“L’incoronazione si svolge in tono dimesso; le somme destinate ai festeggiamenti andranno ai poveri. Il papa dorme su un pagliericcio e poche sono le ore di sonno. Seguitò a praticare il digiuno con la stessa rigorosità insieme a tutti gli esercizi di pietà. “Il popolo era affascinato quando lo vedeva nelle processioni, a piedi scalzi ed a capo scoperto, con in volto la pura espressione di una pietà non finta. Si pensava che non c’era mai stato un papa così devoto, si raccontava che il solo sguardo aveva convertito dei protestanti””.
Non è cronaca di questi giorni. È il racconto che Claudio Rendina fa di un papa del Cinquecento, Pio V. San Pio V: la sua fede fu tale da portarlo alla canonizzazione. Unico tra i papi degli ultimi cinque secoli a raggiungere questo traguardo insieme a Pio X. Un altro papa umile, il “prete di campagna” che abolì il plurale maiestatis e gli applausi in onore del pontefice.
Quel Pio V vanta anche il record di condanne a morte comminate ed eseguite nello Stato Pontificio. Mentre di Pio X, che non disponeva del potere temporale del suo predecessore, si ricorda l’aspra crociata contro il modernismo. Tanto per ricordare che la figura del papa povero, umile e pio non è certo una novità, anzi: la Chiesa la indica espressamente come modello esemplare. Purché il papa sia anche tradizionalista.
Lo è anche Francesco? Se lo chiedono in tanti. Scorrendo le sue dichiarazioni da cardinale la risposta è un “sì” abbastanza convinto. Ciò non toglie che un tradizionalista non possa rivelarsi, una volta diventato “infallibile”, una sorta di innovatore (vedi Giovanni XXIII), o che un convinto reazionario non possa essere anche un rivoluzionario (Reagan, Thatcher, Khomeini… piacciano o no le loro rivoluzioni). Il tempo lo dirà.
Parliamoci chiaro: non è che l’argomento ci intrighi più di tanto. La Chiesa è e deve restare libera di darsi le gerarchie e le dottrine che vuole. A noi interessa soltanto che non si ingerisca negli affari dello Stato e che non demonizzi chi la pensa diversamente. Perché sappiamo bene quanto i Palazzi del Potere sono pieni di zelanti esecutori dei desiderata dei Sacri Palazzi. Gli atei, si sa, non rientrano tra i due più grandi proprietari immobiliari del paese.
Jorge Mario Bergoglio, nel suo nuovo ruolo, è stato sinora ben attento a non fare alcuna affermazione sul rapporto Stato-Chiesa. Invece, ha addirittura esagerato nel riferirsi frequentemente agli atei. E l’ha fatto con accenti diversi, tanto da suscitare molti interrogativi sulle sue reali posizioni. Ha iniziato il 14 marzo, di fronte ai cardinali, affermando che, “quando non si confessa Gesù, mi sovviene la frase di Léon Bloy: “Chi non prega il Signore, prega il diavolo”. Quando non si confessa Gesù Cristo, si confessa la mondanità del diavolo, la mondanità del demonio”. Due giorni dopo, durante la conferenza stampa con i giornalisti, ha invece detto: “Molti di voi non appartengono alla Chiesa cattolica, altri non sono credenti. Di cuore impartisco questa benedizione, nel silenzio, a ciascuno di voi, rispettando la coscienza di ciascuno, ma sapendo che ciascuno di voi è figlio di Dio. Che Dio vi benedica”.
Atteggiamento contraddittorio? Il 20 marzo gli atei sono stati oggetto sia del bastone, sia della carota: “dobbiamo tenere viva nel mondo la sete dell’assoluto, non permettendo che prevalga una visione della persona umana ad una sola dimensione, secondo cui l’uomo si riduce a ciò che produce e a ciò che consuma: è questa una delle insidie più pericolose per il nostro tempo. Sappiamo quanta violenza abbia prodotto nella storia recente il tentativo di eliminare Dio e il divino dall’orizzonte dell’umanità, e avvertiamo il valore di testimoniare nelle nostre società l’originaria apertura alla trascendenza che è insita nel cuore dell’uomo. In ciò, sentiamo vicini anche tutti quegli uomini e donne che, pur non riconoscendosi appartenenti ad alcuna tradizione religiosa, si sentono tuttavia in ricerca della verità, della bontà e della bellezza, questa verità, bontà e bellezza di Dio, e che sono nostri preziosi alleati nell’impegno a difesa della dignità dell’uomo, nella costruzione di una convivenza pacifica fra i popoli e nel custodire con cura il creato”. Venerdì ha infine sostenuto che ritiene “importante intensificare il confronto con i non credenti, affinché non prevalgano mai le differenze che separano e feriscono, ma, pur nella diversità, vinca il desiderio di costruire legami veri di amicizia tra tutti i popoli”.
