La ricerca dell’”anello mancante”, quella creatura sconosciuta che avrebbe congiunto l’uomo alle grandi scimmie antropomorfe lungo il percorso evolutivo che ha portato fino all’homo sapiens, contraddistinse la storia degli studi durante tutto il corso del XIX secolo. Per certi versi, l’attesa di quella che doveva essere una scoperta rivoluzionaria assunse i tratti di una vera e propria “febbre” che, in alcuni casi specifici, fece la fortuna dei più furbi: come nel caso dell’uomo di Piltdown – probabilmente una delle più grandi e celebri truffe scientifiche mai architettate – in cui un un cranio umano saldato ad una mandibola di orango venne spacciato come fossile di una specie di transizione.
Oggi sappiamo che tale definizione di “anello mancante” ha perso ogni valore scientifico, sopravvivendo appena nella cultura popolare, e che non esiste un singolo animale al quale guardare, quasi sacralmente, come testimonianza dell’avvenuto passaggio da scimmia a uomo. Il più raffinato pensiero contemporaneo ha abbandonato l’idea di quella sorta di catena al termine del quale ci saremmo posizionati noi stessi in quanto esseri umani. Così, le diverse specie ricostruite negli ultimi decenni attraverso i ritrovamenti di fossili sono andate a far parte di quell’ampio affresco, ricco di sfumature che ancora non siamo in grado di conoscere in maniera completa, che è la storia più antica scritta dai primati che popolarono questo Pianeta ben prima del genere Homo: tra tali specie spicca per importanza quella dell’Australopithecus Sediba, scoperta grazie ad alcuni scheletri rinvenuti in tempi recentissimi.
Appena cinque anni fa, nell’agosto del 2008, venivano alla luce alcuni resti nel sito sudafricano di Malapa risalenti a due milioni di anni fa: si trattava dello scheletro di un maschio (indicato con la sigla MH1) e di una femmina (MH2); c’era inoltre una tibia isolata appartenente ad un individuo adulto, classificata come MH4. L’ottimo stato di conservazione, e la quasi interezza dei due scheletri, hanno dato modo agli studiosi di intuire immediatamente che si trattava di una specie ancora ignota alla scienza. Nel settembre del 2011 si era già parlato dell’importanza dei fossili e delle loro straordinarie caratteristiche che, con buone probabilità, avrebbero aiutato a scrivere un nuovo ed inaspettato capitolo della storia dell’uomo. Quelle peculiarità sono ora descritte da ben sei articoli recentemente pubblicati da Science, frutto del lavoro condotto negli ultimi mesi da scienziati di tutto il mondo, i quali hanno riscontrato nei resti un’anatomia «a mosaico» che unisce tratti scimmieschi a tratti umani.
Tra l’uomo e la scimmia
La morfologia dentale è considerata da sempre come una delle caratteristiche maggiormente indicative per gli studi paleoantropologici: i denti e la mandibola di Australopithecus Sediba non fanno eccezione alla regola, mostrando in tutto e per tutto l’evidenza della transizione da australopiteco ad uomo. I denti, infatti, apparirebbero molto vicini a quelli di Australopithecus Africanus nonché a quelli fossili di alcuni Homo; maggiore sarebbe, invece, la distanza dall’Australopithecus Afarensis, la specie a cui apparteneva Lucy, per intenderci. Di contro, però, l’analisi della mandibola esclude un legame di parentela troppo stretto tra Africanus e Sediba, presentando forme e dimensioni che ricordano molto più quelle degli appartenenti al genere Homo.
Gli arti superiori dei fossili di Malapa, invece, sembrano recare testimonianza del più antico passato dei nostri “progenitori”: essi, infatti, presentano tratti che li rendono particolarmente adatti all’arrampicata ma, secondo i ricercatori, è ipotizzabile che questi fossero già funzionalmente poco significativi e che, più che servire realmente, fossero il retaggio di qualche antenato arboricolo. Gli studiosi sottolineano come, in tal caso, sarebbe interessante conoscere le ragioni per cui tali caratteristiche sarebbero sopravvissute per milioni di anni prima di perdersi definitivamente con la comparsa del genere Homo. A conferma della già citata anatomia «a mosaico», pare tuttavia che la mano dell’Australopithecus mostrasse già una maggiore capacità di manipolare oggetti.
Ma sono il torace e la colonna vertebrale a rivelare maggiormente «l’evidenza dell’evoluzione»: la cassa toracica, infatti, presenta una forma conica, caratteristica degli australopitechi e delle grandi scimmie e che mal si coniuga alle esigenze oscillatorie delle braccia durante la camminata e la corsa; la struttura toracica degli uomini, in effetti, è assai più vicina per conformazione al cilindro. Tuttavia, il restringimento nella parte inferiore avvicina ancora una volta l’Australopithecus Sediba al genere Homo. Simile a quella umana (per la precisione di Homo Erectus) è anche la curvatura nella zona lombare della colonna vertebrale: quest’ultima presentava il medesimo numero di vertebre dell’uomo moderno, anche se Sediba aveva una schiena più lunga e flessibile.
Infine, gli arti inferiori di cui gli scienziati possiedono grande abbondanza di resti, di gran lunga maggiori a quanto ci è rimasto della stessa Lucy: tali ossa denuncerebbero un australopiteco già perfettamente bipede che procederebbe con un’andatura quasi prona. Camminando con una gamba completamente estesa, e con l’altra che portava la caviglia a ruotare fortemente, l’individuo tendeva a presentare una marcata iperpronazione del piede, con conseguenze sulla postura. Una particolare forma di bipedismo che, successivamente, sarebbe andata scomparendo mettendo in luce, ancora una volta, il più incredibile dei cammini: quello dell’evoluzione della nostra specie.
di Nadia Vitali