Il regime di Franco rapiva i figli dei partigiani per darli a famiglie vicine alla dittatura. Si parla di 30mila neonati. Venduti con l’aiuto della Chiesa.
All’inizio della dittatura franchista fu ideato e usato come strumento di repressione politica. Il regime toglieva i neonati alle madri sospettate di idee socialiste, anarchiche o repubblicane per darli a famiglie vicine al regime, politicamente e religiosamente “corrette”. Secondo Francisco Franco questo era un modo per impedire che il virus della rivoluzione si diffondesse. Così la prassi di rubare i bambini ai partigiani si consolidò in Spagna negli anni 40 e ‘50. Per proseguire poi ben oltre la caduta del regime e la morte di Franco, avvenuta nel 1975. Poi questa prassi criminale diventò un business per un’ampia rete di istituti religiosi e apparati di Stato. Talmente redditizio e così radicato da continuare indisturbato durante la cosiddetta transizione democratica “morbida”. L’ideologo dell’operazione per conto del dittatore Franco fu Antonio Vallejo Naiera, uno psichiatra militare che teorizzava la superiorità della “razza ispanica” e il diritto a sottomettere quelle “inferiori”, come erano ritenuti “los rojos” (i rossi) antifascisti. Il braccio armato del traffico criminale furono le insospettabili suore di ospedali ed enti cattolici. In cambio di denaro erano loro a stilare falsi certificati di morte dei neonati da mostrare alle madri naturali prima di affidarli, sotto falso nome, ad altre famiglie.
I bambini rubati furono almeno 30mila. Lo ha stimato il giudice Baltasar Garzon che per primo nel 2009 ha avviato un’indagine (poi archiviata) sui desaparecidos del franchismo. Una cifra confermata dagli studi di Randy Ryder, storico di origini catalane che vive ad Austin negli Usa. È anche lui una delle tante vittime. Sua madre era sterile e suo padre, Rudolph Ryder, prima di morire ha detto di aver versato 5mila dollari alla clinica di San Ramon di Malaga per avere un bimbo in adozione. Ryder ha fatto ricerche minuziose in particolare sul Patronato di Sainte Paul. Questa istituzione religiosa fra il 1944 e il 1954 ha fornito al ministero di Giustizia franchista circa 31mila neonati per rispondere a ordini di adozione di famiglie fedeli al regime. Si trattava di figli di militanti repubblicani, provenienti da 258 ospedali diversi. I responsabili, dunque, sono ben conosciuti. Le dimensioni dello scandalo molto meno. Secondo le associazioni iberiche impegnate nella ricerca dei “niños robados”, non si può escludere che il numero delle adozioni illegali possa essere dieci volte superiore a quello calcolato da Garzon: si parla di circa 300mila vittime vendute fino agli anni 90 inoltrati. Per fare piena luce sulla vicenda, il fascicolo è stato riaperto nella seconda metà del 2011. Sulla base delle prime verifiche, tuttora in corso su un migliaio di casi, Antonio Barroso Berrocal, presidente di Anadir (che ha fondato una speciale banca dati del Dna e riunisce centinaia di possibili vittime: genitori, figli, fratelli) ha osservato di recente che la Spagna è stata per decenni una sorta di «supermercato mondiale» della compravendita di neonati. Durante il regime clericofascista di Franco e anche oltre, numerosi «cittadini stranieri sono venuti per comprare neonati in forma illegale», dice Berrocal. Ma il traffico «si è sviluppato soprattutto nel Paese, con la complicità di medici, infermiere, suore, levatrici e forze di polizia. Solo in alcuni casi i compratori venivano ingannati, dicendo loro che i bimbi erano figli abbandonati, di prostitute o di tossicomani».
