Al Festival della Mente di Sarzana, il 2 settembre (alle ore 19), il filosofo della scienza dell’università Bicocca di Milano terrà una lectio magistralis dal titolo “La nascita della mente: come siamo diventati sapiens”. Ne pubblichiamo uno stralcio
Le più suggestive manifestazioni dell’intelligenza simbolica umana appaiono intorno a 40-35mila anni fa. Nulla di simile riscontriamo, finora, nella documentazione relativa alle altre quattro forme umane che hanno condiviso con noi la Terra fino a tempi recenti, ciascuna intelligente a modo suo. La nostra specie, però, sul piano morfologico e genetico era nata in Africa molto tempo prima, circa 200mila anni fa. Perché anatomia e intelligenza non procedono insieme? Una delle più interessanti questioni irrisolte della nostra storia naturale riguarda proprio il divario temporale fra le “due nascite” di Homo sapiens.
Forse il gap temporale è solo apparente, dovuto a mancanza di documentazione o a lunghi periodi di riduzione della popolazione umana durante le fasi glaciali. Altri studiosi propendono invece per l’idea che la nostra specie avesse fin dall’inizio le potenzialità fisiche e cerebrali per esprimere questi comportamenti, sviluppatesi per ragioni connesse a esigenze adattative precedenti, ma che solo un innesco successivo abbia sprigionato quelle risorse. È un fenomeno di “cooptazione funzionale” che gli evoluzionisti chiamano “exaptation”: una struttura si evolve per una certa funzione, o come effetto collaterale di altre, e poi viene riutilizzata per funzioni nuove in altri contesti. Il nostro cervello non si è certo evoluto per leggere e scrivere, o per scoprire i segreti dell’universo, ma è capace di farlo.
La nozione di exaptation è un ottimo strumento, figlio degli aggiornamenti attuali della teoria neodarwiniana, per unire in un quadro esplicativo coerente l’evoluzione biologica e l’evoluzione culturale di Homo sapiens. Nella molteplicità di forme umane differenti, agli inizi noi rappresentavamo una novità, ma non esattamente una rivoluzione. Ciò che ci distingueva era un’anatomia slanciata da clima secco, la faccia piatta, la fronte alta, un’infanzia allungata oltre misura (dettaglio cruciale, perché ha dilatato il periodo infantile di apprendimento imitativo, sociale e linguistico al fianco della madre), una promettente organizzazione sociale per reti di piccoli gruppi, e certamente una spiccata attitudine alla dispersione in nuovi territori. A partire da 120mila anni fa, Homo sapiens esce infatti dall’Africa, in più ondate successive, occupando prima Asia ed Europa, e poi Australia e Americhe.
Durante questo processo espansivo succede qualcosa, e qui sta il cuore dell’enigma. Che cosa è successo? E dove esattamente? In virtù di quali novità evolutive? Le prime avvisaglie sono in Africa, come sempre: nella grotta di Blombos, a sud di Città del Capo, alcuni pezzi di ocra di 75mila anni fa presentano per la prima volta segni regolari incisi, come di un calcolo o di una figura stilizzata. Grazie a datazioni sempre più sofisticate, gli studiosi sono riusciti oggi a identificare due “fiammate culturali” successive, intorno a 71-70mila e a 65-60mila anni fa, sempre in Sudafrica, in un periodo di oscillazioni climatiche e demografiche nella regione. Le innovazioni culturali sembrano nascere in piccoli gruppi e avere poi un destino differenziale legato alla capacità di espansione demografica, sociale e territoriale. Poche migliaia di anni dopo, un altro gruppo di cacciatori-raccoglitori sudafricani manifesta un’esuberanza culturale inedita.
Qui si unisce un indizio molecolare affascinante. I componenti di quest’ultima popolazione sono i portatori di una variante mitocondriale africana (L3), che è posseduta, come matrice, da tutti i non africani di oggi. Abbiamo forse trovato una traccia genetica del gruppo iniziale di pionieri che, partiti dall’Africa meridionale in un’ondata finale intorno a 60mila anni fa, hanno colonizzato tutto il mondo, portando poi indirettamente all’estinzione le altre forme umane a causa del loro successo demografico. Ma non basta: nella stessa regione sudafricana troviamo ancora oggi il picco massimo di variabilità genetica. Lo scrigno della ricchezza genetica umana appartiene ai nomadi cacciatori-raccoglitori khoi-san (peraltro sempre più minacciati di estinzione). La diversità decresce progressivamente allontanandosi dalle loro terre, in accordo con il modello di Luigi Luca Cavalli Sforza dell’«effetto del fondatore in serie». È un altro indizio del fatto che il ceppo di origine dell’ultima ondata è probabilmente partito proprio da lì.
Negli ultimi mesi il dibattito si è scaldato perché a questi dati archeologici e genetici si è aggiunta la possibile convergenza di un’evidenza linguistica. Il biologo Quentin Atkinson ha infatti pubblicato su Science lo schema di un corrispondente picco nella variabilità dei fonemi delle lingue del mondo, la quale poi decresce allontanandosi dal Sudafrica proprio come la diversità genetica. Il dato linguistico è stato messo in discussione e ha bisogno di verifiche, ma potrebbe non essere una coincidenza. Forse la rivoluzione paleolitica, come exaptation cognitivo innescato dal linguaggio articolato completo, è stata fisicamente portata da un gruppo di Homo sapiens africani che 60mila anni fa hanno dato avvio all’evoluzione culturale umana e contestualmente hanno colonizzato l’intero pianeta, trasformandolo nella loro nicchia ecologica globale (una nicchia ora anche simbolica). Quei nostri antenati sapevano inventare mondi alternativi nelle loro teste. Erano donne, uomini e cuccioli con un oceano di creatività davanti a sé.
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