Da l'Italia laica si alza un grido contro la manovra del Governo Monti che ignora i privilegi fiscali della Chiesa cattolica.
L'UAAR ha appena pubblicato un'inchiesta sui fondi pubblici e le esenzioni che lo Stato italiano garantisce allo Stato straniero del Vaticano. http://www.icostidellachiesa.it
Ci aveva già messo in guardia Piergiorgio Odifreddi nel 2007 con il suo Perché non possiamo essere cristiani, di cui consigliamo la lettura e riportiamo il brano che stima il danno per il fisco e per il contribuente italiano.
Il papato già nel VII secolo esso era diventato il massimo proprietario terriero italiano e controllava l'intera area attorno a Roma. Il nucleo del futuro Stato Pontificio si formò con la donazione di Sutri nel 728 da parte del re Liutprando, e della costa adriatica nel 756 da parte di Pipino il Breve. Nel 781 Carlo Magno formalizzò i confini dell’ossimorico Stato della Chiesa, che arrivò a comprendere quasi tutta l'Italia centrale e parte di quella settentrionale: in cambio Leone III lo incoronò nell’800 imperatore dell'altrettanto ossimorico Sacro Romano Impero, inaugurando una pratica che durò fino al 1452, quando Niccolò V incoronò Federico III.
Il voltafaccia rispetto ai supposti valori evangelici di carità e povertà innescato dall'Editto di Costantino, e proseguito con la sempre maggiore identificazione fra gli interessi spirituali e temporali della Chiesa, fu talmente profondo da essere poi variamente chiamato svolta costantiniana, cesaropapismo, grande apostasia e, più apertamente da Dante, puttaneggiar coi regi:
Fatto v'avete Dio d'oro e d'argentoe che altro è da voi a l'idolatre,
se non ch'elli uno, e voi ne orate cento?
Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,
non la tua conversion, ma quella dote
che da te prese il primo ricco patre!
L’equilibrio tra il papa e l'imperatore risultò però instabile, perché la divisione tra potere spirituale e temporale non era ovviamente altro che una finzione. I nodi vennero al pettine nel 1075 con lotta per le investiture: Enrico IV rivendicò per sé il diritto di nominare i vescovi, visto che questi dovevano amministrare un feudo imperiale, e Gregorio VII glielo negò, visto che essi dovevano amministrare una diocesi papale. Il risultato fu un'impasse: i vescovi fedeli all'imperatore deposero il papa e questi scomunicò l’imperatore, che fu poi costretto nel 1077 a recarsi a Canossa e inginocchiarsi di fronte a lui. Tornato a casa, Enrico IV elesse comunque un antipapa e fu di nuovo scomunicato.
La contesa si protrasse per mezzo secolo e si concluse con un accordo tra Enrico V e Callisto II, che separava i poteri di Stato e Chiesa: all’imperatore spettava l'investitura feudale, e al papa quella episcopale. La spartizione dei ruoli fu sancita dal Concordato di Worms del 1122, ratificato l’anno dopo dal Primo Concilio Lateranense, che divenne il primo dei tanti concordati che la Chiesa in seguito stipulò coi potenti della terra: ad esempio, nel 1801 con Napoleone in Francia, nel 1855 con Francesco Giuseppe in Austria, nel 1929 con Benito Mussolini in Italia, nel 1933 con Adolf Hitler in Germania, nel 1940 con Antonio Salazar in Portogallo, e nel 1953 con Francisco Franco in Spagna.
Da tutta questa bella gente la Chiesa ha ottenuto diritti e favori, in cambio di un sostegno più o meno tacito o espresso ai loro regimi. Tanto per fare l’esempio che ci tocca più da vicino, i Patti Lateranensi dell'11 febbraio 1929 fruttarono alla Chiesa un Trattato, una Convenzione finanziaria e un Concordato. Il Trattato riconobbe la sovranità della Santa Sede e l'indipendenza dello Stato della Città del Vaticano, e la Convenzione finanziaria elargì una ricompensa per i «danni ingenti» subiti dopo la conquista di Roma nel 1870 da parte dello Stato italiano.
Prima del 1929, infatti, i rapporti con la Santa Sede erano regolati dalla cosiddetta Legge delle Guarentigie del 1871, che non le concedeva alcun diritto territoriale: soltanto la disponibilità dei palazzi del Vaticano e del Laterano, e della residenza estiva di Castel Gandolfo. La legge istituì comunque unilateralmente una serie di privilegi per il papa e il clero, tra i quali una donazione annuale di 3.225.000 lire dell'epoca (pari a una decina di milioni- di euro di oggi).
