I conflitti religiosi in Africa in realtà non sono che scontri per le risorse. Tra musulmani e cristiani non ci sono attriti insanabili. La vera battaglia è tra le centinaia di Chiese evangeliche autonome dal Vaticano
L’ultimatum lo aveva dato su youtube Abubakar Shekau, uno dei leader dei fondamentalisti nigeriani Boko Haram, il 12 aprile scorso: «Entro tre mesi faremo cadere il governo del presidente Goodluck Jonathan». I novanta giorni sono scaduti e l’esecutivo di Abuja è ancora in piedi, ma la promessa di portare la pace prima dell’inizio del ramadam – a fine luglio – si è rivelata un’idea fin troppo ottimista. Le bombe hanno continuato a scandire il tempo domenicale e ora anche quello del venerdì, giorno di preghiera per i musulmani. E comincia a essere chiaro anche in Occidente quello che i nigeriani sanno da tempo: questa non è una guerra contro i cristiani ma una guerra contro lo Stato, e colpisce dovunque questo venga individuato: nei commissariati, negli uffici governativi, nelle prigioni, nelle scuole e nelle chiese. E le prime vittime della violenza fondamentalista sono proprio i musulmani, che vedono colpito il loro modo di vivere, i loro riti, le loro relazioni sociali. «Non c’è l’islam contro il cristianesimo nei conflitti che agitano oggi l’Africa», spiega Christian Delmet, etnologo e ricercatore al Centre d’études des mondes africains (Cemaf). «Le ragioni degli scontri sono sociali, politiche, economiche, e soprattutto diverse Paese per Paese. La situazione della Nigeria è diversa da quella del Kenya o del Sudan, che a loro volta non corrispondono a Somalia e Mali. Metterli tutti nello stesso insieme non aiuta alla comprensione, e facilita le semplificazioni. Che non portano a una più rapida soluzione». È così che la mattanza del giugno scorso in Nigeria, quando gli scontri tra pastori fulani e agricoltori birom hanno causato 63 morti, è diventata “semplicemente” una questione religiosa tra due gruppi contrapposti. È vero che i fulani sono in larga parte musulmani e i birom cristiani, ma se non si guarda al fattore economico – la proprietà fondiaria, in questo caso – non si capisce l’origine dello scontro. «La questione del possesso della terra è fondamentale in Nigeria», aggiunge dal Bénin Cédric Mayrargue, specialista di religioni africane. «Le radici dello scontro risalgono alla fine del regime militare nel 1999. Da allora i fulani vengono considerati come corpo estraneo e scacciati dalla zona. Loro invece rivendicano una tradizione pastorizia su quella terra, e così le liti frontaliere si trasformano in feroci assalti dall’una e dall’altra parte». Nel nord del Paese, dove si concentrano gli attacchi di Boko Haram, non è la convivenza tra religioni a essere fallita, ma la coesione sociale tra gruppi economicamente differenti e dediti ad attività più o meno remunerative.
Del resto lo “scontro di civiltà” è quasi impossibile là dove la separazione tra le tre correnti religiose (cristiana, animista e islamica) non è netta, come nella maggior parte degli Stati dell’Africa subsahariana. Mayrargue lo definisce «una rarità». Più facile lo scontro interetnico, tribale, in cui il peso della religione è soprattutto politico, non ideologico. «È quello che è successo in Sud Sudan», spiega Delmet. «Ben prima del referendum sull’autonomia, gli abitanti del Sud hanno trovato nella Chiesa – cattolica, in questo caso – un appoggio politico considerevole; e ai leader della ribellione conveniva mostrarsi apertamente cristiani per sfruttare al massimo questo appoggio». Così anche il conflitto tra nord e sud del Paese è diventato uno scontro tra cristiani e musulmani, pur non essendo affatto una guerra di religione. In questo caso alla semplificazione mediatica ha corrisposto un ben preciso calcolo opportunistico del futuro presidente del Sud Sudan, Salva Kiir, che ha giocato a favore della secessione. «Nulla di diverso da quello che hanno fatto gli irlandesi negli anni Settanta», aggiunge Delmet. «Quella di Belfast verso Londra non era certo una rivendicazione religiosa, ma politica, sociale ed economica. L’aver messo in primo piano l’aspetto religioso, cattolici contro anglicani, ha dato ai ribelli un risalto e a tratti una legittimità che altri gruppi separatisti non hanno avuto». Nella maggior parte dei casi ci guadagnano sia i fedeli che la Chiesa, a patto di saper gestire davvero il conflitto e non esasperarlo, come invece è successo in Sudan e come rischia di avvenire in Nigeria. «In Sudan – spiega ancora Delmet, che fino al 2002 è stato direttore del Cedej di Khartoum – la religione è intervenuta su due livelli: da un lato quello diplomatico, in cui le organizzazioni confessionali lavoravano per la pace e per la distensione; dall’altro la situazione sul terreno, dove molti preti incitavano gli animi anziché calmarli. Una tendenza all’esasperazione presente anche nelle cosiddette “Chiese storiche”, ma che è quasi un marchio di fabbrica per le nuove Chiese evangeliche e pentecostali».
