A Tripoli e Damasco sorgono nuovi gruppi jihadisti, che sfruttano il malcontento della popolazione per conquistare fette di potere. Ma sono gruppi minoritari, dall’identità sempre meno chiara. Indipendenti dalla rete di Bin Laden
In Libia e Siria tira aria di jihad. Attacchi contro sedi diplomatiche, un ambasciatore ucciso, attentati suicidi per le strade di Damasco, elementi che apparentemente rafforzano le tesi di chi paventava un nuovo rigurgito qaedista sulla scia delle rivolte arabe. Da una parte un Paese, la Libia, dove il tessuto sociale si sta ancora ricomponendo dopo un conflitto interno e decenni di dittatura. Dall’altra la Siria, dove le fratture confessionali sono sempre più evidenti e aggravate dalla guerra contro il regime di Assad. Realtà, quindi, differenti tra loro, ma accomunate dall’ombra di un nuovo inverno islamista, dove i protagonisti sono questa volta militanti jihadisti e salafiti radicali che stanno tentando di imporsi sulla scena sventolando una versione scolorita della bandiera di al Qaeda.
In Libia la questione è per certi versi meno complessa rispetto alle dinamiche, ancora non del tutto chiare, che hanno portato alla morte dell’ambasciatore Christopher Stevens a Bengasi. Per anni jihadisti e presunti tali sono stati rinchiusi nelle carceri di Gheddafi, che come molti altri dittatori arabi dopo l’11 settembre ha giocato la carta della guerra contro al Qaeda per ottenere dall’Occidente aiuti e armi. E alcuni islamisti hanno approfittato della rivolta contro il Colonnello per uscire dalle prigioni e unirsi ai ribelli. Alcune fazioni, quelle legate all’ex Gruppo islamico combattente libico, hanno poi deposto le armi e preso parte al processo politico. Altre, al contrario, hanno scelto la strada del confronto armato, insieme a nuove sigle nate per combattere il jihad. Tra queste Ansar al Sharia di Bengasi, legata al battaglione terrorista che a Darnah ha distrutto santuari e tombe dei sufi, i mistici dell’islam. O l’oscura Brigata dell’imprigionato Sheikh Omar Abdul Rahman (l’egiziano condannato all’ergastolo per l’attentato al World Trade centre del 1993), considerata responsabile dell’uccisione dell’ambasciatore Usa Chris Stevens, ma già sospettata di attacchi contro la Croce rossa internazionale e contro un convoglio diplomatico britannico. L’ipotesi che questi gruppi siano emanazioni di al Qaeda, però, appare poco fondata. In realtà le brigate sembrano composte da elementi estremamente marginali, ostili al nuovo corso politico, pronti a strumentalizzare le situazioni di caos per ritagliarsi uno spazio che la nuova Libia finora ha negato loro.
La paura di al Qaeda invade anche la Siria, dove frena gli entusiasmi di chi aspira a un risveglio democratico di Damasco. Il presidente Bashar al Assad ha provato subito ad approfittarne, etichettando i rivoltosi come terroristi di al Qaeda. E pensare che per anni ha permesso agli aspiranti jihadisti di attraversare il suo Paese per andare a combattere la guerra santa in Iraq. Oggi nel fronte dei ribelli, troppo variegato per rientrare in una categorizzazione, si sono infiltrati anche gruppi jihadisti e mujaheddin stranieri, ma rappresentano una minima parte del movimento d’opposizione e non hanno legami con quanto rimane dell’ormai sfilacciato network qaedista.
Lo stesso Jabhat al Nusra (il Fronte di sostegno per la popolazione siriana), la principale organizzazione jihadista che combatte oggi a Damasco, è sospettato di essere una creatura del regime siriano. Oppure, secondo un’altra versione, un ramo di al Qaeda in Iraq, creato oltre confine. Il gruppo, tuttavia, è responsabile di 18 dei 25 attentati suicidi perpetrati finora in Siria, che hanno preso di mira le istituzioni del regime e negato legami con al Qaeda. Lo Jabhat al Nusra, secondo quanto confermato dalle interviste raccolte da Time, è specializzato negli ordigni esplosivi improvvisati, che costruisce grazie alla collaborazione dei veterani siriani che hanno combattuto in Iraq. Sarebbero proprio questi mujaheddin “freelance” a costituire il fulcro della resistenza jihadista in Siria, combattenti che hanno raffinato le proprie tattiche di guerriglia in Iraq, Africa o Cecenia, e che sono sempre pronti a mobilitarsi in nuove zone di conflitto.
Ma la guerra santa non piace alle altre componenti del fronte dei ribelli e i battaglioni dell’Esercito siriano libero si scontrano spesso coi jihadisti, sospettati di non voler limitare la loro azione alla destituzione del dittatore e di arruolare numerosi stranieri tra le loro fila. I combattenti del jihad hanno tuttavia armi e sono esperti nell’arte della guerriglia, e questo spiega perché – a volte – l’Esercito di liberazione mette da parte le proprie riserve e collabora con loro. L’Ahrar al-Sham, le Brigate del martirio Ibn Malik o il Liwa al-Islam sono solo alcune delle sigle comparse di recente in Siria, una proliferazione che spaventa l’Occidente e che rischia di tornare utile ad Assad, che può usarle per delegittimare l’opposizione. Non è escluso, infatti, che sia stato lo stesso regime a favorire l’afflusso di combattenti jihadisti in Siria, in una strategia calcolata che mira a screditare i ribelli toccando alle corde i timori internazionali e sfruttando l’ampia confusione che esiste sulla stessa al Qaeda. Chi al momento sembra avere le idee chiare, sono tuttavia gli stessi jihadisti siriani: «Siamo solo persone che seguono e obbediscono alla propria religione – ha dichiarato uno di loro – sono un mujahid, ma non faccio parte di al Qaeda. La guerra santa non è solamente al Qaeda».
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