E non è l’unica testimonianza. Negli ultimi anni anche i media spagnoli hanno cominciato ad occuparsi di questa inaccettabile tratta di esseri umani. E sono state decine e decine le storie che sono venute finalmente alla luce. Anche grazie a programmi tv come la versione spagnola di Chi l’ha visto?. Suscitando una forte indignazione nell’opinione pubblica. Specie quella più laica. Adesso anche intellettuali e scrittori cominciano a far sentire la propria voce. Fra questi anche autori popolari come Almudena Grandes. L’autrice de Le età di Lulù è in questi giorni a Torino, ospite del Salone del libro che quest’anno ha scelto la Spagna come Paese ospite (insieme alla Romania). Sabato 12 maggio presenta in fiera il suo ultimo libro, Inés e l’allegria (Guanda), un romanzo storico che ricostruisce alcuni episodi poco noti della resistenza spagnola e il ruolo fondamentale che vi ebbero le donne. Incontrandola, l’accento del colloquio è subito caduto su questa vicenda iberica tristemente simile a quella dei desaparecidos e degli hijos (figli) rapiti dalle milizie fasciste durante l’ultima dittatura argentina. «La Spagna ha molti primati. Noi abbiamo sperimentato tutto per primi – commenta ironica la scrittrice -. Compreso questo sistema violento adottato poi dalla dittatura argentina. Purtroppo, quasi tutto l’orrore del XX secolo è cominciato in Spagna». Chi teorizzò questo sistema agghiacciante? «Con psichiatri e medici compiacenti, il regime franchista decise che il marxismo era un gene. E che era il gene del male. Per questo andava estirpato dai bambini fin dalla nascita. Dicevano che bisognava salvarli dal contagio marxista e socialista. Con questo pensiero – continua la scrittrice - cominciarono a strappare i figli alle partigiane, alle donne che avevano i mariti in clandestinità, per fiaccarli anche togliendo loro gli affetti». Dunque un’operazione pianificata a tavolino? «Gli uomini di Franco presero una decisione lucida, dal loro punto di vista scientifica, certamente sistematica » sottolinea la Grandes. E aggiunge: «Ancora dopo la guerra nelle carceri femminili rubavano i figli alle prigioniere politiche, se un bimbo si ammalava lo portavano in infermeria e non tornava più. Alla madre dicevano che era morto. Addirittura il regime aveva aperto un carcere speciale per le donne che allattavano in modo da avere sotto controllo loro e i loro piccoli».
Quanto al traffico di adozioni illegali che divenne lucroso affare per enti “benefici” e religiosi fino dagli anni 70, «già, partigiane in età fertile non ve n’erano più tante -commenta sarcastica la Grandes -così hanno cominciato ad attingere ad altre fonti: donne sole, ragazze madri, disagiate. Medici e suore si approfittavano dell’anello più debole della società. Erano persone perlopiù senza gli strumenti necessari per portare avanti una protesta e opporsi a questo orrore. Chi si sentiva dire da un medico o da un prete che il proprio figlio era morto, pur sospettando la menzogna non aveva nessuna possibilità di replica, di agire o di reagire. Non bisogna dimenticare poi – conclude la scrittrice - che il regime aveva imposto un tale terrore che nessuno osava parlare». Sotto la dittatura, la consegna al silenzio e la paura era d’obbligo. Nessuno per decenni ha avuto il coraggio di denunciare. Ma negli ultimi anni testamenti e confessioni hanno cominciato ad aprire una breccia nel muro di omertà. Ci sono genitori adottivi che hanno rivelato di aver avuto bambini da istituzioni religiose, con falsi certificati di nascita. Coperti dalla legge del 4 dicembre del 1941 che permetteva di registrare con un diverso nome i figli di prigionieri, esiliati e clandestini. Alcune suore hanno confessato il proprio ruolo in organizzazioni di carità che in verità vendevano bambini rapiti. Altre come suor Maria Gomez Valbuena, imputata di 260 casi di bambini spariti, in tribunale a Madrid lo scorso 14 aprile si avvalsa della facoltà di non parlare. Sul quotidiano El Pais ha fatto molto scalpore il caso di una donna, Liberia Hernandez, che da anni cercava la propria madre naturale. Ma anche quello di Arturo Reyes che, invece, ha scoperto la verità in occasione di uno spostamento dei resti di quello che credeva suo figlio al cimitero andaluso di Cadix. Una cosa simile è accaduta a Francesca Pinto. E in Andalusia, a poco a poco, sono stati documentati 300 casi analoghi. Per l’opinione pubblica è stato uno choc. Ne è nata una spontanea raccolta di firme per la riapertura immediata delle fosse comuni. C’è poi il caso di una suora di clausura che ha inaspettatamente rotto il suo lunghissimo silenzio a 73 anni, rivelando un traffico di neonato avvenuto per anni nel reparto maternità di una clinica di Tenerife. Si è scoperto così che la capillare organizzazione criminale ha continuato a funzionare a pieno regime fino alla fine degli anni 70, vendendo decine di migliaia di bambini. Ma la legge sull’amnistia varata nel 1977 ha messo tutto a tacere. Impedisce ancora oggi di rendere giustizia alle vittime. Nel 2008 le associazioni delle vittime hanno chiesto al governo socialista guidato da Josè Luis Zapatero di metterla in discussione, ottenendo inspiegabilmente un netto rifiuto.