Sono loro oggi a fare la differenza. Le “Assemblee di dio” hanno trovato, per varie ragioni, terreno fertile in Africa. I predicatori protestanti evangelici, educati negli Usa o in Canada, hanno fatto proseliti a sud del Sahara. Se nel nord del continente sono stati espulsi – l’invito alla conversione è reato nei Paesi arabi- negli Stati dove già c’è una forte presenza cristiana la loro attività è perfettamente legittima, basta che non interferisca con le altre confessioni. «Per loro è facile fare nuovi adepti attraverso azioni umanitarie, quindi proliferano là dove ci sono situazioni di conflitto», spiega Delmet. «Molte di queste Chiese sono apertamente anti arabe o anti musulmane, e come tutti gli integralismi non riconoscono alternative alla propria verità. Mentre le Chiese cristiane “storiche” promuovono il dialogo, nei gruppi evangelici spesso prevale l’intolleranza». Però a differenza delle Chiese storiche gli evangelici hanno facilità a mescolarsi con le religioni tradizionali, accettano il sincretismo, si adattano e si modellano sulle culture in cui penetrano, e questo spiega in parte la loro diffusione. «In realtà per capire la loro rapida crescita bisogna considerare almeno tre fattori», dice Mayrargue. «Quello economico, prodotto dai “piani di aggiustamento” dell’Fmi; quello politico, con la fine dei regimi autoritari negli anni Novanta; infine, l’espandersi dell’islamismo e la crisi del cattolicesimo e dell’anglicanesimo». Insomma, in Africa c’era un vuoto e i predicatori del nuovo millennio non hanno fatto fatica a riempirlo. Dalla “Chiesa di Cristo sulla terra” alla “Chiesa evangelica dell’inviato di Dio in Mozambico”, passando per la “Chiesa biblica della vita profonda” o per la “Congregazione Foursquare” – il cui centro africano è proprio la Nigeria - le Chiese locali si sono moltiplicate, complici anche le generose donazioni provenienti dagli Stati Uniti. È una delle tante versioni della dottrina Bush, e quella che ha retto meglio alla fine della carriera politica del suo ideatore. «Da un lato gli evangelici offrono consolazione a chi vive in ristrettezze, dall’altro santificano chi ha fatto i soldi», spiega Cédric Mayrargue. «È la “teologia della prosperità”, per cui chi è ricco non si deve sentire in colpa, anzi è un segno di benedizione divina, e per questo si sono diffuse nei centri urbani e negli strati più elevati della società». In questo modo sono arrivate al cuore del potere, con Laurent Gbagbo in Costa d’Avorio, o con Yoweri Museveni in Uganda, due leader affascinati dalle nuove religioni, e pronti a tradurle anche in leggi (come quella ugandese che punisce l’omosessualità con la morte). E le centinaia fedi cristiane che albergano nel Continente non aiutano ad attenuare i conflitti. Solo in Nigeria si stima (il censimenti religioso è vietato) che il 30 per cento della popolazione creda in Cristo, ma ognuno con modalità diverse. Gli africani saranno anche un miliardo, ma le chiese sono migliaia e se li contendono come i negozi si contendono i consumatori. Pronte, per attirarli, a venire incontro a tutti i loro desideri, compresi quelli di regolare i conti con i vicini. A fine luglio il presidente nigeriano Goodluck Jonathan ha tolto il coprifuoco in 4 degli Stati in cui era in vigore da dicembre, ed esortato la popolazione a non rispondere «alle provocazioni». «Chiedo ai cristiani di non fare il gioco dei terroristi di Boko Haram, di non farsi trascinare in una guerra civile». L’arcivescovo di Abuja gli ha dato la sua parola, ma le 250 Chiese pentecostali del Paese no.
