Se si dovesse valutare il nostro Paese anche per la capacità di adeguarsi all’evoluzione della società e della medicina e di tutelare diritti fondamentali, l’esito non potrebbe che essere negativo. E’ questo ciò che ha affermato il Tribunale di Milano che, con l’ordinanza del 29/3/2013, ha rimesso nuovamente alla Corte Costituzionale la questione del divieto di donazione di gameti previsto dalla Legge 40 del 2004.
Ma la storia è lunga: inizia infatti a marzo 2010, quando furono promossi più di 10 ricorsi (Bologna, Milano, Catania, Firenze e Salerno) da varie coppie con il sostegno di diverse associazioni per chiedere l’accesso a tale tecnica in quanto uno dei partner era sterile. Era evidente che dal 2004 al 2010 tanto era cambiato e mantenere il divieto determinava rischi per la tutela della salute e soprattutto l’impossibilità di decidere della propria esistenza. Per far comprendere meglio che cosa fosse in gioco, i ricorsi facevano riferimento anche una sentenza della I sezione della Corte europea dei diritti dell’uomo del 2010 che aveva sanzionato l’Austria per l’analogo divieto di donazione dei gameti.
Si cercava cioè di utilizzare “lo strumento europeo” per tutelare i diritti in Italia attraverso il richiamo dell’art. 117 Cost., che obbliga l’Italia a conformarsi agli obblighi internazionali e quindi alla Convenzione, diventata parte integrante del diritto italiano in virtù del Trattato di Lisbona.
A ottobre, novembre e gennaio 2010, i Tribunali di Firenze, Catania e Milano, sollevavano l’eccezione di incostituzionalità davanti alla Corte costituzionale la quale, tuttavia, rinviava di nuovo la decisione ai Tribunali asserendo che essendo intervenuta una pronuncia sullo stesso caso della Grande Camera della Corte di Strasburgo, la questione doveva essere riesaminata alla luce dei principi enunciati (ordinanza n. 150 del 13/6/2012).
Si arriva al 29 marzo 2013, data in cui il Tribunale di Milano ha nuovamente risollevato la questione di legittimità costituzionale chiedendo l’abrogazione del divieto previsto dalla Legge 40/2004 (art. 4, comma terzo e art. 9, per violazione degli articoli 2, 3, 29, 31, 32 e 117, comma 1, Cost.). Il Tribunale di Milano ha ritenuto che la pronuncia della Corte di Strasburgo enucleava principi che si scontravano di fatto con la Legge 40/2004. Innanzitutto, perché in contrasto con l’art 8 della Convenzione Edu che riconosce come il diritto di una coppia di utilizzare la procreazione assistita sia un diritto protetto dalla Convenzione EDU, essendo espressione del diritto di libera determinazione nella vita privata e familiare: “ogni cittadino ha non solo il diritto di avere o meno un figlio ma anche quello di concepirlo mediante l’utilizzo delle tecniche di PMA”.
E poi, perché la normativa italiana non è in linea con l’evoluzione della scienza medica e del consenso nella società, non rispondendo a criteri di proporzionalità e ragionevolezza, necessari quando sono in gioco aspetti dell’esistenza o dell’identità di un individuo e quindi la piena realizzazione della vita privata e familiare e la autodeterminazione, violando principi costituzionali legati alla persona, al diritto di formare una famiglia e alla finalità procreativa del matrimonio. In secondo luogo, il legislatore non può cristallizzare i concetti di famiglia e di genitorialità al passato.
Il Tribunale di Milano richiama al riguardo due sentenze della Corte costituzionale ossia la n. 138 del 2010 in tema di matrimonio omosessuale e la n. 494 del 2002 dove si statuisce che “la Costituzione non giustifica una concezione della famiglia nemica delle persone e del loro diritto”, auspicando una espansione massima della tutela della piena realizzazione di tali diritti. E ancora: “i rapporti parentali sono fondati sul legame affettivo e sull’assunzione di responsabilità, prescindendo e superando la necessità di una relazione biologico genitoriale” e quindi la parziale frattura della linea del sangue propria della fecondazione eterologa non è sufficiente a determinare la legittimità del divieto. Su un ulteriore punto è bene richiamare l’attenzione e cioè sul riconoscimento che la fecondazione assistita e anche la donazione dei gameti siano oggi rimedi terapeutici. Negarlo preclude terapie necessarie per superare una causa patologica comportante un difetto di funzionalità dell’apparato riproduttivo, rimuovendo anche le sofferenze psicologiche. E quindi, di fatto, non si tutela la salute, lasciando le coppie sole ad affrontare inutili, costosi e pericolosi viaggi della speranza.
Avv. Maria Paola Costantini del Collegio difensivo nazionale delle coppie infertili, legale di Cittadinanzattiva
foto: Uaar