La Santa Sede non rinunciò formalmente alla somma, ma non la incassò mai per non accettare informalmente lo status quo stabilito dalla legge. Nel 1929 il debito dello Stato italiano ammontava dunque, con gli interessi, a 3.160.501.113 lire (oggi circa dieci miliardi di euro). La Convenzione finanziaria, «apprezzando i paterni sentimenti del Sommo Pontefice», acconsenti a pagarne più o meno la metà: «750 milioni in contanti e un miliardo in consolidato 5 per cento al portatore».
Il Concordato vero e proprio, infine, stabili che le candidature vescovili dovevano essere sottoposte all'approvazione del governo italiano, e che i vescovi nominati dovevano giurare fedeltà al regime: l'unica eccezione era il Cardinale Vicario di Roma, come rappresentante del papa. Quanto ai preti, essi non potevano far politica, ma venivano esentati dal servizio militare e ricevevano una prebenda statale chiamata «congrua».
Da parte sua, lo Stato acconsenti a rendere le leggi matrimoniali conformi ai pregiudizi della Chiesa Cattolica: in particolare, a proibire il divorzio, con disposizioni che rimasero anacronisticamente in vigore fino al 1970. Quanto al Cattolicesimo, esso diventava religione di Stato e doveva essere insegnato in tutte le scuole: un insegnamento che rimane in vigore anche oggi, benché il Cattolicesimo abbia cessato di essere religione di Stato nel 1984.
Il soddisfatto Pio XI iniziò fin da subito a pagare il suo debito nei confronti del fascismo e già il 14 febbraio 1929, in un discorso all’Università del Sacro Cuore, rilasciò a Mussolini la famosa patente di «uomo della Provvidenza»:
Forse ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza ci ha fatto incontrare; un uomo che non avesse le preoccupazioni della scuola liberale, per gli uomini della quale tutte quelle leggi, diciamo, e tutti quei regolamenti erano altrettanti feticci e, proprio come i feticci, tanto più intangibili e venerandi quanto più brutti e deformi.
Quanto a Mussolini, nel suo discorso alla Camera del 5 maggio 1929 spiegò candidamente i motivi per cui un politico si allea col papa, ieri come oggi:
Le idee religiose hanno ancora molto impero, più di quanto non si creda da taluni filosofi. Esse possono rendere grande servizio all'umanità. Essendo d’accordo col papa si domina ancora la coscienza di 100 milioni [oggi un miliardo] di uomini.
Nel 1947 i Patti Lateranensi, lungi dall'essere abrogati dopo la caduta del fascismo, furono annessi alla Costituzione repubblicana tramite il famigerato articolo 7, grazie al tradimento di Palmiro Togliatti. I comunisti votarono infatti a favore, insieme a democristiani e qualunquisti, mentre socialisti, repubblicani e azionisti votarono contro, e i liberali si divisero fra i due schieramenti: fu il primo caso, anche se purtroppo non l'ultimo, degli sciagurati compromessi antistorici che una sinistra «sinistra» ha più volte regalato ai clericali, per il loro interesse e la sua vergogna. Come degno ringraziamento a Togliatti, un decreto del Sant'Uffizio del 1° luglio 1949 vietava ai cattolici, pena la scomunica, di aderire a (o anche solo collaborare con) partiti o movimenti di ispirazione comunista.
L'assurda situazione venutasi a creare con l'inserimento di un patto catto-fascista, stipulato «in nome della Santissima Trinità» e aperto da un richiamo allo Statuto Albertino del 1848, in una Costituzione repubblicana che all'articolo 9 proclama l'uguaglianza di tutte le confessioni di fronte alla legge, è stata oggetto di esame nel 1971 da parte della Corte costituzionale. Essa ha stabilito che i Patti Lateranensi sono fonti atipiche dell’ordinamento italiano, nel senso che hanno meno forza delle disposizioni costituzionali, ma più forza delle leggi ordinarie: sono infatti modificabili col mutuo consenso di Stato e Chiesa, ma non sono sottoponibili al sindacato di costituzionalità e non sono abrogabili per volontà popolare, né in maniera referendaria, né attraverso una proposta di legge.
