L’ultimo numero di Mente & cervello dedica il dossier monografico alle “radici evolutive che predispongono il nostro cervello alla fede religiosa”. Nell’editoriale di presentazione, il direttore Marco Cattaneo ricorda che “il senso religioso, terreno della filosofia, non è stato terreno di indagine scientifica fino a relativamente poco tempo fa (casomai l’interesse è andato in senso contrario)”.
Ebbene, le cose stanno cambiando. Da un lato la filosofia è sempre meno interessata alla metafisica e ha ormai perso ogni legame con la teologia, nonostante la residua presenza di qualche confuso nostalgico à la Cacciari. Dall’altro, gli studi scientifici sulla religione aumentano. E si rivelano interessanti.
"fuga irrazionale a cui rivolgersi quando non sembrano a portata di mano soluzioni razionali"
Il lungo articolo di Sandra Upson fa il punto della situazione. Alcuni degli studi citati sono stati già presentati sulle Ultimissime Uaar, come la ricerca curata da Ed Diener, che ha mostrato come la religione rende più felici solo se c’è crisi economica e sociale. Una sorta di via di fuga irrazionale a cui rivolgersi quando non sembrano a portata di mano soluzioni razionali: “chi vive in paesi in cui l’esistenza quotidiana è difficile è meno soddisfatto della vita. In questi paesi essere più religioso sembra conferire un di più di felicità rispetto ai vicini meno religiosi. Se la vita è facile, però, credenti e non credenti presentano livelli di benessere soggettivo simili e relativamente alti”.
Peraltro, dove registrano alti livelli di religiosità si registrano anche alti livelli di discriminazione nei confronti dei non credenti, e la correlazione è anch’essa facilmente spiegabile: alti livelli di religiosità spingono ad affidarsi con maggior trasporto ai leader religiosi. La cui maggior influenza sulla popolazione sarà facilmente utilizzabile nei confronti del potere politico, orientando la legislazione in direzione anti-atea. Si può essere felici allo stesso modo quando le istituzioni ti sostengono e quando invece ti reprimono?
Diener ricorda altresì che “l’influenza della società è forte se tutti quanti intorno sono credenti o no: verso la religiosità spingono forze legate alla società più che all’individuo”. Come nota Upson, “per i non credenti sono dati incoraggianti. Ciò vuol dire che gli atei non sono tagliati fuori da qualche sorgente di felicità , anche se potrebbe essere una buona idea trovare una comunità di persone affini”. Diener lo conferma: “la religione può certamente aiutare la gente a essere felice, ma ci sono altre cose che possono fare lo stesso. Una società pacifica e cooperativa, anche senza religione, sembra avere lo stesso effetto”.
Ne abbiamo già scritto commentando la diffusione dello studio di Putnam e Lim, pure citato dal Upson. È l’appartenenza a una comunità ad accrescere il proprio capitale sociale e di conseguenza la propria percezione della felicità. E una comunità non deve necessariamente essere una comunità di fede. C’è una certa convergenza, nel mondo accademico, a convenire che “molti elementi della religione si possono dopotutto ottenere altrimenti”. Tanto che libri come quello di Alain de Botton invitano apertamente gli atei a far propri gli aspetti più “utili” della religione.
Ciò non significa che bisogna creare “chiese” atee, o che le associazioni atee debbano necessariamente allargare indefinitamente le proprie attività (ne abbiamo parlato lo scorso 16 agosto). Ma, secondo noi, che le vie “atee” per trovare soddisfazioni sono assai più numerose di quelle consentite dalla fede.
"caratteristiche naturali della mente che precedono la comparsa delle religioni"
Mente & Cervello pubblica anche un articolo di Pievani, Girotto e Vallortigara che condensa e aggiorna quanto gli stessi autori hanno affermato in Nati per credere. Dio, scrivono, “nel cervello non sembra avere una rappresentazione diversa da quella di un qualsiasi altro agente”. Inoltre, “le persone credenti, che considerano Dio come un’entità reale capace di contraccambiare le buone intenzioni di un fedele, quando pregano reclutano nel cervello le aree preposte alle cognizione sociale”. Le credenze religiose e nel sovrannaturale “poggerebbero perciò su caratteristiche naturali della mente che precedono la comparsa delle religioni”. Tuttavia, nonostante “tendenze intuitive così forti”, vi sono persone che non manifestano alcuna tendenza religiosa. Il motivo è spiegato da alcune ricerche che mostrano come “gli stessi meccanismi che sostengono le credenze religiose possono, se alterati, favorire quelle non religiose”. In particolare, è la predisposizione a forme di pensiero analitiche a indebolire la credenza nel sovrannaturale.
Come ha mostrato Phil Zuckerman studiando le società scandinave, “le istituzioni secolari che rendono la vita più sicura e che riducono la motivazione ad aderire a credi religiosi incoraggiano allo stesso tempo l’istruzione scientifica. Quest’ultima, a sua volta, alimenta il pensiero analitico e la conseguenza tendenza allo scetticismo religioso”. Insomma, chiudono Pievani, Girotto e Vallortigara, “anche se siamo nati per credere nel soprannaturale, abbiamo strumenti cognitivi e forme di organizzazione sociale per vedere il mondo con occhi meno intuitivi”. Homo sapiens, benché nato per credere, è anche nato per non credere più. Perché di Dio non ha alcun bisogno.