L'Inghilterra nega il diritto alla scelta a Tony Nicklinson
Di Tony Nicklinson, l’uomo inglese con la cosiddetta “sindrome del Chiavistello”, in inglese locked-in, abbiamo parlato in altri momenti: si tratta di un uomo che ha da tempo deciso che la sua condizione non è sopportabile. Totalmente paralizzato, grazie a costosi macchinari può comunicare attraverso il movimento delle palpebre e ha da mesi aperto un account Twitter dal quale racconta al mondo la sua battaglia.
KO AL PRIMO ROUND - Battaglia per il diritto a morire nella maniera che lui ritiene più opportuna, e che è arrivata davanti alle alte corti giudiziali del Regno Unito.
Che, si apprende dal Guardian, hanno rigettato la sua istanza e negato, dunque, l’esistenza a suo favore del diritto a morire. Insieme a lui si era presentato davanti al giudice un altro cittadino, interessato a farsi conoscere solo con il nome di “Martin”, la cui posizione è stata analogamente respinta dal tribunale. Il Lord Justice Toulson ha affermato che permettere ai due uomini di essere aiutati nella maniera in cui volevano, ovvero a “concludere le proprie vite”, avrebbe costituito un inammissibile precedente.
SEPARAZIONE DEI POTERI - “Non è nelle prerogative di questa corte decidere se la legge sul suicidio assistito debba cambiare e, se si, quali garanzie debbano essere ideate”, spiega il giudice Toulson: “Nella nostra forma di governo queste sono materie di competenza parlamentare, nella sua funzione rappresentativa della società, che devono passare al suo esame, e non a quello dei tribunali che giudica nei casi individuali”. Insomma, per definire la posizione di Tony serve una legge, e il giudice in una appassionata ma puntuale deliberazione chiarisce che decidere in una direzione piuttosto che in un altra sarebbe equivalso a violare le “prerogative del Parlamento”, nonostante gli avvocati di Tony Nicklinson abbiano invocato come base legale l’articolo 8 della Convenzione Europea dei Diritti Umani. La battaglia legale però non è finita.
UNA MORTE DIGNITOSA - Nicklinson aveva definito la sua condizione “triste, miserabile, deprimente, priva di dignità, intollerabile” e voleva così l’autorizzazione ad essere accompagnato verso una dolce morte. Dopo la pronuncia del giudizio ha “pianto incontrollabilmente” e ha affermato che per lui questa decisione equivaleva alla prosecuzione della tortura. Ovviamente i suoi legali presenteranno appello, ma questo per lui, ha detto, significa “un ulteriore periodo di sofferenza fisica e di angoscia mentale per me”. Le sue parole suonano terribili: “Mi sento miserabile, rinchiuso nella mia vita, senza la possibilità di fare alcunché per colpa della mia disabilità, e speravo che i giudici avrebbero accettato la mia decisione: io non voglio andare avanti e, dunque avrei dovuto avere una morte dignitosa”. Per ora, non è stato così. Sarà l’appello a confermare o a smentire la decisione del primo giudice.
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