Dopo sette tentativi falliti, tra il 1967 e il 1983, il Concordato dei 1929 è stato finalmente riveduto nel 1984 dal governo Craxi. E ovviamente caduto l'obbligo per i vescovi di giurare fedeltà allo Stato, e anche quello di far politica per i preti. Il matrimonio civile è stato svincolato da quello religioso, benché quest’ultimo continui a mantenere validità civile anche senza una doppia cerimonia. Il Cattolicesimo ha cessato di essere religione di Stato, ma ciò nonostante l’articolo 9 stabilisce:
La Repubblica italiana, riconoscendo il valore della cultura religiosa e tenendo conto che i principi del Cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano, continuerà ad assicurare, nel quadro delle finalità della scuola, l'insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado.
Agli insegnanti di religione delle proprie scuole lo Stato richiede un certificato di idoneità da parte dell'ordinario diocesano, ma non una laurea: basta anche un diploma di magistero in scienze religiose rilasciato da un istituto approvato dalla Santa Sede. Ciò nonostante, il governo Berlusconi ha creato nel 2003 un organico di 15.507 posti che li immette in massa in ruolo, e permette loro un successivo passaggio ad altre cattedre: 9222 sono stati assunti nel 2005 e 3077 nel 2006, mentre gli altri precari (regolarmente laureati) della scuola attendono da anni l'assunzione a tempo indeterminato.
Per quanto riguarda il clero, la revisione del Concordato sostituisce la congrua di sostentamento col finanziamento «volontario» dell' 8 per mille sul gettito totale dell’IRPEF. L'ammontare della cifra intascata annualmente dal Vaticano è di circa un miliardo di euro (2000 miliardi di vecchie lire): una somma che non è affatto destinata a opere di carità, come la pubblicità i clericale cerca di far credere ogni primavera, nel periodo della dichiarazione dei redditi. Piuttosto, come ammettono le cifre ufficiali della CEI relative al triennio 2002-2004, in media i fondi vengono destinati a interventi caritativi soltanto per il 20 per cento, mentre al sostentamento del clero va il 34 per cento e alle « esigenze di culto » il 46 per cento.
Tra l’altro, il meccanismo del finanziamento è furbescamente truffaldino. Solo un terzo degli italiani sceglie infatti a chi devolvere l'8 per mille del proprio reddito: se allo Stato, alla Chiesa Cattolica o ad altre confessioni religiose (non sono contemplate organizzazioni umanitarie o scientifiche). Ma l’articolo 37 della legge di attuazione recita: «In caso di scelte non espresse da parte dei contribuenti, la destinazione si stabilisce in proporzione alle scelte espresse ». E poiché, nella minoranza che sceglie, la maggioranza opta a favore della Chiesa Cattolica, questa ottiene la maggioranza (circa l'85 per cento) dell'intero gettito.
Al miliardo di euro dell'8 per mille dei contribuenti, va aggiunta ogni anno una cifra dello stesso ordine di grandezza sborsata dal solo Stato (senza contare regioni, province e comuni) nei modi più disparati: nel 2004,146 ad esempio, sono stati elargiti 478 milioni di euro per gli stipendi degli insegnanti di religione, 258 milioni peri finanziamenti alle scuole cattoliche, 44 milioni per le cinque università cattoliche, 25 milioni per la fornitura dei servizi idrici alla Città del Vaticano [sic], 20 milioni per l’Università Campus Biomedico dell'Opus Dei, 19 milioni per l'assunzione in ruolo degli insegnanti di religione, 18 milioni per i buoni scuola degli studenti delle scuole cattoliche, 9 milioni per il fondo di sicurezza sociale dei dipendenti vaticani e dei loro familiari, 9 milioni per la ristrutturazione di edifici religiosi, 8 milioni per gli stipendi dei cappellani militari, 7 milioni per il fondo di previdenza del clero, 5 milioni per l'Ospedale di Padre Pio a San Giovanni Rotondo, 2 milioni e mezzo per il finanziamento degli oratori, 2 milioni per la costruzione di edifici di culto, e cosi via.
