lunedì 29 luglio 2013

I signori del pianeta. La ricerca delle origini dell’uomo

I signori del pianeta. La ricerca delle origini dell’uomo
Ian Tattersall

Codice Edizioni, Torino 2013, p. 296, € 15.90

ISBN 9788875783648
 
Ian Tattersall è un’autorità indiscussa nel campo della paleoantropologia – lo studio della documentazione fossile umana – e si dedica da anni a un’efficace divulgazione scientifica con l’intento di comunicare la nuova visione dell’evoluzione dell’uomo che emerge dalle ricerche più recenti. A lungo i paleoantropologi hanno organizzato i reperti in modo da disegnare un percorso solitario, graduale e lineare; le nuove tecniche di datazione, l’antropologia molecolare, la stessa revisione della teoria dell’evoluzione oltre la Sintesi Moderna hanno cambiato radicalmente il quadro, facendo emergere in primo luogo la grande varietà di ominidi – diretti antenati o rami collaterali – che sono a lungo convissuti prima della recente affermazione di Homo sapiens, in secondo luogo l’andamento non graduale delle storie evolutive, costellate di discontinuità forti tra cui la più importante è rappresentata dal “balzo comunicativo e cognitivo” che ha fatto emergere il linguaggio e il pensiero simbolico.
 

“La storia di come siamo diventati umani è molto lunga ed è meglio raccontarla fin dalle sue origini più remote”, anche perché ciò che rende la nostra specie insolita è, per Tattersall, appunto il ragionamento simbolico, che “non solo manca ai nostri più stretti parenti viventi, le grandi scimmie antropomorfe, ma sembra assente anche nei nostri parenti estinti più prossimi (e perfino nei primi esseri umani con le nostre sembianze)”. Tuttavia condividiamo numerose caratteristiche intellettive con questi parenti, caratteristiche che rappresentano significativi “vincoli storici”. Il nostro cervello non è progettato e ottimizzato come una macchina, né è il frutto di un progressivo perfezionamento: è piuttosto una riorganizzazione di elementi nuovi e strutture antiche, con riadattamenti a inedite funzionalità (exaptation) e vere e proprie innovazioni. Il tutto con un certo disordine e molta casualità: ma “sono proprio il disordine e la casualità frutto della sua storia a rendere il nostro cervello (e noi stessi) un’entità così intellettualmente fertile, creativa, emotiva e interessante”.
 
Il lungo viaggio – un percorso lungo tre milioni e mezzo di anni – parte dal genere Australopitecus (“scimmia del sud”), il cui più famoso rappresentante è Lucy, scoperta nel 1974 nell’Etiopia nordorientale: scimmie antropomorfe bipedi vissute in un periodo di tempo compreso tra 3,8 e 1,4 milioni di anni fa in una grande varietà di specie e con una vasta diffusione. Questi ominidi erano bipedi ma anche buoni arrampicatori; avevano una dieta che includeva grassi e proteine animali (la dieta si può oggi stabilire sulla base degli isotopi del carbonio presenti nei denti e nelle ossa) ma erano più cacciati che cacciatori e rubavano probabilmente prede e rifiuti ai grandi carnivori; utilizzavano strumenti ed esibivano comportamenti specializzati come il lancio (“per lanciare un oggetto con precisione occorre una perfetta sintonia tra la mano e l’occhio, nonché la capacità di mettere assieme un’intera sequenza di azioni basandosi sull’istintiva certezza di ciò che serve in quel momento”); vivevano in gruppi probabilmente abbastanza vasti con un’organizzazione sociale flessibile. Tattersall cerca di dare anche un’idea del “mondo interiore” di questi ominidi, generalisti (cioè non specializzati) e onnivori, capaci di sfruttare con versatilità ciò che la foresta e la savana potevano offrire, che ad un certo punto hanno cominciato a produrre utensili in pietra e a trasportare i materiali necessari per realizzarli, fatto che indica un livello di complessità cognitiva superiore a quello che conosciamo nella attuali antropomorfe.
 
Viene introdotto poi il controverso genere Homo: Tattersall osserva che ai tempi di Linneo la nostra specie risultava talmente diversa da tutti gli altri organismi da non richiedere alcuna definizione formale. Oggi la situazione è diversa, perché sappiamo di avere numerosi parenti ormai estinti i quali, spingendosi indietro nel tempo, diventano via via più differenti rispetto a noi. Questo “induce a chiedersi quando i nostri antenati sono diventati umani e quali sono stati i cambiamenti indotti da tale transizione. Si tratta di domande ovvie, che ci poniamo periodicamente da oltre un secolo, ma questo non significa che sia stata trovata una risposta soddisfacente” e una certa confusione regna tuttora nel campo della paleoantropologia. Certamente al genere Homo appartiene il cosiddetto ragazzo del Turkana, classificato come Homo ergaster e scoperto in sedimenti risalenti a 1,8 milioni di anni fa a est del lago Turkana in Africa nel 1975: si tratta di uno scheletro quasi completo, con una struttura molto simile alla nostra, che non somiglia a nulla di quanto scoperto nei sedimenti più antichi.
 
