In un articolo pubblicato su Scientific American, dal titolo (bello peraltro) The Right Way to Get It Wrong, ma che – ahimè – non potete leggere gratis, David Kaiser, storico della scienza che insegna al Dipartimento di Fisica del MIT, racconta come certi errori compiuti dagli scienziati a caccia del come e del perché delle cose piuttosto che frenare possano aiutare lo sviluppo della conoscenza scientifica. Tra gli esempi che cita ve ne sono alcuni noti (Bohr, per il suo modello dell’atomo e gli esperimenti di Fermi che portarono alla scoperta della fissione nucleare) e altri meno noti (il FLASH system di Nick Herbert descritto nel dettaglio in un altro articolo, questo, pubblicato sulla stessa rivista). Mischia capre e cavoli Kaiser, secondo me, e qui provo a spiegare il perché.
Una premessa. Tutto questo interesse nasce da un libro dello stesso Kaiser dato alle stampe lo scorso anno, How the Hippies Saved Physics: Science, Counterculture, and the Quantum Revival (che da qualche mese si trova in edizione italiana per merito di Castelvecchi: “Come gli hippie hanno salvato la fisica”) che Federico Rampini aveva entusiasticamente, ma in maniera un po’ maldestra, recensito su La Repubblica (sto ancora cercando di capire cosa diavolo sia per lui il “quantum”). Si tratta del racconto di un pezzo di storia della fisica, quella fatta da alcuni ricercatori dell’Università di Berkeley che negli anni settanta del secolo passato si riunirono in un gruppo chiamato Fundamental Fysiks per discutere, in maniera a dir poco informale, le implicazioni filosofiche della teoria dei quanti. Un po’ mi spaventa parlarne, ve lo confesso, non si può mai sapere quanti seguaci del quantum animism si possano trovare in giro e non mi stupirebbe scoprirne parecchi, son cose che la gente ci vuole credere e non ci puoi ragionare. In ogni caso si tratta di un pezzo di storia molto piccolo, che probabilmente Kaiser sopravvaluta, assolutamente non paragonabile a quanto era accaduto da quelle parti un decennio prima. È in questo libro che trovate la storia di Nick Herbert e del “FLASH paper”, un articolo pubblicato nel 1982 su Foundation of Physics, rivoluzionario a prima vista ma, soprattutto, sbagliato.
Herbert da come si presenta ora (quantum tantra è il nome del suo blog) lo capisci che più che essere un tipo fuori dagli schemi è, non so, una specie di caricatura del fisico controcorrente. In ogni caso, sprovveduto o meno che fosse, nel 1982 si vide pubblicare questo lavoro in cui sosteneva che era possibile immaginare un dispositivo (il First Laser-Amplified Superluminal Hookup, FLASH appunto) in grado di consentire la trasmissione superluminale (più veloce della luce) dell’informazione, un aggeggio basato sull’ipotesi che fosse possibile costruire delle copie perfette (cloni) di un generico stato quantistico. Si trattava di un classico esperimento mentale insomma, una pura costruzione del pensiero i cui risultati venivano derivati applicando le leggi della fisica. Herbert le aveva applicate male ma aveva incuriosito i suoi colleghi impegnati in ricerche analoghe. Tra questi in particolar modo Dennis Dieks e ancora Wojciech Zurek e Bill Wootters che pubblicarono lo stesso anno su Nature un articolo che rappresenta una pietra miliare nella storia della meccanica quantistica, A single quantum cannot be cloned, quello che contiene la dimostrazione del teorema di no-cloning (che, roughly speaking, afferma che non può esistere un dispositivo in grado di clonare un generico stato quantistico) ottenuta anche confutando gli argomenti di Herbert.
