Il riaprirsi del caso Orlandi, i nuovi documenti in fuga dal Vaticano, la vicenda Boffo, gli eterni interrogativi sulle passate gestioni dello Ior riportano in primo piano il male di fondo, che corrode l’immagine della Chiesa, oscurando anche l’impegno di solidarietà svolto da fedeli e preti, suore e vescovi in tante parti del mondo.
È un male che si chiama opacità dinanzi agli scandali, paura della trasparenza, testardo rifiuto di accettare il fatto che dare risposte all’opinione pubblica è un dovere, non una concessione. Dice l’ex sostituto procuratore generale Giovanni Malerba, che si occupò del rapimento di Emanuela Orlandi: “La Santa Sede non collaborò alle indagini“. È un’affermazione grave e ancora più grave è che si tratta di verità.
In quel groviglio di telefonate misteriose a segreti numeri di telefono del palazzo apostolico, che contrassegnò i tentativi andati a vuoto di allacciare una trattativa con i rapitori, il Vaticano non ha incoraggiato i propri funzionari – chierici o laici che fossero – a rispondere incondizionatamente alle domande degli investigatori italiani. Il guaio è che la stessa reticenza si era già manifestata con l’attentato del 1981 a Giovanni Paolo II. Un anno prima il capo dei servizi segreti francesi Alexandre de Marenches mandò a Roma una delegazione composta da un generale e da un monsignore per avvertire la Santa Sede della preparazione di un attentato contro il pontefice. È storia.
L’incredibile è che a trent’anni di distanza in Vaticano sostengono di non sapere nulla di questa missione. Don Georg, segretario particolare di Benedetto XVI, potrà un giorno raccontare nei suoi diari – se lo vorrà – come è potuto accadere che papa Ratzinger non abbia portato in Curia una fresca ventata di rigore tedesco e si sia lasciato invece irretire nella ragnatela di secolari abitudini vaticane, tendenti a occultare la sporcizia.
Da giovedì, da quando è in libreria il libro di Gianluigi Nuzzi e il Fatto ha pubblicato la lettera inquietante di Dino Boffo al cardinale Bagnasco, è sul tappeto un documento incredibile. Nero su bianco è certificato che un direttore dell’Avvenire accusa direttamente dinanzi al Papa (con fax al suo segretario particolare) il direttore dell’Osservatore Romano Giovanni Maria Vian di aver passato a Feltri i documenti calunniosi, che lo dipingevano come omosessuale molestatore. E non succede niente!
Il Vaticano diffonde una nota per dire che la pubblicazione di documenti segreti è un “atto criminale… che viola la privacy e la dignità” del Papa e non va al nocciolo della questione. Vian, direttore dell’organo ufficiale della Santa Sede, e Boffo – ora direttore della Tv dei vescovi – sono tranquillamente al loro posto. Una situazione impensabile in qualsiasi paese. Boffo per di più si dichiara “felice che un po’ di verità sia fatta”. In tutto questo fedeli e opinione pubblica apprendono che Boffo – a domanda di don Georg Gaenswein – risponde di non essere omosessuale (cosa di per sé non vergognosa) e a nessuno nell’appartamento papale e ai vertici della Conferenza episcopale italiana viene in mente che Boffo dovrebbe anzitutto presentarsi all’opinione pubblica e quindi alla stampa italiana per spiegare per quali motivi sia stato riconosciuto colpevole dalla magistratura di Terni e come mai abbia accettato un’ammenda penale per molestie e poi abbia sepolto la querela contro Feltri, che lo accusò in maniera infamante. C’è una frase chiave nella lettera che papa Ratzinger scrisse nel 2010 ai cattolici d’Irlanda a proposito dei silenzi sugli abusi sessuali del clero. Si manifestò, disse il pontefice, una “preoccupazione fuori luogo per il buon nome della Chiesa e per evitare gli scandali”.
Quest’ansia di nascondimento, questo muro di opacità eretto immediatamente appena esplode un caso, è un fenomeno che nella Chiesa romana perdura tuttora. Quale altro motivo può spingere, ad esempio, la Segreteria di Stato a perorare la causa di una non-retroattività della trasparenza delle operazioni bancarie dello Ior?
Sulla scrivania di Benedetto XVI la sporcizia si accumula. La domanda è perché non reagisce “alla tedesca”, costringendo alla pulizia. La svolta non arriva mai. Giorni fa l’Avvenire ha chiesto a Formigoni di ammettere che è stato ospite del lobbista Daccò. All’arrogante replica di avere pagato in proprio le vacanze ai Caraibi, il giornale dei vescovi non ha risposto informando i suoi lettori che in mancanza di esibizione dei bonifici, Formigoni è inadatto a guidare la Lombardia e l’Expo.
di Marco Politi | 20 maggio 2012
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