Non si può negare l’esistenza di vittime. Ma non si può nemmeno negare l’esistenza del vittimismo. Recentemente abbiamo discusso di islamofobia e di cristianofobia. Ma anche noi, atei e agnostici, non rinunciamo a presentare rapporti all’Onu sulle discriminazioni che subiamo. L’ha fatto l’Iheu, di cui fa parte l’Uaar in rappresentanza dell’Italia, e l’ha fatto la stessa Uaar, parlando di “ateofobia” in occasione di dichiarazioni palesemente discriminatorie come quelle dell’ex ministro degli esteri Franco Frattini. Ha senso usare questi termini?
Il rifiuto del “diverso” viene dalla notte dei secoli. Potrebbe addirittura avere origine biologica, guardando come funzionano le società dei nostri cugini primati. L’antropologia ha da tempo messo a punto il concetto di “etnocentrismo” per definire la valutazione delle altre culture a partire dalla propria: una valutazione, beninteso, quasi ovunque negativa. La realtà positiva è quella della comunità, dell’ingroup, del Noi, e si ferma ai confini del villaggio. Fuori ci sino gli Altri, i diversi: non solo rappresentano una minaccia potenziale, ma costituiscono anche la rappresentazione di ciò che la comunità non è, un modello negativo su cui forgiare la propria identità e garantirle quindi omogeneità.
"Con fatica troverete confessioni maggioritarie favorevoli al pluralismo non solo a parole"
Le religioni non funzionano diversamente: sono un elemento identitario fortissimo, secondo solo alla lingua. E tendono, più o meno tutte, all’omogeneità. Si sente spesso dire che le religioni sono un fenomeno coesivo: certo, ma soltanto perché impongono l’omogeneità. Con fatica troverete confessioni maggioritarie favorevoli al pluralismo non solo a parole, ma anche nella pratica. Il dissenziente è più o meno sempre scomunicato e laddove la legislazione si adegua alla dottrina, anche punito dal braccio secolare.
Le società democratiche, tuttavia, sono tali proprio perché affermano il pluralismo come un valore. In fin dei conti, i conflitti Stato-Chiese hanno tutti radice nel tentativo di impedire che le dottrine esclusiviste religiose diventino leggi applicabili a tutti.
L’affermazione del pluralismo come valore deve tuttavia accompagnarsi a una concezione altrettanto importante: quella dell’uguaglianza di fronte alla legge. Che non va concepita come se tutte le credenze, le opinioni e i comportamenti avessero lo stesso valore, ma che nessuna credenza, opinione e comportamento può godere di speciali privilegi di legge. Un malinteso concetto di multiculturalismo può portare all’accomodazionismo nei confronti delle richieste più assurde, a giustificare eccezioni al diritto solo sulla base dell’appartenenza religiosa.
Un atteggiamento assai diffuso tra chi più è sensibile nei confronti del “diverso”, ma che spesso ottiene risultati opposti a quelli auspicati dai suoi stessi sostenitori. Al “diverso” non deve essere chiesto di adeguarsi, ma deve essere chiara la sua presa di distanza da comportamenti e ideologia ritenute liberticide e deve essere altrettanto chiaro che la sua richiesta di privilegi esclusivi rischia di esacerbare i conflitti, anziché sedarli. In caso contrario, il “diverso” che si presenterà con tali pessime credenziali porterà soltanto acqua al mulino degli identitaristi, che amano attaccare altri identitaristi. Non è nascondendo la testa nella sabbia cercando di cambiarli che si potrà risolvere un problema atavico.
"solo un surplus di impegno del “diverso” contribuirà a evitare sia l’assimilazione forzata, sia l’eterno conflitto"
Lo notava già John Stuart Mill, oltre un secolo e mezzo fa: “La peggior scorrettezza consiste nel bollare gli oppositori come morali e immorali. [...] In generale, le opinioni minoritarie possono sperare di essere ascoltate solo usando un linguaggio studiatamente moderato ed evitando con ogni cura di offendere inutilmente chiunque, pena la perdita di terreno a ogni minima deviazione sa questa linea; mentre, impiegato dal lato dell’opinione prevalente, il vituperio più scatenato è un deterrente reale, che distoglie la gente dal professare opinioni non conformiste e dall’ascoltare chi le professa”. Volenti o nolenti, solo un surplus di impegno del “diverso” contribuirà a evitare sia l’assimilazione forzata, sia l’eterno conflitto.
Perché il conflitto, salvo rari casi, ha luogo tra una comunità di maggioranza e una o più comunità di minoranza. Con la prima che, sempre salvo rari casi, sfrutterà la sua posizione per attaccare chi non ne fa parte (e per “attaccare” non intendiamo ovviamente la critica legittima espressa pacificamente). Se vogliamo dare un senso a parole che finiscono per -fobia, sarà utile utilizzare una scala. Esiste infatti una scala dell’odio: parte dalla creazione e diffusione di stereotipi negativi, sale per la considerazione d’inferiorità, prosegue con la demonizzazione pubblica, giunge alla richiesta di discriminazioni legislative e sfocia infine nella violenza, sia quella privata sia, in modo ancora più intollerabile, nel legalizzare e comminare condanne a morte.
"risulta evidente che chi meno ha da gridare alla persecuzione sono i musulmani"
Se questa è la scala dell’odio, risulta evidente che chi meno ha da gridare alla persecuzione sono i musulmani: perché solo in paesi a maggioranza musulmana è prevista addirittura la pena di morte per chi non la pensa (più) allo stesso modo. I cristiani, che pure la prevedevano e la pretendevano in passato, ora si sono (sono stati) ammorbiditi. Organizzazioni rappresentanti atei e agnostici non l’hanno mai chiesta. E questo maggior rispetto è attestato anche da inchieste, come il World Value Survey, che mostrano come i non credenti abbiano meno problemi ad avere come vicini persone con “diversa” opinione sulla religione. Ma anche immigrati, ragazze madri, omosessuali.
A proposito. A ben guardare, sono proprio questi ultimi i più discriminati. La pena di morte nei loro confronti è prevista in diversi paesi islamici. E in tanti altri, come l’Italia, l’omofobia non è nemmeno esplicitamente sanzionata.