Nei confronti del cosiddetto «peccato d'origine» - che altro non è, nel
Genesi, se non la rappresentazione simbolica del distacco dalla vita comunitaria
primitiva (pre-schiavistica) -, la chiesa cattolica ha sempre assunto un
atteggiamento piuttosto fatalistico, che si è andato accentuando in quella
protestante.
Infatti, mentre la chiesa ortodossa ha sempre sostenuto l'impossibilità o
l'insensatezza di una trasmissione ereditaria (genetica) di quel peccato
(attraverso l’atto sessuale), poiché ciò impedirebbe all'uomo la possibilità di
una libera scelta, e ha preferito limitarsi a credere che gli uomini soffrono i
condizionamenti storici (sociali ecc.) derivati da quella colpa; la chiesa
romana invece ha sempre fatto del peccato originale uno dei principali pretesti
per indurre gli uomini a rinunciare a qualunque forma di liberazione
terrena.
Qui è bene sottolineare che il criterio interpretativo del cattolicesimo
romano, in merito al racconto del Genesi, è piuttosto regressivo anche rispetto
a quello ebraico, poiché, mentre gli ebrei, attraverso quel racconto, volevano
evocare la nostalgia di un paradiso perduto e suscitare quindi il desiderio di
ritrovarlo sulla terra, l'esegesi cattolica, al contrario, si serve di quel
racconto per sostenere che sulla terra non è possibile alcun paradiso e che
quello adamitico è stato perduto una volta per sempre, e che l'unico paradiso
possibile è quello dei «cieli», ideato e costruito unicamente da dio, senza
concorso umano.
L'idea ebraica di poter realizzare il paradiso nell'ambito di una particolare
nazione, circondata dall'inferno di altre nazioni «pagane», caratterizzate da
rapporti di tipo schiavistico, non era un'idea del tutto peregrina.
Discutibili forse furono i modi usati per realizzarla (il regno davidico,
p.es., ha senza dubbio conosciuto momenti di forte intolleranza), ma il torto
maggiore degli ebrei fu un altro, quello di non aver compreso con sufficiente
chiarezza che il desiderio di liberazione appartiene ad ogni uomo e che un
popolo libero non può essere delimitato da confini geografici. Il concetto di
«nazione eletta» esprime un certo pessimismo nei confronti del diritto a una
libertà universale dall'oppressione. È il genere umano che va considerato
«eletto», non un popolo particolare, anche se può esserci un popolo migliore di
altri (nella loro esperienza di liberazione gli ebrei hanno prodotto una cultura
di inestimabile valore. Il fatto stesso che il cristianesimo sia di derivazione
ebraica la dice lunga: la rinuncia al concetto di «nazione eletta» in fondo
nasce proprio all'interno del fariseismo).
In sé dunque non è sbagliata l'idea di voler realizzare la giustizia in una
nazione particolare; è sbagliata l'idea di credere che tale realizzazione sia
possibile solo entro quella nazione, in virtù della propria particolare storia e
cultura.
Tuttavia, non ha senso - come poi ha fatto la chiesa romana - porre come
alternativa a questo limite della civiltà ebraica la rinuncia a lottare per la
giustizia sociale, nell'attesa di ottenerla, come premio della propria
rassegnazione, nel cosiddetto «regno dei cieli».
La chiesa romana avrà sempre ragione contro quanti sostengono che per
realizzare il bene è sufficiente rispettare la legge, ma avrà sempre torto
quando sostiene che per realizzare il bene è sufficiente aver fede in dio,
praticandone le opere (che poi l'opera principale, per questa chiesa, è, in
ultima istanza, l'obbedienza al pontefice).
Dio è un ente così astratto che la fede riposta in lui può assumere delle
manifestazioni tutt'altro che umane. Quando p.es. si afferma che il vero
cristiano è colui che imita il Cristo, si rischia facilmente di cadere in
un'aberrazione ideologica, in quanto, essendo il Cristo vissuto duemila anni fa,
qualunque pretesa di contemporaneità col suo messaggio può essere facilmente il
frutto di un'interpretazione irrazionale, e questo nonostante si dica che i
vangeli siano la quintessenza dell'umanità dell'uomo. Cioè anche se i vangeli
esprimessero fedelmente il messaggio di Cristo (il che comunque non è),
resterebbe sempre da dimostrare che l'applicazione alla lettera dei loro
principi costituisca il meglio per l'uomo contemporaneo.
