sabato 30 marzo 2013

Neanderthal e Sapiens, la prova di un “incrocio”?

Neanderthal e Sapiens, la prova di un
Una questione controversa, sulla quale non esiste ancora unanimità nel mondo scientifico, portata nuovamente in luce da uno studio condotto su un frammento rinvenuto in Italia negli anni '50.

Da qualche anno a questa parte l’ipotesi è diventata oggetto di dibattito, con relativa alternanza di conferme e smentite: è possibile sostenere con certezza e senza ombra di perplessità che i destini di sapiens e neanderthal siano finiti per incrociarsi e saldarsi strettamente gli uni con gli altri, lasciando tracce di tale fenomeno nel patrimonio genetico che ancora portiamo dentro di noi? O forse questa supposizione non poggia su elementi concreti? Come è facile prevedere, essendo il tema tanto lontano nel tempo ed essendo il nodo particolarmente complesso da sciogliere, la ricerca in questo senso è l’unica in grado di fornire risposte adeguate, anche se con i tempi legittimi che richiede.
 
Un recente studio sull’argomento, a firma quasi interamente italiana, riprende in mano il discorso in seguito alle indagini condotte su alcuni reperti conservati nel Museo di Storia Naturale di Verona: quel che resta di una mandibola rinvenuta a Riparo Mezzena, presso i Monti Lessini, e risalente al medio paleolitico, per la precisione ad un arco di tempo collocato all’incirca tra 40 000 e 30 000 anni fa. Venuta alla luce nel 1957 e solo recentemente sottoposta ad analisi che stanno aiutando a sviscerare tutti i segreti che è in grado di raccontare, la mandibola ha già fornito la prova ai ricercatori, tramite indagini sul DNA, che l’uomo a cui appartenne doveva avere i capelli rossi e la pelle molto chiara.

Esami del DNA mitocondriale, condotti non soltanto sulla mandibola ma anche su altri frammenti craniali ritrovati all’altezza del medesimo livello stratigrafico nello stesso sito di Riparo Mezzena, hanno inoltre già portato all’identificazione dell’unico tipo genetico di Neanderthal che visse sul territorio dell’Italia. Il nuovo lavoro, invece, partendo dai medesimi reperti, puntava ad identificare eventuali convergenze fisiche tra i nostri progenitori e quei “cugini misteriosi” che ancora fanno tanto discutere. Proprio il mento era una delle caratteristiche molto evidenti che differenziava Sapiens e Neanderthal: sfuggente in questi ultimi, assai più marcato nei primi, nel fossile si presenta con le peculiarità tipiche del neanderthal classico ma inizia già ad accennarsi e delinearsi. La testimonianza fisica di un “incrocio” avvenuto nella tarda età del Neanderthal? Una prova ulteriore che andrebbe a suffragare quelle, secondo molti scienziati già incontrovertibili, che provengono dal sequenziamento del genoma?


Come già sottolineato, uno dei più frequenti dibattiti paleoantropologici riguarda lo spostamento verso l’Europa dell’Homo Sapiens e la conseguente sorte degli umani che vivevano su quei territori precedentemente, ovvero i Neanderthal. In accordo con le teorie che sostengono che non ci fu alcuna scomparsa improvvisa, bensì una progressiva “assimilazione” tra gli antichi abitanti ed i nuovi arrivati, molti autori hanno già evidenziato in altri studi come un cambiamento nella morfologia dei Neanderthal di età più tarda sarebbe il frutto di uno scambio con i Sapiens; nelle stesse caratteristiche fisiche dei primi Sapiens, inoltre, sarebbero visibili elementi di continuità con i “cugini europei”, così come molti comportamenti particolarmente complessi sorti tra gli ultimi Neanderthal ed identificati dall’archeologia grazie a prove indirette (sviluppo di un certo senso estetico, accenni di un culto dei defunti) sarebbero prova di un contatto non sporadico.

Un ratto delle Sabine ante-litteram?


Non sporadici, ma probabilmente frequenti, furono anche gli “incontri” di natura sessuale, verosimilmente articolatisi nell’arco di molte generazioni, se i frutti sono diventati sempre più visibili, come nel caso del passaggio dal “mento sfuggente” al “mento incipiente”. Questo, almeno, è ciò che sostiene il gruppo di ricercatori guidato da Laura Longo dei Musei Civici Fiorentini e da Silvana Condemi del Consiglio Nazionale delle Ricerche francese presso Marsiglia, autore di un lavoro i cui risultati sono stati pubblicati dalla rivista PLOS ONE; allo studio hanno inoltre partecipato Paolo Giunti, dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria di Firenze, Martina Lari e David Caramelli dell’Università di Firenze ed Aurélien Mounier dell’Università di Cambridge. Quello che difficilmente potranno chiarire esami sul DNA o indagini sulla morfologia portate avanti grazie a modelli computerizzati e alle tecnologie più recenti, sono le modalità secondo le quali questi “scambi” avrebbero avuto luogo.

Spiegano i ricercatori, infatti, che le prove genetiche non sono in grado di fornire tutte le risposte anche se alcuni elementi potrebbero aiutare a render più chiaro il quadro complessivo della situazione: attraverso le analisi sul DNA mitocondriale, che si trasmette esclusivamente per via materna, sarebbe dunque emerso come ci sarebbe stata una prevalenza di “incontri” in cui le coppie erano formate da maschi Sapiens e femmine Neanderthal. Secondo gli studiosi, prenderebbe quindi forma un’ipotesi – forse condizionata da quella che è stata (e purtroppo talvolta è ancora) la storia dell’umanità – in cui gli uomini giunti sui territori europei, nel corso della loro inarrestabile avanzata che li avrebbe portati alla conquista, avrebbero perpetrato una sorta di «stupro etnico» ai danni delle donne già presenti in quei luoghi. A parer di Laura Longo, insomma, sembrerebbe verosimile l’idea di un primo «ratto delle sabine» del quale, in assenza della scrittura che potesse fornirne testimonianza, la memoria si sarebbe irrimediabilmente perduta; o che, tutt’al più, sarebbe sopravvissuta in minima parte del patrimonio genetico dei posteri.

di

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