Nel più immaginifico dei dialoghi Pilato chiede a Gesù: “Che cos’è la verità?”, ma il Messia, riferisce il vangelo di Giovanni, non proferì parola. D’altronde, per il Gesù dei vangeli, la verità è questione prettamente connessa alla fede in lui (“Ego sum Veritas”) poco consona ad una elaborazione intellettualistica. Cos’è la verità, dunque? I filosofi, in prevalenza, hanno risposto al quesito considerando la verità come evidenza attraverso l’arcinoto adagio adaequatio mentis et rei, e cioè corrispondenza dei concetti alla realtà delle cose. Questo fino a quella che viene definita, nei tempi nostri, la svolta linguistica della filosofia che da Wittgenstein in poi si è imposta (lo stesso Heidegger ne subì a suo modo il fascino). In particolare per Wittgenstein non esiste (o meglio non esiste più come si pensava un tempo) un rapporto univoco tra la realtà e il linguaggio, il mondo, infatti, può essere descritto da molteplici linguaggi. Cosicché, seguendo questa linea di pensiero, si deve ripensare al concetto di verità sovente legata, essa verità, alla sedimentazione di varie credenze che sbocciano in un determinato momento storico. Come bene ha spiegato Rorty, il parametro del controllo sulla verità non è più il mondo ma ha a che fare con le pratiche linguistiche di una certa epoca. Perelman rincara la dose sostenendo la forzatura intollerabile di un ragionamento che identificasse la verità con l’evidenza, facendo leva, a sostegno della sua tesi, su quegli ambiti che sfuggono, per statuto, alla logica formale di tipo matematico, come la politica, l’etica, il diritto.
Ma anche in campo scientifico a partire da Galileo certa evidenza comincia a suonare distorcente. Al fisico Spinoza del Deus sive natura, a Bacone che, dichiarava che bastava osservare e tutti potevano rendersi conto, per esempio, che il sole si muove e la terra stia ferma, il grande scienziato pisano opponeva il sistema copernicano che, contro ogni evidenza, e con la sola speculazione, affermava la teoria eliocentrica.
Eppure, sia nella logica matematica che nella filosofia della scienza, l’idea della verità come corrispondenza con i fatti ha continuato ad avere seguaci e non è stata del tutto accantonata, perché in essa molti hanno veduto la possibilità di avere una verità oggettiva escludendo l’elemento psicologico (soggettivo) che può indurre in errore. Classico è divenuto l’esempio per il quale se tutti fossimo ciechi non per questo non continuerebbero ad esistere i colori. A sparigliare tutto ci ha pensato il solito Heidegger. Il suo approccio alla questione sulla verità, per esempio, ha suscitato non poche polemiche perché ritenuto criptico, “inafferrabile e quindi inattaccabile” (per usare le parole di uno dei suoi più feroci critici, Adorno). La prospettiva di Heidegger, in effetti, concentratasi sulla estenuante ricerca del fondamento della domanda attorno alla Verità, è riassumibile nelle stesse sue parole: “La verità è sin dall’antichità un problema di logica: ma non è mai una domanda fondamentale della filosofia”. Ecco il salto che porta il filosofo tedesco a risalire alla radice prima dell’etimologia della parola che in greco, aletheia,è disvelamento, scoperta e manifestazione, e non mera corrispondenza. Ma così facendo Heidegger sconfina in una ontologia che rasenta l’irrazionalismo laddove non è più l’uomo a cercare la Verità, ma è proprio essa a svelarsi, in una dialettica più mistica che filosofica. Su questa linea anche Jaspers.
Come arrivare alla quadra? Avallando un comodo e ultraprudente negazionismo di tipo gnoseologico riguardo alla Verità? Invero, non è questo il fulcro del problema. Nessuno o quasi ha mai pensato di mandare in pensione Sua Signoria la Verità a costo zero. Semmai, a venir meno, è stata l’idea della Verità (con la “V” maiuscola) a favore di più modeste ma non meno dignitose verità (con la “v” minuscola). Consideriamo la/le verità scientifiche. Una verità immune da difetti ed errori? Tutt’altro. Scrive Popper: “Come la storia di tutte le idee umane la storia della scienza è una storia di sogni irresponsabili, di ostinazione e di errori. Ma la scienza è una delle pochissime attività umane, e forse la sola, in cui gli errori vengono criticati sistematicamente e, coll’andar del tempo, vengono corretti abbastanza spesso. Ecco perché possiamo dire che nella scienza spesso impariamo dai nostri errori, ed ecco perché possiamo parlare chiaramente e sensatamente del compiere progressi in scienza. In quasi tutti i campi dello sforzo umano c’è cambiamento, ma raramente c’è progresso”.
Non avere una verità assoluta (che comporterebbe altrettanti “assoluti” che la colgano) non vuol dire arrendersi allo scetticismo né negare che esistano dei criteri che possano guidarci. Altrove lo stesso Popper indulge verso una dialettica negativa dichiarando: “Non abbiamo a nostra disposizione nessun criterio di verità e questo fatto favorisce il pessimismo. Ma possediamo criteri che, se abbiamo fortuna, possono permetterci di riconoscere l’errore e la falsità. La chiarezza e la distinzione non sono criteri di verità, ma cose come l’oscurità e la confusione possono essere indizio di errore. Analogamente, la coerenza non può stabilire la verità, ma l’incoerenza e la contraddittorietà stabiliscono la falsità”. L’asserzione delle verità scientifiche non trova la sua forza sul fondamento di una granitica inossidabilità ma sul principio di una intrinseca vulnerabilità, sul valore sempre transeunte delle proposizioni, valide fino a prova contraria, perfettibili dunque perfezionabili.
La Verità, o meglio, la verità, dunque, tra soggettivismo ed oggettivismo, tra idealismo e realismo, tra Tarski e Gȍdel insomma, può essere affrontata con un sereno distacco, tipicamente laico, partendo dal presupposto, che è più di una certezza morale, che in fondo la Verità-Una ha un sapore menzognero, come Verità oscurante. Ricordate il nome di quel giornale sovietico, che brandiva il punto di vista del regime, e non a caso si chiamava Pravda (in russo “verità”)?
In una prospettiva ateo-agnostica, la verità può essere vista solo come orizzonte di una ricerca mai paga. La si raggiungesse, smetteremo di cercare e finanche di sognare, ci divorerebbe come Crono con i suoi figli. Che la nostra sete verso la verità non sia mai pienamente appagata, mentre si ristora a piccoli sorsi, non può che essere una benedizione. Intanto ci spinge verso nuove avventure di pensiero, guidati dalla timida fiammella della ragione, verso nuovi mondi dove montare la nostra tenda itinerante, senza piantare troppo in profondità i picchetti, nell’illusione di convolare verso il definitivo climax (Stefano Marullo).
http://www.uaar.it/news/2012/08/13/sulla-verita/