giovedì 4 luglio 2013

Gli atei: così denigrati, così normali, così liberi di esprimersi

Le inchiesta sulla religiosità o l’incredulità lasciano spesso il tempo che trovano, tanto sono fortemente condizionate dalla desiderabilità sociale e dal modo di formulare le domande. Non tutte sono peraltro attendibili allo stesso modo. Costituiscono però quantomeno l’occasione per discutere di situazioni reali. Il numero di non credenti aumenta e aumentano le inchieste che li prendono in considerazione. Tanto da far pensare che ormai la maggioranza degli studi si stia rivolgendo alla comprensione delle differenze tra credenti e non credenti.

 
Un recente sondaggio del Pew Forum riflette sull’opinione che gli statunitensi hanno della crescita dei non religiosi. Viene fuori che il 48% ritiene che sia una cosa negativa, l’11% che sia positiva, mentre per il 39% non ha importanza. Negli Usa è ancora forte il pregiudizio contro i non credenti, ma le cose sembrano cambiare in direzione di una maggiore tolleranza, o quantomeno indifferenza. Il gruppo che meno accetta l’aumento dei non credenti è quello dei protestanti evangelici (parere negativo al 78%), mentre i più aperti sono i cattolici ispanici (al 36% non piace la crescita dei Nones).
"occorrerebbe fare di più per migliorare l’immagine degli atei e degli agnostici"
Hemant Mehta, animatore del blog Friendly Atheist, si chiede come mai anche tra i “non affiliati” una discreta percentuale (il 19%) veda la crescita dei non credenti come un qualcosa di negativo, a fronte di un altro 24% che ha un’idea positiva (specie tra i più giovani) e il restante 55% che è indifferente. Mehta propone alcune spiegazioni: tra i “senza religione” sono comprese persone che hanno un approccio spirituale, oppure non credenti più indifferenti cui non piace “il crescere del vociante attivismo ateo”; forse per alcuni la perdita della fede comporta la carenza del senso di “comunità e spirito di squadra”, visto che il principale motivo del successo della religione sta nel creare momenti di socializzazione. Per questo occorrerebbe fare di più per migliorare l’immagine degli atei e degli agnostici, suggerisce.
 
Sono spunti utili, visto che talvolta anche la nostra associazione viene criticata, per il solo fatto di esistere o per qualche iniziativa giudicata eccessiva, non solo dagli integralisti religiosi ma anche da qualche non credente. Un’altra riflessione che si può fare su questo studio è che l’aumento degli increduli fa percepire agli stessi che ciò che conta, nel valutare una persona o la società, non è solo la religione (o l’assenza di essa): in questo senso si possono leggere le alte percentuali di indifferenti.
Un’altra ricerca interessante sugli atei viene dalla University of Tennessee di Chattanooga, firmata da Christopher F. Silver, vicino ai gruppi scettici e laici statunitensi. Nello studio sono distinti sei tipi di non credenti, solitamente compresi tutti tra i “nones” ed etichettati come asociali e aggressivi dalla propaganda religiosa integralista. Tra i non credenti ci sono infatti diverse tipologie caratteriali e di approccio alla miscredenza: un segno di ricchezza e di complessità, come in qualsiasi altro ambiente o gruppo sociale. Il project manager dell’inchiesta, Thomas J. Coleman III, con ironia sintetizza: “Congratulazioni non credenti, siete essenzialmente normali”.

Gli “intellectual atheist/agnostic” sono il gruppo più cospicuo, interessati all’arricchimento culturale e filosofico, segno che la cultura è il mezzo principale attraverso il quale si arriva alla non credenza. Ci sono poi gli “activist atheist/agnostic”, “i meno narcisisti e più impegnati nella comunità” e nell’associazionismo, spesso per i diritti umani, delle donne, degli omosessuali e schierati contro le ingiustizie sociali ed economiche. Silver tratteggia anche i “seeker-agnostics”, che si mostrano più aperti alla metafisica. Ci sono poi gli “anti-theist”, gi anticlericali che attaccano molto la religione e sono i più visibili, sebbene risultino nel contempo i meno diffusi. I “non-theist”, in crescita, sono quelli che non danno molta importanza alla religione nella vita o non ne sono stati influenzati, e sono poco propensi all’attivismo. Per concludere, la ricerca menziona i “ritual atheist/agnostic”, che trovano utilità in riti, tradizioni etniche, cerimonie o forme di meditazione (per esempio molti ebrei, che si definiscono culturalmente tali sebbene siano poco o per nulla credenti).
 
La terza indagine di cui parliamo oggi è quella dello psicologo Ryan Ritter della University of Illinois su Twitter, pubblicata su Social Psychological & Personality Science. I ricercatori hanno analizzato centinaia di migliaia di tweet scritti da followers di esponenti cristiani e atei (già un criterio dubbio, che non permette di identificare come credenti o meno). Quelli che seguono vip cristiani, sintetizza Mehta, tendono a usare più parole come “conosco”, “so”, “sento”, a usare termini positivi (“felice”, “amore”) e a descrivere situazioni. Mentre gli atei si focalizzano sull’analisi (“penso”, “ritengo”), usano più spesso parole negative e tendono a esprimere più spesso critiche. Sostenere sulla base di questa ricerca che i credenti siano più cortesi e felici mentre gli atei più arrabbiati e infelici è semplicistico. Lo stesso Ritter chiarisce: “non vuol dire che i secondi siano in generale più infelici”, visto che i non credenti sono felici quanto i credenti nelle nazioni meno religiose. In sostanza, sostiene, l’aumento della felicità tra i non credenti dipende piuttosto dalla maggiore disponibilità di luoghi di socializzazione e supporto laici e dal maggior senso di stima percepito nella società, quando si affievoliscono i pregiudizi anti-atei.
"talvolta sono discriminati o devono rispondere a contestazioni"
Questa ricerca ci suggerisce che esistono delle differenze su come vengono usati i social media da questi gruppi. Non è un caso che i non credenti siano più riflessivi e critici: vivono immersi in una società dove la religione ha una posizione dominante e dove talvolta sono discriminati o devono rispondere a contestazioni. Per questo, tra i loro difetti, c’è anche quello di essere più polemici. I credenti parlano più spesso di quello che fanno (come recarsi in chiesa) e condiscono i discorsi con commenti zuccherosi riguardanti Dio.
 
Non stupisce, in fondo la libertà di espressione è un principio rivendicato e promosso dal mondo incredulo e assai stigmatizzato da quello religioso, che preferisce semmai promuovere la sottomissione. Ma non stupisce, anche perché il problema non è certo l’espressione di sentimenti positivi. Molto probabilmente, anche i peggiori inquisitori come Torquemada e Pio V hanno lasciato più parole positive che negative. Del resto, testi sacri come Bibbia e Corano non si comportano diversamente: abbondanza di buoni principi, ma nello stesso tempo formulazione di indicazioni terribili applicate a piene mani per millenni. La ragione ci insegna invece che ciò che conta maggiormente è la pratica. E attendiamo quindi l’ennesima ricerca in merito.