L’ultimatum lo aveva dato su youtube Abubakar Shekau, uno dei leader dei fondamentalisti nigeriani Boko Haram, il 12 aprile scorso: «Entro tre mesi faremo cadere il governo del presidente Goodluck Jonathan». I novanta giorni sono scaduti e l’esecutivo di Abuja è ancora in piedi, ma la promessa di portare la pace prima dell’inizio del ramadam – a fine luglio – si è rivelata un’idea fin troppo ottimista. Le bombe hanno continuato a scandire il tempo domenicale e ora anche quello del venerdì, giorno di preghiera per i musulmani. E comincia a essere chiaro anche in Occidente quello che i nigeriani sanno da tempo: questa non è una guerra contro i cristiani ma una guerra contro lo Stato, e colpisce dovunque questo venga individuato: nei commissariati, negli uffici governativi, nelle prigioni, nelle scuole e nelle chiese. E le prime vittime della violenza fondamentalista sono proprio i musulmani, che vedono colpito il loro modo di vivere, i loro riti, le loro relazioni sociali. «Non c’è l’islam contro il cristianesimo nei conflitti che agitano oggi l’Africa», spiega Christian Delmet, etnologo e ricercatore al Centre d’études des mondes africains (Cemaf). «Le ragioni degli scontri sono sociali, politiche, economiche, e soprattutto diverse Paese per Paese. La situazione della Nigeria è diversa da quella del Kenya o del Sudan, che a loro volta non corrispondono a Somalia e Mali. Metterli tutti nello stesso insieme non aiuta alla comprensione, e facilita le semplificazioni. Che non portano a una più rapida soluzione». È così che la mattanza del giugno scorso in Nigeria, quando gli scontri tra pastori fulani e agricoltori birom hanno causato 63 morti, è diventata “semplicemente” una questione religiosa tra due gruppi contrapposti. È vero che i fulani sono in larga parte musulmani e i birom cristiani, ma se non si guarda al fattore economico – la proprietà fondiaria, in questo caso – non si capisce l’origine dello scontro. «La questione del possesso della terra è fondamentale in Nigeria», aggiunge dal Bénin Cédric Mayrargue, specialista di religioni africane. «Le radici dello scontro risalgono alla fine del regime militare nel 1999. Da allora i fulani vengono considerati come corpo estraneo e scacciati dalla zona. Loro invece rivendicano una tradizione pastorizia su quella terra, e così le liti frontaliere si trasformano in feroci assalti dall’una e dall’altra parte». Nel nord del Paese, dove si concentrano gli attacchi di Boko Haram, non è la convivenza tra religioni a essere fallita, ma la coesione sociale tra gruppi economicamente differenti e dediti ad attività più o meno remunerative.
Del resto lo “scontro di civiltà” è quasi impossibile là dove la separazione tra le tre correnti religiose (cristiana, animista e islamica) non è netta, come nella maggior parte degli Stati dell’Africa subsahariana. Mayrargue lo definisce «una rarità». Più facile lo scontro interetnico, tribale, in cui il peso della religione è soprattutto politico, non ideologico. «È quello che è successo in Sud Sudan», spiega Delmet. «Ben prima del referendum sull’autonomia, gli abitanti del Sud hanno trovato nella Chiesa – cattolica, in questo caso – un appoggio politico considerevole; e ai leader della ribellione conveniva mostrarsi apertamente cristiani per sfruttare al massimo questo appoggio». Così anche il conflitto tra nord e sud del Paese è diventato uno scontro tra cristiani e musulmani, pur non essendo affatto una guerra di religione. In questo caso alla semplificazione mediatica ha corrisposto un ben preciso calcolo opportunistico del futuro presidente del Sud Sudan, Salva Kiir, che ha giocato a favore della secessione. «Nulla di diverso da quello che hanno fatto gli irlandesi negli anni Settanta», aggiunge Delmet. «Quella di Belfast verso Londra non era certo una rivendicazione religiosa, ma politica, sociale ed economica. L’aver messo in primo piano l’aspetto religioso, cattolici contro anglicani, ha dato ai ribelli un risalto e a tratti una legittimità che altri gruppi separatisti non hanno avuto». Nella maggior parte dei casi ci guadagnano sia i fedeli che la Chiesa, a patto di saper gestire davvero il conflitto e non esasperarlo, come invece è successo in Sudan e come rischia di avvenire in Nigeria. «In Sudan – spiega ancora Delmet, che fino al 2002 è stato direttore del Cedej di Khartoum – la religione è intervenuta su due livelli: da un lato quello diplomatico, in cui le organizzazioni confessionali lavoravano per la pace e per la distensione; dall’altro la situazione sul terreno, dove molti preti incitavano gli animi anziché calmarli. Una tendenza all’esasperazione presente anche nelle cosiddette “Chiese storiche”, ma che è quasi un marchio di fabbrica per le nuove Chiese evangeliche e pentecostali».
