domenica 29 settembre 2013

Reddito, benessere e religiosità

elemosina
Negli ultimi anni sono aumentati gli studi su religione e non credenza riguardanti diversi aspetti della vita. E spesso accade che contribuiscano a smentire, dati alla mano, luoghi comuni propagandati dagli apologeti della religione. Solitamente si crede che la religione sia un potente antidoto alla depressione e un buon ricostituente per l’autostima e la salute psicologica: ma anche questa idea risulta più difficile da sostenere quando si esce dal campo dell’aneddotica, quella per intenderci dei depressi “convertiti” che abbondano sulle riviste di gossip. Si tende anche a sovrastimare il contributo della fede all’economia.

 
Una recente ricerca pubblicata su Psychological Medicine su più di 8mila persone nell’arco di un anno e su sette paesi smentisce l’assunto secondo cui la religione favorisce la salute psicologica e costituisce un antidoto alla depressione. Anzi, secondo questa ricerca la depressione ha colpito il 10,3% dei fedeli, a fronte del 7% dei non credenti. E quelli più credenti paiono più soggetti a questi problemi rispetto ai fedeli più tiepidi. I dati variano da paese a paese, ma in Gran Bretagna i credenti hanno avuto tre volte il rischio degli altri di sperimentare un episodio di depressione. Per gli autori, quindi, ”non c’è alcuna prova che la religione operi quale freno per prevenire la depressione dopo un evento grave nella vita”. Inoltre, ”i risultati non supportano l’idea che una concezione della vita religiosa e spirituale migliori il benessere psicologico”.
 
"la religione peggiora l’attitudine di chi sta meglio a livello economico"

Un altro recente studio focalizza invece l’attenzione sul rapporto tra reddito, autostima e religiosità. Ne parla una ricerca dell’università Humboldt di Berlino e di quella di Southampton, con un questionario su più di 187mila persone di 11 differenti culture religiose. Lo studio parte dal dato (suffragato da un’abbondante mole di evidenze) che un maggior reddito è legato a un migliore equilibrio psicologico. Aggiunge che la dottrina contribuisce a migliorare l’autostima di chi vive intorno o al di sotto della soglia di povertà, ma anche che gli insegnamenti pauperistici della religione danneggiano quella di chi non ha particolari difficoltà a sbarcare il lunario. Quindi, mentre permette di sopportare meglio la povertà, la religione peggiora l’attitudine di chi sta meglio a livello economico, probabilmente perché tende a colpevolizzarli. È nota la retorica cristiana del denaro “sterco del demonio”, che demonizza la ricchezza e svaluta moralmente il ricco, fin dal Vangelo. Gli autori concludono che con il declinare della religiosità il beneficio del reddito sull’equilibrio psicologico potrebbe aumentare ulteriormente. La religione può essere per certi versi utile ai più poveri, ma fino a un certo punto. Forse lo stesso benessere assicurato dall’effetto placebo.

Difficile dire quanto queste conclusioni possano impattare sulla macroeconomia. Il sociologo Max Weber sosteneva che lo “spirito” del capitalismo sia originato dall’etica della riforma protestante e che quindi i paesi luterani si siano potuti sviluppare meglio rispetto a quelli cattolici e ortodossi. Ma questa tesi alla prova dei fatti non è precisa, e altri sembrano essere i fattori in gioco: il livello di istruzione, per esempio, o una concezione religiosa che favorisce una certa disciplina in aspetti della vita utili all’imprenditoria o che incoraggia allo studio. L’accento sul grado di istruzione è stato posto da una ricerca dell’università di Warwick, generalmente più alto tra i protestanti. Nel confronto economico tra nazioni a maggioranza protestante o cattolica giocano ancora, nonostante la secolarizzazione, idee che hanno un sottofondo religioso: in particolare nell’attitudine critica che ha la Germania verso i paesi cattolici riguardo l’integrazione nella moneta unica.
 
"c’è una positiva correlazione tra felicità e benessere, con buona pace degli esponenti religiosi"

Ma al di là di queste speculazioni, il dato rilevante è che il Pil è più alto nei paesi secolarizzati, dove si registra anche un alto indice di felicità. Non sorprende, proprio perché c’è una positiva correlazione tra felicità e benessere, con buona pace degli esponenti religiosi che tendono a esaltare la povertà come pura e felice. Anche papa Francesco sembra battere questa strada, tanto che secondo indiscrezioni la sua prossima enciclica si intitolerà Beati pauperes. Nonostante l’ostentazione di pauperismo, la storia delle religioni è sempre stata legata al denaro — quantomeno per la capacità di mobilitare persone e quindi capitali. Un testo come Il mercato di Dio di Philippe Simonnot offre diversi spunti interessanti, anche per leggere in chiave economica lo sviluppo delle religioni, la loro capacità di integrazione con il sistema sociale e produttivo (o improduttivo).
 
Non si può per esempio negare che l’impianto feudale e la manomorta ecclesiastica hanno sicuramente costituito un freno allo sviluppo, tanto che la pubblicistica ottocentesca accusava di “parassitismo” e inefficienza i vertici religiosi. Non era l’unico freno: i soldi investiti nella costruzione di chiese invece che in servizi utili a tutti (ma che ora diventano poli d’attrazione per il turismo), o le decime imposte ai contadini, che ne peggioravano la situazione già precaria. Ancora oggi, in Italia, i costi della Chiesa gravano per oltre sei miliardi sui conti pubblici. Ci sembra dunque che sia soprattutto la laicità a costituire un volano, anche perché gli stati etici che discriminano le minoranze non rendono felice chi ne fa parte e non lo invogliano certo a impegnarsi per la costruzione di una società più florida. E questa costituisce una – se non la principale – ragione del crollo dei paesi ex comunisti, che pure non si basavano su un’ideologia religiosa.