Una mole considerevole di studi ha dimostrato come la religione prosperi soprattutto laddove le ineguaglianze sociali sono più grandi. E questo spiega almeno in parte perché una società ricca qual è quella degli Stati Uniti si caratterizza per tassi di pratica religiosa più elevati rispetto all’Europa. Tuttavia nessuno, sinora, si era avventurato nel cercare di comprendere quali dinamiche politiche ed economiche si innescano su tali premesse.
Una ricerca di due studiosi, Ekrem Karakoç e Birol Bașkan, ha cominciato a colmare il vuoto. Basandosi sui dati del World Values Survey, hanno innanzitutto rilevato che i più anziani, i più poveri, i meno istruiti e le donne tendono in media a favorire candidati non solo con forti credenze religiose, ma anche capaci di lasciarsi esplicitamente condizionare dalla fede nelle loro decisioni di governo.
Seconda “scoperta”: se è scontato che siano i più fedeli a sostenere con più zelo l’influenza della religione sulla politica, non lo è constatare come questo concetto sia trasversale. I ricercatori non hanno infatti individuato differenze sostanziali tra cattolici, ortodossi, musulmani e induisti. L’unica eccezione significativa è rappresentata dai protestanti. E tuttavia, anche dopo aver preso tutto questo in considerazione, rimane comunque il fatto che chi vive in società più diseguali tende anche a essere più clericale. E tende a esserlo quanto più è povero.
L’ulteriore domanda da porsi, come ha fatto Tom Rees (che su Epiphenom ha segnalato e commentato la ricerca), è questa: fino a che punto votare per candidati clericali aumenta realmente l’ineguaglianza sociale?
Se si guarda l’Indice di Sviluppo Umano, elaborato dall’Onu, si nota questa tendenza: più è elevata l’influenza della religione, minore è lo sviluppo del paese. Agli ultimi posti della classifica troviamo soltanto nazioni caratterizzate da leggi improntate a dottrine religiose e dall’assenza di atei dichiarati, mentre in testa vi sono paesi ampiamente secolarizzati sia per quanto riguarda le coscienze, sia per quanto riguarda le istituzioni.
Non è del resto una novità: già gli illuministi, nel Settecento, facevano polemicamente notare come la religione prosperasse sull’ignoranza. È del resto evidente che, quando la situazione è così disperata da non intravvedere alcuna soluzione razionale, quelle irrazionali trovano vaste praterie in cui pascolare. Non soltanto per le (vane) speranze che suscitano, ma anche per il potere (politico ed economico) delle organizzazioni che le propagandano.
Le confessioni religiose e le formazioni politiche che le sostengono non hanno alcun interesse a ridurre le disuguaglianze, perché un cambiamento minerebbe il consenso di cui dispongono. Dal canto loro i più svantaggiati, che non avrebbero alcun interesse a favorirle, non sono quasi mai nella condizione di rendersene conto. È un problema noto da più di due secoli, ed è stato risolto soltanto laddove, grazie all’istruzione, alla maggiore libertà di espressione e al benessere, la popolazione ha capito che è preferibile avere istituzioni e una classe dirigente improntate al principio di laicità.
http://www.uaar.it/news/2012/11/03/sostegno-politici-clericali-viene-chi-piu-dovrebbe-criticarli/
Una ricerca di due studiosi, Ekrem Karakoç e Birol Bașkan, ha cominciato a colmare il vuoto. Basandosi sui dati del World Values Survey, hanno innanzitutto rilevato che i più anziani, i più poveri, i meno istruiti e le donne tendono in media a favorire candidati non solo con forti credenze religiose, ma anche capaci di lasciarsi esplicitamente condizionare dalla fede nelle loro decisioni di governo.
Seconda “scoperta”: se è scontato che siano i più fedeli a sostenere con più zelo l’influenza della religione sulla politica, non lo è constatare come questo concetto sia trasversale. I ricercatori non hanno infatti individuato differenze sostanziali tra cattolici, ortodossi, musulmani e induisti. L’unica eccezione significativa è rappresentata dai protestanti. E tuttavia, anche dopo aver preso tutto questo in considerazione, rimane comunque il fatto che chi vive in società più diseguali tende anche a essere più clericale. E tende a esserlo quanto più è povero.
L’ulteriore domanda da porsi, come ha fatto Tom Rees (che su Epiphenom ha segnalato e commentato la ricerca), è questa: fino a che punto votare per candidati clericali aumenta realmente l’ineguaglianza sociale?
Se si guarda l’Indice di Sviluppo Umano, elaborato dall’Onu, si nota questa tendenza: più è elevata l’influenza della religione, minore è lo sviluppo del paese. Agli ultimi posti della classifica troviamo soltanto nazioni caratterizzate da leggi improntate a dottrine religiose e dall’assenza di atei dichiarati, mentre in testa vi sono paesi ampiamente secolarizzati sia per quanto riguarda le coscienze, sia per quanto riguarda le istituzioni.
Non è del resto una novità: già gli illuministi, nel Settecento, facevano polemicamente notare come la religione prosperasse sull’ignoranza. È del resto evidente che, quando la situazione è così disperata da non intravvedere alcuna soluzione razionale, quelle irrazionali trovano vaste praterie in cui pascolare. Non soltanto per le (vane) speranze che suscitano, ma anche per il potere (politico ed economico) delle organizzazioni che le propagandano.
Le confessioni religiose e le formazioni politiche che le sostengono non hanno alcun interesse a ridurre le disuguaglianze, perché un cambiamento minerebbe il consenso di cui dispongono. Dal canto loro i più svantaggiati, che non avrebbero alcun interesse a favorirle, non sono quasi mai nella condizione di rendersene conto. È un problema noto da più di due secoli, ed è stato risolto soltanto laddove, grazie all’istruzione, alla maggiore libertà di espressione e al benessere, la popolazione ha capito che è preferibile avere istituzioni e una classe dirigente improntate al principio di laicità.
http://www.uaar.it/news/2012/11/03/sostegno-politici-clericali-viene-chi-piu-dovrebbe-criticarli/