Non male, per dieci giorni di pontificato. Ma il continuo riferimento agli atei non è una novità. Anche Benedetto XVI lo faceva spesso, e anche il suo atteggiamento era apparentemente ambivalente. Ha scritto e parlato degli atei come di persone “senza dignità”, “senza umanità”, “disperate”, “senza orientamento”, e ha definito l’ateismo “culto di Satana”, “generatore di violenza”, “devastatore della creazione”. Ma ha detto anche che “l’ateismo, non di rado, nasconde l’esigenza di scoprire il vero volto di Dio”, e ha persino sommessamente suggerito, bontà sua, che anche gli atei devoti possono andare in paradiso.
Come si vede, Joseph Ratzinger non solo si riferiva altrettanto spesso agli atei, ma diceva sostanzialmente le stesse cose. Del resto, la dottrina cattolica è molto chiara nei confronti dei non cattolici, e più in particolare dei non credenti. L’essere umano, recita ancora oggi il magistero, nasce con una natura contaminata dal peccato originale, e solo il battesimo può “resettarlo”. Chi non viene battezzato continua ad appartenere alle schiere di Satana (tanto che il rito battesimale contiene il relativo esorcismo) mentre chi si sbattezza “resetta il reset” e torna ad appartenere a Satana (tanto che, quando lo si poteva bruciare, lo si bruciava sul rogo).
Tuttavia, un’attenzione speciale è sempre riservata a coloro che, per quanto temporaneamente dalla parte di Satana, sono comunque ritenuti “in ricerca della verità”, ovviamente cattolica: con una benedizione si può sempre invocare la protezione divina su di loro, in attesa che escano dallo stato di “ricerca”. E i vaticanisti rientrano sicuramente in tale categoria, solo per il fatto di svolgere un lavoro così deprimente: del resto, a coloro che non si mostrano bendisposti la Santa Sede nega addirittura l’accredito stampa (vedi il recente caso di Gianluigi Nuzzi). Con quelli “in ricerca” si possono fare percorsi insieme, magari passeggiando amabilmente nel Cortile dei gentili: il fine ultimo è comunque sempre la conversione dell’incredulo.
Come si vede, cambiano soltanto gli accenti: qualche papa calca più la mano sulla demonizzazione, qualcun altro sulla speranza di conversione. Lo stesso Concilio Vaticano II, tanto osannato anche da molti laici, ormai mezzo secolo fa ha prodotto documenti come la Gaudium et spes, dove si può leggere che, “se manca la base religiosa e la speranza della vita eterna, la dignità umana viene lesa in maniera assai grave”. Aggiungendo tuttavia che “tutti gli uomini, credenti e non credenti, devono contribuire alla giusta costruzione di questo mondo, entro il quale si trovano a vivere insieme: ciò, sicuramente, non può avvenire senza un leale e prudente dialogo”.
Niente di nuovo sotto il sole di Roma, dunque. È lo stesso concetto di “nuovo” che non fa parte del magistero cattolico. Il “deposito” della fede, dice il catechismo, è “contenuto nella Sacra Tradizione e nella Sacra Scrittura”. Un autentico macigno che frena il rinnovamento. Per carità, la Scrittura si può sempre interpretare diversamente, e una Tradizione si può sempre inventare di sana pianta. E piccoli slittamenti di significato possono persino portare all’appropriazione di termini (si pensi alla “sana” laicità) una volta addirittura vituperati. Anche la Chiesa cattolica cambia, impercettibilmente, perché tutte le religioni, essendo tutte fenomeni culturali, devono adeguarsi alle società in cui agiscono. Ma nessuna rivoluzione di contenuti sostanziali sarà mai a portata di mano.
Per queste ragioni, è inutile criticare Francesco I o beatificarlo a nostra volta. Sta solo cominciando a fare il suo nuovo mestiere, con le armi e con i vincoli tradizionali. L’esaltazione di cui è oggetto il nuovo papa va di pari passo con l’implicita delegittimazione di quello vecchio (a cui non è stata comunque negata la photo opportunity). Ha saputo presentarsi bene, parlando di “tenerezza” come se ne parlerebbe nella pubblicità di un tonno in scatola. La scelta del nome Francesco è, inutile negarlo, suggestiva e azzeccata: l’aveva auspicata persino il segretario dei radicali, Mario Staderini. In tal modo sta suscitando enormi aspettative, e in troppi stanno ora aspettando che siano mantenute. Il papa rischia seriamente di fare la fine dell’altro Francesco, il santo di Assisi. La cui immagine glamour nasconde il fallimento degli scopi di una vita: voleva una Chiesa più povera, e venne l’opulento papato rinascimentale; voleva una Chiesa tra la gente, e già sei decenni dopo la sua morte si ebbe un papa francescano; voleva un diverso corso della Chiesa, e i suoi eredi più coerenti furono tutti sospettati di eresia; non aveva paura di affrontare il diverso, e i francescani furono tra i più fanatici dirigenti dell’Inquisizione. La storia non si dipana mai come si vorrebbe.
E l’alleanza con gli atei? Ma quella c’è già, da tempo. Ogni giorno milioni di credenti e di non credenti lavorano fianco a fianco senza chiedere come la pensa il vicino. Non c’è alcun bisogno di parlare di Dio, per dialogare e costruire insieme un mondo migliore.