A volersi cimentare in un esercizio di dress crossing potremmo ben dire che agli occhi di un credente un certo ateismo radicale, non di rado, possa apparire come accecato da un bieco razionalismo inadeguato (per il momento, ci si permetta la chiosa) a dare risposte ai grandi misteri della vita che pure la fede rinvia nell’aldilà.
Dal punto di vista degli atei coloro che credono accettano il rischio di una scommessa soverchiante il cui gioco, non ce ne abbia Pascal, non vale affatto la candela, e la cui vittoria non è affatto garantita; la fede nei suoi gradi più elevati richiede notti oscure, spoliazione di sé e sacrificio dell’intelletto. Sperare contro ogni speranza rappresenta l’unica dimensione possibile di una fede sincera e totale. L’approccio kierkegaardiano al messaggio cristiano come pura follia, per quanto indigesto, appare la sola, almeno a parere di chi scrive, scelta possibile a chi vuole avventurarsi sull’irto cammino di una fede che sarà tanto più feconda quanto più sarà cieca.
Certo si dovrebbe potere immaginare un mondo in cui professarsi ateo o credente sia una semplice sfumatura, non più rilevante delle preferenze cromatiche degli individui. Sarebbe pensabile un argomento in forza del quale taluno potrebbe far valere la scelta a favore del colore verde quanto a piacevolezza estetica rispetto al blu o all’arancione? Ma un mondo siffatto sarebbe da mettere nell’alveo dei pii desideri. Invero la faccenda è maledettamente più complicata. Ateismo e credenza sono intrinsecamente incompatibili e tendono per loro logica interna a “combattersi”. Nella migliori delle ipotesi l’uno funziona da preambolo all’altro. Importante sarebbe, nel gioco delle parti, non considerare necessariamente la “conversione” da ateo a credente un progresso e necessariamente il processo inverso, lo chiameremo sconversione, un regresso. Dirò di più, da credente evolutosi verso l’ateismo, un primato assiologico all’ateismo, contro la boria di quanti, da credenti, considerano questa condizione affetta da una qualche mancanza va sicuramente riconosciuto. La negazione atea in realtà è affermazione della propria libertà ontologica mentre le religioni proliferano, sovente, sull’indigenza riempendo quei vuoti esistenziali nelle pieghe (e soprattutto nelle piaghe) dell’umana condizione.
Nondimeno esiste un terreno per atei e credenti entro il quale appare difficile barare, l’unico possibile, forse auspicabile, oltre gli steccati ideologici e filosofici, su cui misurare principi e sensibilità di ciascuno. In una parola: Umanesimo. Stabilire, in fin dei conti, cosa e quanto si possa fare per affermare l’uomo (e la donna, naturalmente), la sua dignità di essere pensante (magari solo per un errore di trascrizione del DNA che ne fa una scimmia affatto originale, come vuole qualcuno) , la sua capacità di progredire in armonia con i suoi simili. Ma, con buona pace degli umanesimi integrali alla Maritain, le religioni manifestano in questo campo tutta la loro ineluttabile ambiguità e la loro irredimibile inanità. Non che non esistono episodi di antiumanesimo come propaggini impazzite di una prospettiva atea degna di questo nome. Penso ad autori quali Albert Caraco, che in modo singolare riesce a conciliare ateismo e antiumanismo, la cui lettura più attenta rimanda però ad uno gnosticismo ateo che nel disprezzare la “massa di perdizione” (così chiama Caraco l’umanità) prefigura al contempo l’avvento di un Uomo Nuovo che assomiglia vagamente all’Ubermensch di nietzschiana memoria. Ma questa è un’altra storia. Piuttosto il fanatismo nelle religioni più che un incidente di percorso appare un destino consueto alla loro integrale affermazione. Bypassare l’individuo per sacrificarlo sull’altare di leggi e rituali che poco hanno di umano e che, tradotti in precetti divini, non divengono meno inumani ma ancor più disumani, è un habitus che rema contro ogni umanesimo. L’uomo ne esce umiliato, la divinità si afferma come Molok.