Aggiungendo a tutto ciò una buona fetta del miliardo e mezzo di finanziamenti pubblici alla sanità, molta della quale è gestita da istituzioni cattoliche, si arriva facilmente a una cifra complessiva annua di almeno tre miliardi di euro, cioè 6000 miliardi di vecchie lire. Ma non è finita, perché a queste riuscite uscite vanno naturalmente aggiunte le mancate entrate per lo Stato dovute a esenzioni fiscali di ogni genere alla Chiesa, valutate attorno ad altri sei miliardi di euro, cioè 12.000 miliardi di vecchie lire.
Gli enti ecclesiastici sono infatti circa 59.000 e posseggono circa 90.000 immobili, adibiti agli scopi più vari: parrocchie, oratori, conventi, seminari, case generalizie, missioni, scuole, collegi, istituti, case di cura, ospedali, ospizi, e così sia. Il loro valore ammonta ad almeno 30 miliardi di euro, ma essi sono esenti dalle imposte sui fabbricati, sui terreni, sul reddito delle persone giuridiche, sulle compravendite e sul valore aggiunto (IVA).
Per capire l'entità di questa enorme cifra complessiva di nave miliardi di euro, cioè 18.000 miliardi di vecchie lire, basta notare che si tratta del 45 per cento della manovra economica per la Finanziaria del 2006, che è stata di 20 miliardi: ovvero, senza la Chiesa, o almeno senza i suoi privilegi economici, lo Stato potrebbe praticamente dimezzare le tasse a tutti i suoi cittadini!
Come se non bastasse, alle esenzioni fiscali statali si aggiungono anche quelle comunali: ad esempio dall’ICI (« Imposta Comunale sugli Immobili »), in quanto gli enti ecclesiastici si autocertificano come « non commerciali ». Una sentenza della Corte di Cassazione, depositata l’8 marzo 2004, ha però stabilito che un centro di assistenza per bambini e anziani gestito
dalle suore del Sacro Cuore dell'Aquila non poteva essere esentato dall'imposta, avendo fatto pagare rette regolari ai suoi ospiti: le suore dovevano dunque al Comune 70.000 euro di imposte arretrate. Poiché il precedente esponeva la Chiesa a simili rischi dovunque, i governi Berlusconi e Prodi sono corsi ai ripari: il primo allegando un temporaneo provvedimento alla Finanziaria per il 2006, e il secondo approvando un definitivo provvedimento che garantisce furbescamente l'esenzione dall'ICI agli enti « non esclusivamente commerciali ». Ovvero, a tutte le imprese commerciali che siano dotate di una cappella, nella quale pregare Dio per l'animaccia balorda dei Cattolici e dei loro fiancheggiatori laici che siedono in parlamento, a destra o a « sinistra ».
In tal modo i comuni italiani perdono un gettito valutato intorno ai 2 miliardi e 250 milioni di euro annui. La Santa Sede possiede infatti un enorme patrimonio immobiliare anche fuori della Città del Vaticano, in parte specificato dal Trattato del 1929: dal palazzo del Sant'Uffizio a piazza San Pietro a quello di Propaganda Fide a piazza di Spagna, dall’Università Gregoriana al Collegio Lombardo, dalla basilica di San Francesco ad Assisi a quella di Sant'Antonio a Padova, da Villa Barberini a Castel Gandolfo, all’area di Santa Maria di Galeria che ospita la Radio Vaticana, e che da sola è più estesa del territorio del1'intero Stato (44 ettari).
Ma questi non sono che i gioielli della corona di una multinazionale che, secondo una stima recente, nel 2003 disponeva nella sola Italia di 504 seminari e 8779 scuole, suddivise in 6228 materne, 1280 elementari, 1136 secondarie e 135 universitarie o parauniversitarie. Oltre a 6105 centri di assistenza, a suddivisi in 1853 case di cura, 1669 centri di « difesa della vita e della famiglia », 729 orfanotrofi, 534 consultori familiari, 399 nidi d'infanzia, 136 ambulatori e dispensati e 111 ospedali, più 674 di altro genere.
È naturalmente ironico, oltre che illustrativo della citata «svolta costantiniana», che a possedere un tale tesoro, che si può globalmente valutare ad alcune centinaia di miliardi di euro, e a non pagarci neppure sopra le tasse, siano proprio coloro che dicono di ispirarsi agli insegnamenti di qualcuno che predicava: « Beati i poveri » e « Date a Cesare quel che è di Cesare », facendo letterali miracoli pur di permettere ai suoi apostoli di pagare anche una sola moneta di tributo.