La tormentata vicenda editoriale del papero la racconta in How the no-cloning theorem got its name Asher Peres, il referee che ne approvò la pubblicazione, uno dei pionieri della teoria dell’informazione quantistica (la cui vicenda personale è raccontata in questo pdf, una breve autobiografia dal titolo che strizza l’occhio a Kipling, “I am the Cat who walks by himself”, ospitata in un volume speciale di Foundation of Physics a lui dedicato). Peres racconta il suo tormento, di come capisse che in quel lavoro vi fosse qualcosa di sicuramente sbagliato che andava indagato nel dettaglio, molto più a fondo di quello che si poteva fare nelle poche righe di un referee’s report (di sicuro trovarsi di fronte la violazione della teoria della Relatività speciale non era proprio un bel segnale che le cose filassero liscie) e sostiene come la sua decisione di raccomandarne la pubblicazione gli fosse stata suggerita dalla convinzione che il lavoro avrebbe comunque suscitato notevole interesse nella comunità dei fisici e che la ricerca dell’errore avrebbe portato a significativi progressi nella comprensione della fisica. Questa cosa la scrive nel 2002 e non abbiamo motivi per dubitare che nel 1981 la pensasse davvero così. “(…) il lavoro sbagliato di Nick Herbert è stato una scintilla che ha generato un progresso immenso.” conclude e mette le mani avanti: “Ci sono anche molti articoli sbagliati che sono stati pubblicati in riviste autorevoli, alcuni dei quali da parte di scienziati di fama. La loro influenza negativa può durare per anni. Per questi, declino ogni responsabilità. Non ero il referee di questi articoli e non ho potuto proteggere la buona reputazione dei loro autori.”
A me questa cosa pare un po’ strana, generalmente gli articoli sbagliati vengono pubblicati perché nessuno si è accorto dell’errore, mica per altro. E poi si “sbaglia” in tanti modi, si trascura qualcosa che non andava trascurato magari, o si sopravvalutano aspetti superflui, dettagli che si riveleranno di poca importanza e che invece distolgono lo sguardo dal cuore del problema, o si sbaglia e basta, amen, qualcuno prima o poi se ne accorgerà e lo dirà. Peres pare invece disarmato, cerca di coinvolgere l’intera comunità scientifica nella discussione rendendo pubblico il lavoro, pensa, credo, che uno scambio di lettere tra autore e referee non sia sufficiente a sciogliere i nodi della intricata vicenda, chiede una specie di open peer review quando il web non è neanche all’orizzonte. L’unico modo per diffondere è stampare. Si stampi.
Peres non è però l’unico arbitro della vicenda, c’è pure un importante fisico italiano a giocare la stessa partita, GianCarlo Ghirardi, docente di Fisica teorica all’Università di Trieste e autore di questo libro che vale la pena di leggere, che nel suo referee’s report non solo raccomanda di non pubblicare nulla ma deriva e include il teorema di no-cloning in una forma praticamente identica a quella presentata un anno dopo Wootters e Zurek. Il suo consiglio non viene ascoltato e decide così di chiarire nel dettaglio le sue critiche in un articolo scritto con Tullio Weber e pubblicato nel 1983 sul Nuovo Cimento (G. C. Ghirardi and T. Weber, Nuovo Cimento 78B (1983) 9). Ghirardi stesso ne parla in maniera distaccata in Some reflections inspired by my research activity in quantum mechanics (GianCarlo Ghirardi 2007 J. Phys. A: Math. Theor. 40 2891) sottolineando come si tratti tutto sommato di una vicenda per lui marginale.
È dunque vero che lo sforzo di capire il lavoro di Herbert può aver accelerato la scoperta del teorema di no-cloning e di tutto quello che ne è seguito, ma se c’è da stabilire un merito, una primogenitura, questa va a Ghirardi che ha svolto in maniera propria la sua funzione di referee, è quella la cosa da mettere in evidenza, non la catena di errori che parte da Herbert, passa per Peres e termina con la decisione sbagliata di un editor distratto.
Per chiudere e tornare all’articolo di Kaiser citato all’inizio di questo post, voglio aggiungere che il paragone di questa con altre vicende, ben più importanti, non regge affatto. Non si tratta di un modello di cui si sono compresi i limiti e che può essere compreso in una teoria più generale, non si accorda ai risultati di nessun esperimento, non spiega nulla e non rimarrà nella storia della fisica per averne chiarito alcuni aspetti. Il modello di Bohr, per quanto “sbagliato”, ne chiarisce invece parecchi ed è una specie di rito di passaggio per qualunque studente di fisica. Il FLASH system non lo sarà mai, rimarrà per sempre nelle note a piè di pagina dei libri di quantum information o il pretesto per raccontare una storia di sesso, droga e rock’n'roll.