C’è una letteratura ampia, spesso sconosciuta, che come carrellata grottesca non ha davvero nulla da invidiare ai racconti più sorprendenti di un Marcel Mauss o di una Margaret Mead. Ve ne propongo solo un assaggio spaziando su tre continenti. Gli studiosi di religioni amerindie narrano degli Anasazi, un popolo che abitava le regioni semiaride del sudovest degli Stati Uniti, il quale tra i propri riti ne annoverava uno di chiara ispirazione sciamanica che consisteva nella deformazione intenzionale del cranio dei bambini di sesso maschile ottenuta comprimendo la parte posteriore del cranio dei piccoli tra le assi della culla. Tale rito sembra fosse diffuso nell’aria andina. Facendo un salto di molti secoli, nel Novecento appena trascorso, in alcuni paesi dell’entroterra siciliano, il rito della lingua a strascicuni era pratica di ringraziamento diffusa e consisteva, per il devoto che si riteneva beneficiato di una grazia, nel leccare (letteralmente) il pavimento di una chiesa dal portone di ingresso fino all’altare in posizione prona. Ancora nel terzo millennio nelle Filippine, il Paese più cattolico d’Asia, durante la Pasqua cristiana qualche fedele si fa inchiodare (letteralmente) sulla croce per rivivere la passione di Gesù. D’altronde l’uso di battitori a sangue come pratica penitenziale è trasversale alle grandi (l’aggettivo qui appare quantomai eufemistico) religioni. Si dirà che si tratta di manifestazioni estreme non di rado sfuggite al controllo degli stessi amministratori del culto. Non si deve però dimenticare, ad essere onesti, che sul dolorismo la Chiesa Cattolica ha fatto le sue fortune e la sua fabbrica dei santi vede, non di rado, stigmatizzati e penitenti elevati a modello di virtù.
L’antiumanesimo tipicamente religioso, attitudine a vilipendere la persona nel nome di, risulta talvolta più sottile e meno estemporaneamente ributtante. Di recente Benedetto XVI durante un Angelus in cui ricordava le vittime del disastroso terremoto in Emilia (per le quali sia il pontefice che il Dalai Lama non cessano di pregare lo stesso dio, il minuscolo è d’uopo, che probabilmente ha permesso che ciò avvenisse) ha parlato di “Gesù sotto le macerie”. Poteva anche essere un’immagine altamente poetica e, se volete, fortemente evangelica. Ebbene no. Il “Gesù sotto le macerie” non era l’operaio, la mamma, il bambino che non è riuscito a mettersi in salvo. Era Gesù sacramentato, l’eucaristia che non si è potuta salvare dal crollo delle chiese. E’ troppo considerare questa blasfemia, seppur profferita da un pontefice? E’ troppo vedervi un caso perfetto di antiumanesimo insultante per le vittime di quella tragedia? Il Gesù dei vangeli irrideva quelli che ammiravano la maestosità del tempio di Gerusalemme dicendo che sarebbe crollato rimanendo pietra su pietra dando al contempo primato al “corpo”, tempio dello spirito.
Spesso si parla, oziosamente, della cosiddetta inversione dell’onere della prova. Sei tu, credente, che devi dare ragione di ciò a cui credi e non io, ateo, a doverti giustificare la mia miscredenza. Questioni di lana caprina. Si tratterà, piuttosto, unicamente di dimostrare, od almeno mostrare, cosa di buono, di bello, di utile si possa fare per il genere umano per salvarlo dell’estinzione. Non esiste laicità o teologia che valga fuori di questo imperativo etico. E se i tanto vituperati atei, che “non sono totalmente umani” (così dice il cardinale Cormac Murphy-O’Connor) fanno merito del loro esiziale difetto di mettere l’uomo al centro al posto di Dio, attendiamo che le religioni trovino una formula per consentire all’ingombrante divinità di non schiacciare l’uomo e la sua libertà.
Sapere poi se l’anima è infusa al momento del concepimento o se lo Spirito procede dal Figlio oltre che dal Padre, è necessario almeno, per dirla con Arthur Bloch, quanto la bicicletta ad un pesce.