di Daniela Greco | 4 aprile 2013
Amina è una ragazza, tunisina, di appena 19 anni. Ispirata dalle Femen, Amina ha commesso un peccato indicibile: ha postato una fotografia del suo corpo nudo su Facebook, scrivendo sulla sua pelle le parole peggiori che si potessero immaginare “il mio corpo è solo mio e non è la fonte dell’onore di nessuno”.
Da allora, secondo il quotidiano tunisino Kapitalis, l’imam Adel Almi ha emesso una verdetto contro di lei, chiedendone la condanna a morte per lapidazione. L’imam avrebbe aggiunto che “il suo atto potrebbe essere contagioso e fornire un’idea ad altre donne. Bisogna dunque isolarla.”
Già, perché Amina sarebbe malata. Malata della terribile malattia di essere donna pensante, donna che reclama i suoi diritti, donna libera, forse un po’ incosciente dell’incoscienza dei coraggiosi, e forte. Quando, qualche settimana fa, la Commissione delle Nazioni unite sullo Statuto della donna ha cercato di ratificare il rapporto finale della sua 57ma riunione, quattro delegazioni hanno sollevato delle obiezioni. Le delegazioni egiziana, iraniana, russa e quella dello Stato pontificio.
In una dichiarazione pubblica i Fratelli musulmani, figli della Primavera araba egiziana che ha messo fine al regime di Hosnī Mubārak, hanno criticato la “Dichiarazione per la prevenzione e l’eliminazione della violenza contro le donne”, preparata durante il summit, per la sua contrapposizione alla legge islamica e invitato i paesi musulmani a non firmarla.
La cosa mi era inizialmente sembrata l’espressione di una legittima presa di posizione diplomatica, ma poi ho letto quei i dieci punti tremendi, le cause di una sicura “decadenza” del mondo, per i Fratelli musulmani:
1) Garantire la piena libertà sessuale delle ragazze e alzare l’età minima per il matrimonio;
2) Fornire mezzi contracettivi alle adoloscenti e legalizzare l’aborto;
3) Garantire diritti eguali alle mogli di relazioni adultere e ai figli nati da questi rapporti;
4) Garantire diritti eguali agli omosessuali, fornire protezione alle prostitute;
5) Garantire alle donne il diritto di denunciare il proprio marito per agressione sessuale, prevendendo pene eguali a quelle previste per lo stupro di uno/a sconosciuto/a;
6) Garantire un eguale diritto all’eredità a donne e uomini;
7) Rimpiazzare il concetto di custodia con quello di partnership;
8) Garantire l’uguaglianza dei diritti matrimoniali;
9) Togliere l’autorità sul divorzio agli uomini e renderla di competenza di un giudice;
10) Rimuovere la necessità di un’autorizzazione del marito per viaggiare, lavorare o utilizzare contraccettivi.
Dopo aver letto questi punti per giorni mi sono chiesta: perché? Perché questi diritti rappresenterebbero segni di decadenza? Perché dovrebbero essere considerati “strumenti pensati per distruggere l’importanza dell’istituzione familiare”? Perché dovrebbero “sovvertire un’intera società”? E di quale società, esattamente, parliamo?
Da qualche giorno, strane voci circolano sulla sorte di Amina. Certe fonti dicono che sia sparita, internata in un ospedale psichiatrico; altre sostengono che che la sua famiglia l’abbia messa in isolamento, proprio come richiesto dall’imam Adel Almi, curando con dosi massicce di antidepressivi la sua “follia”.
Il suo avvocato, Bochra Belhaj Hmida, ha dichiarato una settimana fa che Amina sta bene. La situazione preoccupa però le attiviste di Femen, che hanno lanciato per il 4 aprile la “Giornata della Jihad a seno nudo”. Manifestazioni di fronte alle ambasciate tunisine si sono tenute in molte città europee e il sito delle Femen è stato inondato da foto di seni di donne da tutto il mondo che esprimono solidarietà a Amina, invitando a tenere la testa alta, reclamando la sua liberazione.
Non sono convinta che l’esibizione di un corpo nudo sia uno strumento efficace in ogni contesto, né che il suo uso indiscriminato giovi alla causa dell’emancipazione femminile. Ma credo nella libertà d’espressione, e credo che nessuna donna dovrebbe essere accusata o, peggio, aggredita per come si veste, per la sua sensualità o la sua apparenza. Trovo che sarebbe ora di smettere di condannare il corpo femminile e iniziare a condannare con forza e severità chi questo corpo lo condanna e aggredisce, chi lo tratta come terreno di una guerra tra “loro” e “noi”. Sarebbe davvero ora di farla finita di tollerare, ignorare, abbozzare, a Steubenville, Ohio, come alle Maldive, in Swatziland, come in Siria, nella Repubblica Democratica del Congo o in Italia, dove ancor vividi sono i ricordi degli roghi appiccati al campo rom di Torino, vendetta bestiale e cieca per aver solo in teoria stuprato una delle “nostre” donne.
Credo che Amina vada protetta e che attirare l’attenzione verso la sua storia possa essere un modo, seppur non sufficiente, di tutelare la sua vita, rendendone meno impossibile un lieto fine. So che Amina non è che una delle tante, troppe donne che muoiono o perdono la libertà per aver avuto la “sfrontatezza” di sfidare un’idea di sicurezza e onore tutta maschile (sebbene non sostenuta da tutto il mondo maschile, anzi), del tutto retrograda e che fa paura, senza che se ne sappia mai nulla, ma nessuna battaglia può non essere intrapresa perché ce ne sono altre che meriterebbero in modo uguale la nostra attenzione.
La libertà e la protezione di Amina sono la battaglia di questo 4 aprile, a seno nudo o no, perché al mondo ci sia spazio, sempre, per la libertà d’espressione, anche quando sciocca, anche quando è nuda.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/04/04/femen-guerra-santa-a-seno-nudo-per-amina/551428/