Gesù non era cristiano. Era un ebreo osservante, rimasto tale fino alla morte, che mai avrebbe immaginato di dar vita a una nuova religione e meno che mai di fondare una «Chiesa». Per rendersene conto basta leggere con attenzione e soprattutto per intero il Nuovo Testamento, che la maggior parte dei fedeli conosce invece solo attraverso gli stralci letti durante la messa. Nelle pagine che seguono faremo perciò parlare soprattutto le fonti canoniche, che per i credenti sono parola di Dio.
Gesù non si è mai sognato di proclamarsi il Messia, e se qualcuno degli apostoli ha ipotizzato che fosse «Cristo» (traduzione greca dell’ebraico meshiah e dell’aramaico mashiha, «unto») lo ha fulminato di anatema. All’idea di essere considerato addirittura «Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre» – secondo il «Credo» del Concilio di Nicea tuttora in vigore nella Chiesa cattolica – sarebbe stato preso da indicibile orrore.
Gesù ovvero L’invenzione del Dio Cristiano (127 pagine 5 euro, edizioni ADD) Paolo Flores d’Arcais direttore di MicroMega |
Joshua bar Joseph era un profeta ebreo itinerante, esorcista e guaritore, un missionario apocalittico che annunciava l’euaggelion (buona novella) dell’arrivo imminente, anzi incombente, del Regno per opera di Dio. Dopo essere stato discepolo di Giovanni «il battezzatore» ed essersene staccato con altri adepti, ha predicato quasi esclusivamente in Galilea, in piccoli centri di contadini e pescatori spesso analfabeti, per pochi mesi se stiamo ai tre vangeli sinottici (per tre anni secondo il quarto), al culmine dei quali, recatosi a Gerusalemme, avendo provocato qualche disordine, viene condannato alla crocifissione insieme ad altri due lestoi, «ladroni» nella traduzione per secoli corrente, «briganti» o «banditi» nella sprezzante terminologia del potere romano, che così bollava chiunque infastidisse l’ordine imperiale.
Storicamente, una figura di minore importanza rispetto al Giovanni che battezzava sulle rive del Giordano e di altri predicatori apocalittici del suo tempo, di cui è rimasta memoria in Flavio Giuseppe («l’Egiziano», Teuda, Giuda il Galileo). Come ha scritto il maggior biblista cattolico italiano del dopoguerra, «la vicenda di Gesù, al di fuori di quanti a lui si richiamano, è stata, in realtà, di poca o nessuna rilevanza politica e religiosa: una delle non poche presenze scomode in una regione periferica dell’impero romano, messe prontamente a tacere in modo violento dall’autorità romana del posto con la collaborazione, più o meno decisiva, di capi giudaici». [Giuseppe Barbaglio, Gesù ebreo di Galilea, Edizioni Dehoniane, Bologna 2002, p. 39.]
Il Gesù di cui parla Joseph Ratzinger, invece, non c’entra nulla con il Joshua bar Joseph che guarisce e predica in Galilea ai tempi di Tiberio. Nel suo libro appena uscito (Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, che segue il primo volume pubblicato nel 2007) non c’è Gesù, bensì il Cristo dogmatizzato dai Concili di Nicea (325) e Calcedonia (451), dominati e decisi dagli imperatori di Roma, che con il Gesù della storia nulla ha a che fare e che anzi contraddice e nega sotto ogni aspetto essenziale.
Niente di scandaloso, sia chiaro, se un papa di Santa Romana Chiesa si mette a fare opera di teologia o di omiletica devozione intorno alla figura del Cristo. In fondo è il suo mestiere. Ma Joseph Ratzinger pretende di fare anche opera di storico, e addirittura di «giungere alla certezza della figura veramente storica di Gesù» (p. 9), perché «non possiamo dispensarci dall’affrontare la questione della reale storicità degli avvenimenti essenziali. Il messaggio neotestamentario non è soltanto un’idea; per esso è determinante proprio l’essere accaduto nella storia reale di questo mondo» (p. 119). Insomma, il «Credo» dogmatizzato a Nicea per volontà dell’imperatore Costantino avrebbe a fondamento la verità storica di Gesù in carne e ossa, vita, morte, miracoli e risurrezione.
Per tener fede a questa spericolata pretesa, però, il professor Joseph Ratzinger è costretto a esibirsi in un sabba di vere e proprie falsità, talvolta incredibilmente smaccate.
Paolo Flores d'Arcais