rendendolo, di fatto, impossibile.

Eppure con la legge del 1983 la Turchia ha eliminato le “mammane”, e tra il 1993 e il 2008 il numero di aborti è calato a circa 14 ogni mille partorienti, contro la media europea di 27. Come si spiega allora la “sparata” di Erdogan? Più d’uno ipotizza che dietro si nasconda la volontà di distrarre l’opinione pubblica dal “massacro di Uludere” del dicembre 2011, quando 34 civili curdi sono stati uccisi dall’esercito di Ankara perché scambiati per ribelli del Pkk. Un obiettivo che il premier ha perseguito a modo suo, rovesciando il punto di vista: «Ogni aborto per me è un Uludere».
Sul corpo delle donne turche si combatte ogni giorno. Lo chiariscono i numeri della mattanza silenziosa che le fa vittime di una società maschilista ancora brutale: centinaia di donne assassinate ogni anno, secondo alcune stime cinque al giorno. Quasi sempre, per mano di mariti o familiari. La polizia parla di una violenza ogni dieci minuti. E le ong che studiano il problema indicano che il 15 per cento delle turche ha subìto almeno un abuso sessuale. Cifre di una vergogna riconosciuta come un’emergenza dallo stesso governo di Ankara, che non a caso è stato il primo al mondo a ratificare la convenzione del Consiglio d’Europa sulla violenza contro le donne.

Però le cose non sono migliorate granché. «Fino a una settimana fa nella nostra agenda c’era il femminicidio, adesso parliamo del divieto di aborto. Il governo ci ha portato a questo punto», attacca Orhan Cerav, portavoce dell’associazione Rahatsız Erkekler (Uomini arrabbiati). Nella graduatoria del World economic forum sul divario di genere la Turchia è addirittura 126esima (su 131 Paesi). Nonostante la rapidissima crescita, oggi solo una donna su quattro lavora e il tasso di matrimoni minorili per le ragazze è ancora al 32 per cento. E la diseguaglianza resta ancora forte anche nei contesti più colti: i rettori donna sono 9 su 165, i giudici appena il 25 per cento dei 7.600 totali. E la rappresentanza parlamentare non arriva al 15. Spiega Sibel Gönül, deputata dell’Akp alla guida della Commissione sulle pari opportunità: «Per me, il settore principale in cui la Turchia deve migliorare è il ruolo delle donne nei meccanismi decisionali».

Ancora all’inizio di questa legislatura nel Parlamento di Ankara le donne non potevano indossare i pantaloni, e l’ennesimo tentativo di emendare il regolamento era rimasto bloccato tra le secche del voto più conservatore. Poi, a violare il divieto è arrivata la coraggiosa deputata di opposizione Safak Pavey, la prima disabile eletta in Turchia: con una protesi al posto di una gamba, non hanno proprio potuto dirle di no. Una battaglia vinta sul corpo di una donna.

http://www.left.it/2012/06/29/non-sul-mio-corpo/4749/