L’Europa cancella il film che doveva raccontare la storia delle donne afghane rinchiuse in prigione
“Potrebbe danneggiarle”: questa la giustificazione che l’Unione Europea adduce per la cancellazione di “In-Justice: The Story of Afghan Women in Jail”, un film che era stato finanziato (con 70mila euro di budget) per raccontare le terribili storie delle prigioni dell’Afghanistan piene di donne detenute per crimini fra i più diversi; per lo più creati dalla restrittiva legislazione islamica nei confronti appunto delle donne. Detto così è un po’ asettico, ma parliamo di storie vere, e tragiche.
LE DONNE AFGHANE – “Una donna è in prigione per 12 anni”: la sua colpa, “aver subito uno stupro”. Come è noto, la violenza sessuale ricade sulla donna: se stava attenta, se stava a casa, se non provocava l’uomo, non le sarebbe successo niente; ancora: “Un’altra donna è in galera per essere fuggita da un marito che la maltrattava”. Abbandono del tetto coniugale, imperdonabile: “Entrambe dicono di voler raccontare le loro storie”, scrive oggi il Washington Post, e il film finanziato dall’Unione Europea avrebbe certo aiutato: ma è stato, invece, cancellato. “Il pericolo per le donne che sono state riprese e hanno parlato è davvero concreto”, dice l’Unione nel decidere che il film non venisse cancellato. “Bisogna mostrare quanto è orribile il sistema di prigionia afghano”, hanno replicato le organizzazioni non governative che spingono invece perché il film venga mostrato, visto che la metà delle donne prigioniere in Afghanistan sono detenute, come dicevamo “per crimini morali”, quello che in lingua afghana si chiama “zina”.
DIFFICILI STORIE – Parliamo di storie non facili. “Una delle donne è una 19enne che è stata violentata e messa incinta da un cugino. Non era sposata e ha sulle spalle una sentenza di 12 anni”, scrive il Washington Post. “Poteva uscire di prigione se avesse sposato il suo violentatore”: si è rifiutata, è stata incarcerata e ha partorito in cella dove ora crescerà sua figlia.