Al termine del mandato di Zapatero sono tornate alla carica con il suo successore, il conservatore Mariano Rajoy, sollecitando l’avvio di un’inchiesta parlamentare. Incassando anche in questo caso un secco no. Per tutta risposta, le vittime hanno deciso di cambiare strategia e di accendere i riflettori sulla vicenda attraverso una grande manifestazione pubblica che si è tenuta a Madrid il 27 gennaio scorso davanti agli uffici del procuratore generale dello Stato. La Spagna fiaccata dalla crisi economica ha reagito tiepidamente dopo una iniziale fiammata dei media che hanno dato risalto alla notizia dando nuovamente voce ai “survivors”. A persone come Carmen, per esempio, che ha passato 42 anni a cercare una sorella, nata cinque minuti dopo di lei nell’ospedale Donnell di Madrid, noto anche come clinica del Generalissimo Franco. Alla madre era stato detto che la sua seconda bambina era morta. «Ai giornalisti e a tanti lettori piacciono sempre queste storie che “sentimentalizzano” l’ingiustizia; il rapimento di poveri bambini è un bell’argomento per riempire le pagine dei giornali e per riempirci di santa indignazione» sentenzia amaro lo scrittore spagnolo José Ovejero, anche lui al Salone del libro per presentare il suo ultimo libro Come sono strani gli uomini (Voland).
«Certamente è una tragedia - precisa Ovejero -, una delle molte provocate da un regime che considerava gli oppositori come nonpersone. I franchisti si sentivano in diritto di impiccare uomini e donne che non la pensavano come loro, allo stesso modo ritenevano giusto prendersi i loro figli. Secondo questa logica è anche una buona azione perché così li sottraevano alle cattive influenze dei loro genitori. Esattamente la stessa folle dinamica si è verificata in Cile ed in Argentina con Pinochet e la dittatura dei militari». Sullo sfondo di questa immane tragedia spagnola c’è un’ulteriore analogia con quanto accaduto in America latina: la parte attiva, raramente denunciata e indagata a fondo, delle istituzioni cattoliche nelle azioni criminali intraprese dai regimi fascisti ai danni di donne e bambini. «Chiesa cattolica e fascismo sono alleati naturali in Spagna» commenta lo scrittore Ricardo Menéndez Salmón, che in alcuni romanzi (editi in Italia da Marcos y Marcos) ha indagato a fondo la storia spagnola e gli orrori del nazifascismo. «La collusione del regime di Franco con la Chiesa sono ben note -aggiunge – e, per fortuna, sono state studiate: durante la dittatura, la religione è stata una pietra miliare nell’educazione morale e ideologica degli spagnoli. Spagna franchista e cattolicesimo non solo andarono a braccetto, ma, a rigor di termini, sono la stessa cosa. Per quanto possa sembrare aberrante, rapire bambini faceva parte della logica feudale che ha “guidato” il nostro Paese dal 1939 al 1975. Inoltre la destra spagnola ha sempre avuto una visione estremamente materialista, pragmatica, della propria funzione politica: la Spagna è semplicemente un suo possedimento. Da questa base perché allora non prendere i figli dei “rojos” per rallegrare le case di famiglie imparentate con il regime?».
http://www.left.it/2012/05/12/ladri-di-bambini/3831/