Certe volte un’immagine, una frase che la evoca, illumina più di mille formule, basta trovare le parole giuste e saperle mettere assieme (e conoscere le formule). Da questo punto di vista John Archibal Wheeler era una mago. Uno che cambia nome alle stelle oscure e le chiama buchi neri e dice pure che non hanno capelli perché tutte le informazioni su di essi, a parte la massa, la carica elettrica e il momento angolare, sono inaccessibili ad un osservatore esterno, lo è. Wheeler è pure quello che s’inventa l’aforisma “It from bit” per affermare che qualunque entità fisica (una particella, un campo, la stessa arena spazio-temporale che ospita gli eventi, It) deriva, in ultima analisi, la sua stessa esistenza da risposte indotte da qualche apparato (di misura) che formula questioni del tipo si o no, scelte binarie insomma, quelle che ora chiamiamo qubit. Poi uno potrà non essere d’accordo, s’intende, ma non può dire di non aver capito.
E così è successo per il quantum foam, la schiuma quantica, la struttura dello spazio-tempo a distanze dell’ordine della scala di Planck, “il regno far far away (mi autocito) dove le distanze (10-33 centimetri) ed i tempi (10-44 secondi) sono talmente brevi che lo stesso concetto di spazio-tempo vacilla, dove non è detto che “spazio” e “tempo” siano ancora categorie appropriate.”
Tutte queste faccende hanno a che fare con uno degli argomenti principali di quella che è stata la ricerca di Wheeler ovvero la Gravità Quantistica, la teoria (o la collezione di modelli) più difficile da dimostrare sperimentalmente che sia mai stata costruita (beh, ce ne sono altre indimostrabili per definizione o che stanno per essere smontate definitivamente, come molta fisica oltre il modello standard, già si sentono i lamenti dei teorici). Jacob D. Bekenstein, che non è certo il primo arrivato, ci dice invece che sì, un test sperimentale che stuzzichi la fisica alla scala di Planck è possibile ed è più semplice di quanto si possa immaginare.
Questa volta LHC non c’entra, è impossibile raggiungere, con la tecnologia di cui disponiamo, le energie richieste (dieci elevato alla diciannove GeV) per lasciare tracce nella schiuma. No, la cosa richiede invece solo un emettitore di fotoni singoli, un blocco di vetro e la capacità, del tutto teorica per il momento, di spostarlo di una distanza pari alla lunghezza di Planck. L’idea è che questo spostamento possa essere dedotto a partire dalla conservazione dell’impulso di un singolo fotone ottico che attraversa il vetro, e se il fotone viene riflesso più di quanto preveda l’elettrodinamica classica allora questa cosa potrebbe rappresentare l’indizio di una fisica diversa, del quantum foam secondo Bekenstein.
Ecco, io non vi so dire quanto questa cosa abbia un senso (potete approfondirla leggendo il papero del resto), da un punto di vista teorico non ha poi molta importanza, uno si può fare tutti gli esperimenti mentali che vuole, basta che la fisica su cui si reggono sia corretta, non so dirvi soprattutto se è davvero realizzabile sperimentalmente. Quello che posso fare io, qui ed ora, è segnalarvi la cosa, sicuro che il confronto che si sta per aprire merita di essere seguito.