Sono loro oggi a fare la differenza. Le “Assemblee di dio” hanno trovato, per varie ragioni, terreno fertile in Africa. I predicatori protestanti evangelici, educati negli Usa o in Canada, hanno fatto proseliti a sud del Sahara. Se nel nord del continente sono stati espulsi – l’invito alla conversione è reato nei Paesi arabi- negli Stati dove già c’è una forte presenza cristiana la loro attività è perfettamente legittima, basta che non interferisca con le altre confessioni. «Per loro è facile fare nuovi adepti attraverso azioni umanitarie, quindi proliferano là dove ci sono situazioni di conflitto», spiega Delmet. «Molte di queste Chiese sono apertamente anti arabe o anti musulmane, e come tutti gli integralismi non riconoscono alternative alla propria verità. Mentre le Chiese cristiane “storiche” promuovono il dialogo, nei gruppi evangelici spesso prevale l’intolleranza». Però a differenza delle Chiese storiche gli evangelici hanno facilità a mescolarsi con le religioni tradizionali, accettano il sincretismo, si adattano e si modellano sulle culture in cui penetrano, e questo spiega in parte la loro diffusione. «In realtà per capire la loro rapida crescita bisogna considerare almeno tre fattori», dice Mayrargue. «Quello economico, prodotto dai “piani di aggiustamento” dell’Fmi; quello politico, con la fine dei regimi autoritari negli anni Novanta; infine, l’espandersi dell’islamismo e la crisi del cattolicesimo e dell’anglicanesimo». Insomma, in Africa c’era un vuoto e i predicatori del nuovo millennio non hanno fatto fatica a riempirlo. Dalla “Chiesa di Cristo sulla terra” alla “Chiesa evangelica dell’inviato di Dio in Mozambico”, passando per la “Chiesa biblica della vita profonda” o per la “Congregazione Foursquare” – il cui centro africano è proprio la Nigeria - le Chiese locali si sono moltiplicate, complici anche le generose donazioni provenienti dagli Stati Uniti. È una delle tante versioni della dottrina Bush, e quella che ha retto meglio alla fine della carriera politica del suo ideatore. «Da un lato gli evangelici offrono consolazione a chi vive in ristrettezze, dall’altro santificano chi ha fatto i soldi», spiega Cédric Mayrargue. «È la “teologia della prosperità”, per cui chi è ricco non si deve sentire in colpa, anzi è un segno di benedizione divina, e per questo si sono diffuse nei centri urbani e negli strati più elevati della società». In questo modo sono arrivate al cuore del potere, con Laurent Gbagbo in Costa d’Avorio, o con Yoweri Museveni in Uganda, due leader affascinati dalle nuove religioni, e pronti a tradurle anche in leggi (come quella ugandese che punisce l’omosessualità con la morte). E le centinaia fedi cristiane che albergano nel Continente non aiutano ad attenuare i conflitti. Solo in Nigeria si stima (il censimenti religioso è vietato) che il 30 per cento della popolazione creda in Cristo, ma ognuno con modalità diverse. Gli africani saranno anche un miliardo, ma le chiese sono migliaia e se li contendono come i negozi si contendono i consumatori. Pronte, per attirarli, a venire incontro a tutti i loro desideri, compresi quelli di regolare i conti con i vicini. A fine luglio il presidente nigeriano Goodluck Jonathan ha tolto il coprifuoco in 4 degli Stati in cui era in vigore da dicembre, ed esortato la popolazione a non rispondere «alle provocazioni». «Chiedo ai cristiani di non fare il gioco dei terroristi di Boko Haram, di non farsi trascinare in una guerra civile». L’arcivescovo di Abuja gli ha dato la sua parola, ma le 250 Chiese pentecostali del Paese no.
Paola Mirenda
left 30 - 28 luglio 2012
http://www.left.it/2012/07/26/con-la-scusa-di-cristo/5478/