Non è singolare che quanti dicono di voler «imitare Cristo», si concentrino
soprattutto sul momento critico della crocifissione, senza rendersi conto che
possono essere esistiti dei martiri la cui vita non è stata affatto un modello
di esemplarità? Una morte cruenta può forse essere di per sé indice di santità?
[1]
Non è assurdo (o se vogliamo ingenuo) pensare che il senso della vita di un
uomo possa essere racchiuso nel fatidico e breve momento della sua morte? Non è
forse una forzatura credere che il martirio di una persona possa riscattare, di
colpo, un'intera vita vissuta con disperazione o risentimento?
Certo, il dolore che si subisce ingiustamente può impressionare, può anche
farci credere che tutta la vita di quel martire sia stata caratterizzata da
lealtà e sincerità (quando mai in fondo si parla male dei morti? e quando mai si
dice che da vivi erano state delle persone ingiuste?), ma una conclusione del
genere sarebbe sicuramente affrettata, dettata come minimo dall'emotività.
Per poter veramente capire se una persona è degna di fiducia, si ha bisogno
di metterla alla prova, cercando di conoscerla mentre è «viva». E questa fiducia
va ogni volta riguadagnata, poiché è nella natura umana essere incostanti.
Quando la chiesa romana sostiene che il momento più alto dell'amore di Cristo
per il mondo, è avvenuto nel momento del patibolo, essa dimentica di aggiungere
che la scelta del martirio non poteva che essere stata dettata da ragioni di
opportunità, che spesso hanno quanti lottano davvero per la giustizia.
Ci si sacrifica per salvare gli altri più che se stessi, non per uno strano
senso del dovere o per una follia personale, ma semplicemente perché si ritiene
che quella sia la soluzione migliore per il proseguimento dell'ideale di
liberazione.
Dunque «salvare gli altri» non tanto dall'ira di un dio vendicativo, che dai
tempi di Adamo ha conservato rancore per il genere umano, quanto piuttosto dalle
conseguenze dell'immaturità degli uomini, del loro primitivismo. Gli uomini
vanno educati con la persuasione alla democrazia, costasse anche il sacrificio
di sé.
In tal senso il martirio può anche servire a «salvare se stessi» dalla
tentazione di voler imporre con la forza i propri ideali. O forse si preferisce
l'immagine di un Cristo che sceglie il martirio per riscattare agli occhi dei
propri seguaci una vita trascorsa in maniera insulsa, piena di delusioni e di
fallimenti?
Gli uomini hanno bisogno non di essere colpiti emotivamente da gesti
eclatanti, ma di essere coinvolti attivamente in un'esperienza significativa per
la loro vita quotidiana. Abbiamo bisogno di incontrare persone normali che
vivano un'esperienza gratificante sul piano della giustizia sociale, e non
persone eccezionali che vivono secondo i criteri del più puro
individualismo.
Le persone normali non hanno mai la pretesa di «imitare Cristo» e di imitarlo
addirittura fino al Golghota. È assurdo pensare di poter imitare una persona al
punto da identificarsi totalmente con la sua storia personale. Una
identificazione del genere sarebbe altamente improbabile persino se si finisse
realmente sulla croce.
Peraltro, l'idea stessa di voler affermare una stretta coerenza tra ideale
di assoluta perfezione e prassi quotidiana (sempre piena di
contraddizioni), a partire dal supremo sacrificio di sé, cioè a partire dalla
logica del martirio (la sola con cui si crede di poter nascondere il proprio
vuoto), è un'idea che riflette una concezione di vita secondo cui, non potendo
esserci vera felicità sulla terra, l'unica possibile è quella che assume
consapevolmente la sofferenza, il dolore come criterio di vita.
«Chi soffre ha sempre ragione» - dice l'integrista. Questa affermazione però
non viene detta coll'intenzione di vedere l'oppresso liberarsi dalla sofferenza;
al contrario, essa è un invito a vedere nella propria oppressione una fonte di
felicità per l'aldilà.
Un integrista, al pari di chiunque soffra gravi disturbi psicopatologici, lo
si riconosce sempre da almeno una di queste caratteristiche:
- non compie mai nessuna vera autocritica;
- non ha alcun senso della storia;
- non riconosce alcun valore alle ideologie diverse dalla propria.
[1] Questo senza poi considerare che per i
cattolici il martirio del Cristo fu addirittura da lui «desiderato», proprio
allo scopo di togliere l'ira di dio che pesava sugli uomini dal giorno del
peccato originale. Non sono forse i vangeli che a più riprese sostengono che il
Cristo «doveva» morire?
http://www.homolaicus.com/religioni/ebraismo-cristianesimo.htm