L’anatomia del ragazzo del Turkana rappresenta un cambiamento radicale rispetto ai precedenti ominidi, e tra i fossili non c’è nulla che si possa considerare come una forma intermedia tra una qualsiasi australopitecina e Homo ergaster. Si tratta quindi di un salto evolutivo che oggi è possibile spiegare con una mutazione a carico del DNA regolatore che controlla i tempi e i modi con cui i geni codificanti sono espressi nello sviluppo: un piccolo cambiamento a questo livello può avere conseguenze a cascata e produrre appunto una conformazione radicalmente nuova.
 
Gli ominidi del genere Homo si diffondono notevolmente nel Vecchio Mondo; in Africa – la terra d’origine – si differenziano notevolmente. In Africa cominciano inoltre a comparire – a partire da circa 1,5 milioni di anni fa – prove di un nuovo corso nella produzione di utensili litici: bifacciali, punte, strumenti a tranciante.
 
Se il continente africano è sempre stato fonte di innovazione nell’evoluzione umana, anche l’Europa fornisce importanti informazioni per capire come Homo sapiens si è separato dai suoi parenti più stretti. In Europa è infatti presente quel personaggio chiave che è Homo neanderthalensis la cui comparazione con Homo sapiens risulta estremamente significativa. I Neandertal rappresentano infatti “una versione alternativa dell’‘ominide con cervello grande’ grazie alla quale, volenti o nolenti, possiamo considerare le nostre vantate abilità mentali soltanto un prodotto collaterale della tendenza ‘più cervello c’è, meglio è’: un trend che, per qualche motivo, sembra aver dominato la storia del genere Homo. I Neandertal hanno inoltre lasciato una documentazione materiale eccezionalmente completa. Il contesto climatico è quello delle glaciazioni, che crearono condizioni ideali perché si fissassero novità genetiche: le condizioni di isolamento fisico delle popolazioni e la loro dimensione ridotta favorirono la comparsa di cambiamenti evolutivi significativi nei nostri antenati tanto mobili, adattabili e pieni di risorse. Sappiamo da tempo che i Neandertal non sono nostri diretti antenati – piuttosto, come dice Tattersall, una “versione alternativa”. Usavano strumenti abilmente lavorati, tuttavia nella documentazione tecnologica non ci sono prove che fossero dotati di pensiero simbolico: “esperti, sì; complessi, certamente, ma non nel modo in cui siamo noi […]. Di certo Homo neanderthalensis rifletteva la tendenza verso lo sviluppo di un cervello più grande, portandola forse alla sua massima espressione. Dal punto di vista comportamentale, però, i Neandertal non rappresentavano una rottura qualitativa rispetto al passato: semplicemente facevano, in modo migliore, le stesse cose dei loro predecessori”.
 
La grande rottura qualitativa – il “grande balzo” – è rappresentata dagli uomini di Cro-Magnon (dal sito francese di Cro-Magnon in Dordogna), giunti in Europa circa 40.000 anni fa portando con sé la cosiddetta cultura materiale del Paleolitico superiore: le straordinarie pitture rupestri, una significativa trasformazione della tecnologia, nuovi strumenti a lama, statuette e monili. In altre parole, produzioni che testimoniano comportamento simbolico. “La successiva storia tecnologica ed economica del genere umano può essere letta attraverso l’esplorazione di questa abilità relativamente giovane, di cui ancora oggi cerchiamo i limiti”.
 
L’ultimo capitolo, davvero affascinante, è dedicato alle ipotesi relative alla nascita del linguaggio e del correlato pensiero simbolico. Il breve epilogo lancia un allarme: quel marchingegno straordinario che è il nostro cervello ci ha resi “i signori del pianeta”, un pianeta invaso dalla nostra specie oltre i limiti della sua sopportazione: comportamenti che un ambiente flessibile avrebbe assorbito quando Homo sapiens era distribuito in piccoli gruppi, oggi che siamo sette miliardi sono diventati pericolosi e dannosi per le stesse popolazioni umane. Non possiamo più contare sull’evoluzione biologica, perché “le moderne popolazioni umane sono ormai troppo grandi e troppo vicine tra loro perché possa fissarsi una qualche significativa novità genetica in grado di renderci più intelligenti e più capaci di proteggere i nostri interessi a lungo termine”. Dobbiamo affidarci all’evoluzione culturale, a una più energica esplorazione delle nostre capacità e potenzialità razionali.

Maria Turchetto
 
Luglio 2013