Se Einstein è stato l'icona scientifica della prima metà del Novecento, Watson e Crick lo sono stati della seconda. Dei tre, l'unico ancora vivo e vegeto è James Watson, che quando fece nel 1953 la scoperta della struttura a doppia elica del Dna non aveva che 25 anni. L'essere salito sul piedistallo più alto così giovane, e il possedere un carattere schietto e provocatorio, l'hanno reso fin da subito un "enfant terrible". Per sessant'anni le sue prese di posizioni sulle questioni più disparate hanno, a seconda dei casi e delle disposizioni di chi ascoltava, divertito, interessato, stimolato, seccato o infuriato. Probabilmente lo faranno anche le risposte a questa intervista, in cui Watson, ormai non più "enfant", ma sempre "terrible", non edulcora le sue opinioni su argomenti controversi, che vanno dalla religione alla politica.
Lei ha ricevuto un'educazione religiosa?
"Mia madre era formalmente cattolica. E mia nonna, che viveva con noi, lo era devotamente. Io ho fatto la prima comunione e la cresima. Poi ho preferito sfruttare la domenica per andare a osservare gli uccelli con mio padre, invece che in chiesa con mia madre".Suo padre era ateo?
"Sì, dall'adolescenza. Per questo la fede non ebbe un grande impatto nella nostra famiglia. Non ricordo che ci siano mai state discussioni sulla religione: veniva considerata come qualcosa di sorpassato".
Non è mai stato intrigato, come il giovane Darwin, dall'argomento del Disegno intelligente?
"No, mi è sempre sembrato un vuoto gioco di parole".
Ma lei crede che ci sia un ordine nell'universo?
"Beh, ovviamente ci sono le leggi di natura. Per quanto mi riguarda, ci sono sempre state e sempre ci saranno: l'assunzione che rimangano valide è continuamente confermata induttivamente, e le cose funzionano".
Non si chiede da dove derivano queste leggi di natura? "Io penso semplicemente che ci sono domande che non hanno risposta, e che sia inutile stare a parlarne. Da quando ho lasciato l'università, dove mi avevano fatto studiare un po' di logica e di filosofia, e leggere Aristotele, Agostino e Tommaso, ho smesso di pensare a queste cose".
La filosofia non le è mai interessata?
"No. E meno che mai la filosofia della scienza. Sono naturalmente interessato alle sue ricadute etiche e morali, ma questo è un altro paio di maniche. Ad esempio, mi piacerebbe sapere se certe caratteristiche comportamentali, come l'altruismo o l'egoismo, sono determinate dai geni. E da quali, in particolare".
Solo dal punto di vista genetico, o anche evoluzionistico?
"I due aspetti sono legati, ovviamente: un gene viene selezionato se produce un vantaggio evolutivo. Ed è interessante capire quale sia il vantaggio collettivo offerto dai comportamenti altruistici, che a prima vista appaiono individualmente svantaggiosi. Naturalmente, l'altruismo non è universale: ci si preoccupa molto dei propri famigliari, meno dei propri amici, meno ancora dei conoscenti, e poco o niente degli altri. C'è una gerarchia nella lista di coloro che sentiamo di dover aiutare, e la lista varia a seconda delle persone: può essere più o meno lunga, e arrivare a includere anche gli animali".
La sua li include?
"Non direi. Non capisco bene cosa ci si guadagnerebbe, ad esempio, a concedere diritti agli scimpanzé, come qualcuno ha proposto. A dire il vero, trovo ridicola l'idea stessa dei diritti umani".
Animali, vuol dire.
"No, umani. Da dove derivano, questi diritti, se non si crede all'esistenza di Dio? Cose come il cibo, la salute o l'istruzione sono bisogni e responsabilità, ma non diritti".
Lei sembra più sensibile all'evoluzione biologica, che a quella culturale.
"Dico solo che le leggi sociali non sono leggi di natura. Prendiamo il quinto comandamento, "Non uccidere": l'istinto naturale di sopravvivenza ci spinge a violarlo, quando qualcun altro sta per uccidere noi. Non bisognava forse uccidere Hitler? Io non sono nemmeno contrario alla pena di morte per i criminali biologicamente antisociali, nel senso di sprovvisti di sentimenti di empatia: in fondo, non soddisfano i requisiti necessari per meritare la pietà umana".